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Sonno ed emozioni. Intervista a Carolina Lombardi


Sonno sano, sonno malato. Se esiste una medicina del sonno, vorrà pur dire che il sonno è, o può essere, una medicina. Se non, appunto, alterato. Sicuramente esiste una “igiene” del sonno. Compito di medici e ricercatori è quella di cercare di comprendere il ruolo del cervello e dei neurotrasmettitori centrali nel sonno e nella fase Rem (quella in cui, tra le tante altre funzioni, sognamo). A questo riguardo, suscita grande interesse il tema “sonno e  regolazione delle emozioni”. Un settore di ricerca in campo neurofisiologico che, però, lascia intravedere ricadute anche in ambito clinico.

Se le emozioni sono alla base del nostro vissuto, è dato comune che influenzino non solo i nostri comportamenti ma, alla lunga, nei casi di ansia o stress cronici, anche possibili alterazioni del nostro organismo. E’ dato ormai accertato il ruolo dello stress cronico, ma pure dell’ansia, nelle alterazioni e patologie cardiovascolari. Ecco perché queste ricerche, di stretto interesse tanto di neurologi che cardiologi, suscitano attenzione in ambito medico.

Sul significato da attribuire alle recenti ricerche di Walker e collaboratori, abbiamo rivolto alcune domande a Carolina Lombardi.  Medico e neurofisiopatologo, Carolina Lombardi ha conseguito il dottorato di ricerca in medicina del sonno presso l’Università di Bologna, lavorando con il padre fondatore della disciplina in Italia: Elio Lugaresi. Carolina Lombardi è attualmente coordinatrice del Laboratorio di medicina del sonno dell’Istituto Auxologico di Milano.

Come giudica questo lavoro e, in generale, le ricerche del gruppo di Walker e dello Sleep and Neuroimaging Lab dell’Università di California, Berkeley, su sonno e fase Rem?

Mi sembra un lavoro molto interessante, condotto con metodica rigorosa e sicuramente il gruppo ha esperienza sull’argomento e pubblicazioni solide.

Ci sono degli aspetti metodologici di questo lavoro che sono pubblicati a parte (parlano di “supplemental files”) e non ho avuto modo di vederli. La cosa più importante da verificare è come sono state registrate le polisonnografie (condizioni ambientali, montaggio, adattamento, ecc.) che potrebbero essere bias importanti e devono essere assolutamente standardizzate per trarre delle conclusioni di neurofisiologia così fine.

Però dalle caratteristiche della stesura del lavoro, dall’esperienza del gruppo e dall’impact factor della rivista su cui è pubblicato il lavoro penso che siano stati rigorosamente controllati. 

Questo lavoro, a suo parere, dà anche indicazioni cliniche, oltre che conoscenze di base?

A mio parere sicuramente, nel senso che non fornisce da solo dirette indicazioni sul trattamento dell’ansia, ma può essere la base su cui fondare una nuova consapevolezza, cioè che i disturbi del sonno riferiti da pazienti con disturbi dell’umore non sono l’effetto solamente dell’ansia in quanto tale, ma probabilmente originano da una base neurotrasmettitoriale comune. Questo come è intuitivo, può rappresentare una svolta nell’approccio terapeutico in tali pazienti.

Se una buona qualità del sonno depotenzierebbe l’attività dell’ amigdala riguardo la reattività emozionale, e l’ippocampo nel consolidare emozioni negative, avendo perciò un ruolo “benefico” su ansia e stress, come si spiega che nei depressi risulti benefica la deprivazione controllata del sonno?

La mia opinione è che questo conferma come ansia e depressione, pur essendo spesso comorbigene, hanno in realtà meccanismi neurochimici diversi.

Consideriamo anche che nei depressi è descritta una latenza Rem ridotta e che gli antidepressivi in genere aumentano la latenza Rem. Viceversa succede negli insonni (molto spesso con un livello d’ansia elevato), anche se la letteratura sull’insonnia, spesso mette insieme insonnie di diversa natura, non ben caratterizzate dal punto di vista polisonnografico.

Quindi la mia spiegazione di queste osservazioni si basa su:

°  meccanismi neurochimici diversi anche se potenzialmente sovrapponentisi tra ansia e depressione

°  l’intervento diverso viene fatto su una struttura ipnica diversa in partenza e quindi il significato dell”intervento deve essere “giudicato” partendo dalla alterazioni iniziali

° il sonno è un processo attivo che si basa su equilibri dinamici e su una composizione ed alternanza funzionale di gruppi neuronali che si orchestrano, in fisiologia, in maniera armonica. Data questa interazione continua, gli effetti di interventi  apparentemente diversi su un punto della catena (privazione controllata di sonno e quindi “cosmesi” della struttura del sonno, oppure potenzialmento di alcune fasi selettive di sonno) finiscono in una via comune (uguale  consolidamento di una “corretta” struttura ipnica, che si basa su specifiche caratteristiche elettriche corticali e sottocorticali, corretta modulazione autonomica, rispetto dell’alternanza NRem-Rem). E necessariamente sono il risultato non solo diretto di quella modificazione, ma della reazione a catena che quella modifica genera. Quindi, per capirne esattamente i percorsi…c’è ancora molto da lavorare.

La speculazione affascinante in questo ambito che si ricava dallo studio è che, in un futuro cybernetico, si andrà verso una “personalizzazione” della struttura del sonno puntando ad ottimizzare non solo in termini di quantità, ma soprattutto di qualità, la macro e microstruttura ipnica. Sarà sempre più vera l’affermazione: “fammi vedere come dormi e ti dirò chi sei”.

Dormi che ti passa. Il sonno regola le emozioni


Come vi svegliate dopo una buona notte di sonno? Calmi, riposati, sereni, positivi? Bene, oggi c’è la dimostrazione sperimentale del fatto che una bella dormita, accompagnata da altrettante buone fasi Rem (quelle in cui si sogna, mediamente 3 o 4 in un sonno di 8 ore, con cadenze di 90 minuti) diminuisca l’attività dell’amigdala. Situata al centro del cervello, nel lobo temporale, l’amigdala controlla l’intensità e la risposta emozionale. Nell’osservazione quotidiana, è facile constatare come il sonno si leghi al nostro stato emotivo. Ed altrettanto è stato constatato in ambito clinico, relativamente ai disturbi dell’umore. In particolare nella depressione, nell’ansia e nello stress.

Gli stati d’ansia influenzano negativamente la buona qualità del sonno, e viceversa. In questi casi si innesca un circolo vizioso così che non dormendo bene si è nervosi e ansiosi durante il giorno, e successivamente insonni, o mal dormienti, durante la notte. L’altro legame molto stretto tra stati affettivi, sonno e sogni, è verificato da tempo nella depressione. Non è tuttora ben chiaro, ad esempio, perché la deprivazione controllata del sonno, in ambiente medico, sia efficace negli stati depressivi. Ciò che viene da supporre è proprio questo legame tra la fase Rem (detta anche “sonno paradosso”), l’amigdala e, probabilmente, il riattivarsi e consolidarsi, attraverso l’ippocampo, di emozioni negative durante il sonno.

In sostanza, il sonno sarebbe terapeutico in transitori stati d’ansia e di nervosismo, per smaltire le tensioni della giornata. Ma se invece ci troviamo di fronte a conclamati e protratti disturbi dell’umore, come la depressione, le cose vanno diversamente. Molti depressi, ad esempio, lamentano regolarmente stanchezza, apatia, sonnolenza, e dormirebbero di continuo. Senza però trarne beneficio. Anzi. Che il sonno non sia uno stato, ma invece più simile a un comportamento è opinione sempre più diffusa tra gli scienziati del sonno.

La ricerca condotta e pubblicata di recente dal team del neuroscienziato Matthew Walker, direttore dello Sleep and Neuroimaging Laboratory dell’Università di California, Berkeley, mostra come il cervello delle persone che hanno potuto godere di una buona notte di sonno sia meno reattivo, sul piano emozionale, di quello di altrettanti volontari tenuti svegli per l’intero periodo notturno.  L’attività del cervello dei soggetti dormienti e non dormienti è stata registrata attraverso scansione con risonanza magnetica funzionale (fMRI). In pratica ai due campioni di soggetti venivano mostrate immagini emotivamente cariche, osservando e registrando come reagisse la loro amigdala. I soggetti che avevano beneficiato del sonno mostravano una intensità emotiva alle immagini inferiore, anche alla ripetizione dell’esperimento dopo 12 ore, rispetto a coloro che erano stati svegli.

Nel lavoro pubblicato da Current Biology Matthew Walker e collaboratori ritengono di aver dimostrato come il sonno Rem contribuisca a una “dissipazione” di carica emozionale da parte dell’amigdala, in risposta a precedenti esperienze emozionali (della giornata o di periodi precedenti). Tutto ciò si tradurrebbe in una minore emotività soggettiva, il giorno successivo. Torna quindi la vecchia idea di sonno e sogno come pulizia, “resettaggio” e “messa a punto” del cervello e delle funzioni neuronali.

Il sonno e il sogno, di buona qualità, avrebbero dunque anche il ruolo di sopprimere, temporaneamente, il ruolo dei neurotrasmettitori adrenergici centrali, comunemente implicati – dicono gli autori di questo lavoro – nell’eccitazione e nello stress, assieme all’attivazione di amigdala e ippocampo. Reti neurali che codificano e memorizzano  le esperienze salienti (consolidamento della memoria attraverso le emozioni, ad esempio) , avendo quindi anche il ruolo di potenziarle e depotenziarle sul piano dell’intensità emotiva.

Vedi anche: Sonno ed emozioni. Intervista a Carolina Lombardi

Il sogno di Astarte e quelli di Camilleri


Ho appena visto e soprattutto ascoltato in tv quel grande narratore che è Andrea Camilleri (Che tempo che fa). Raccontava alcuni suoi sogni in cui era al centro della scena e cantava in opere liriche al Bolschoi di Mosca e al Sidney Opera House, dove peraltro non ha mai messo piede. Ci si appassiona ai suoi racconti onirici come ai suoi libri. Come a qualsiasi suo altro racconto di vita. Il suo cervello è quello di un raccontatore di storie. Seguita a produrne sia da sveglio che da addormentato. Anche per Camilleri vale quello stupendo appellativo che gli indigeni di Upolu (Isole Samoa) diedero a Robert Louis Stevenson: “tusitala”, narratore di storie.

Stanotte, da parte mia, ho invece sognato di dialogare con una figura femminile, sullo sfondo di un luogo agreste. La donna davanti a me dice di essere “Astarte”. Chissà perché vado a ripescare dalle profondità della mia mente una figura mitologica del profondo passato umano. Nessun nesso con ciò che possa aver pensato, letto, visto o discusso – almeno consapevolmente – nei giorni immediatamente precedenti. E allora? Che abbia ragione Jung e qualche base per la sua teoria dell’inconscio collettivo, del riaffiorare di miti e memorie collettive, ci sia nell’esperienza comune? Mah.

Mauro Mancia: il fisiologo dell’inconscio


 

Ho incontrato la prima volta Mauro Mancia molti anni fa, all’Istituto di Fisiologia umana seconda dell’Università di Milano, che egli dirigeva. Mi colpì a prima vista il suo mix di capelli neri e lunghi sulla nuca, da sessantottino, l’aspetto ieratico, longilineo, per niente italiano, e il parlare scandito, rigoroso, calmo, preciso. Ed era davvero singolare che fosse medico, fisiologo e psicoanalista. Lo incontrai per intervistarlo su una delle sue grandi passioni, probabilmente la maggiore della sua vita di studioso: sonno e sogno. In questo tema Mancia scorse, a ragione, uno dei problemi cardine per cercare di comprendere e chiarire il misterioso salto dalla mente al corpo, come diceva Freud. Stavo scrivendo una serie di articoli sul sogno dal punto di vista scientifico, e arrivai a Mancia su indicazione di Cesare Musatti, suo analista didatta.  «Vada a parlare col mio allievo Mauro Mancia – mi suggerì Musatti – ha molte cose interessanti da raccontarle al riguardo».

Dalla sua formazione in ambito medico, al corso di studi del suo insegnamento accademico fino alla psicoanalisi, fu conseguenza inevitabile per Mancia occuparsi di neurofisiologia e precorrere i tempi del grande interesse verso le neuroscienze. Va aggiunto che, in un primo tempo, Mauro Mancia avrebbe voluto fare lo psichiatra. Proposito che abbandonò per seguire il percorso della psicoanalisi freudiana, dopo l’esperienza delle prime guardie all’allora Ospedale psichiatrico milanese Paolo Pini di Affori, diretto dal padre della psichiatria italiana Carlo Lorenzo Cazzullo. Tra l’altro fu proprio Cazzullo, a quanto egli stesso mi raccontò, a sconsigliare Mancia di proseguire sulla via psichiatrica, in quanto troppo emotivamente coinvolto dai pazienti psichiatrici.

Ho a lungo frequentato anche Marco Margnelli, con Mancia entrambi neurofisiologi-sperimentatori su sonno e sogno (purtroppo allora si trovarono a svolgere tali ricerche registrando l’attività cerebrale dei gatti, cosa di cui Margnelli, e credo pure Mancia, si sarebbero successivamente pentiti)  seguendo l’insegnamento del grande Giuseppe Moruzzi. Fu una importante stagione della ricerca neurofisiologica italiana, che avrebbe dovuto dar luogo ad un altrettanto radioso avvenire per le neuroscienze nazionali. Cosa che invece non avvenne, o avvenne molto marginalmente. Uno dei motivi fu il solito di oggi: mancanza di fondi adeguati per la ricerca. Era al tramonto l’era dei laboratori di neurofisiologia composti fondamentalmente da elettroencefalografi (EEG) ed elettrodi – o meglio sopravvivevano, ma integrati con i nuovi e costosi programmi e apprecchiature computerizzati. Per non parlare dell’avvento della ricerca per neuroimmagini.

Le neuroscienze hanno richiesto e richiedono pure oggi investimenti molto onerosi, cosa che né il CNR, per il quale Margnelli lavorava, né tantomeno l’Università potevano affrontare. Margnelli raccontava che certe cose occorrenti presso il suo ufficio, doveva addirittura acquistarle personalmente o portarsele da casa. Questo per dire che pure Mauro Mancia non ha potuto disporre di grandi mezzi per condurre i propri studi in neuroscienze. Il mezzo migliore sono stati il suo stesso cervello, il suo acume e l’aggiornamento costante che praticò da accademico e ricercatore, oltre ai collaboratori e allievi che ha saputo creare. La psicoanalisi fu un ulterire strumento intellettuale di cui poter disporre. E, anche attraverso Mancia, la psicoanalisi è uscita dai salottini e si è alzata dai divanetti, per entrare nei laboratori e nei protocolli di ricerca. In fondo, Freud e Jung erano medici. Freud preconizzò l’avvento e la fortuna delle neuroscienze e della neurofarmacologia.

Ho chiesto a Luca Imeri,  anch’egli docente al Dipartimento di Fisiologia umana II dell’Università di Milano, come allievo e continuatore degli studi di Mancia, quale ritiene sia il maggior contributo che egli abbia lasciato nella comprensione dei rapporti tra neuroscienze e psicoanalisi.

«Mi sembra che il tratto più caratteristico e importante della figura scientifica di Mancia – spiega Imeri – consista nel suo essere stato un neurofisiologo ed uno psicoanalista che ha praticato entrambe le discipline di prima mano. Mancia, l’attività dei neuroni cerebrali non solo l’ha studiata, ma l’ha registrata direttamente in laboratorio. E, insieme, per anni ha visto pazienti e supervisionato colleghi. Mi sento di dire che non credo siano in molti, non solo a livello italiano, ma internazionale, ad avere (o avere avuto) un percorso professionale così peculiare che ha fornito a Mancia un punto d’osservazione speciale e prezioso sulla relazione mente-corpo. Alla sua scomparsa nel 2007, ne ho scritto l’obituary per Sleep (la rivista di settore più importante a livello mondiale per chi si occupa professionalmente di studiare il sonno e curarne i disturbi), in cui è possibile trovare altri informazioni su Mancia, il suo contributo e qualche mia considerazione».

Ora Milano celebra giustamente e finalmente, a tre anni dalla scomparsa, il suo maestro con un incontro dal titolo  “Mauro Mancia. Una vita tra psicoanalisi e neuroscienze”. Ovvero: “Inconscio non rimosso, memoria, sogni. Studiosi italiani e stranieri si confrontano sui filoni principali delle ricerche di Mancia cercando i punti di contatto tra Psicoanalisi e Neuroscienze” (Sabato 20 marzo, Casa della Cultura, Via Borgogna 3, Milano, dalle 9.15 alle 16.30).

Le note di presentazione della giornata dicono:

Mauro Mancia (Fiuminata 1929 – Milano 2007) considerato uno dei padri delle neuroscienze in Italia è stato allievo di Cesare Musatti, ha dedicato la vita a discipline apparentemente parallele – le Neuroscienze e la Psicoanalisi. Convinto che le due dottrine fossero indispensabili per la conoscenza della mente umana, vide le contaminazioni più fertili nell’ambito della Memoria e del Sogno; senza mai trascurare le fondamentali differenze di metodi e strumenti usati per lo studio.

Studioso rigoroso e severo, ha creduto nell’alleanza tra Psicoanalisi e Neuroscienze creando le basi per gli odierni filoni di studio alla scoperta della mente umana: “Esse sono alleate” – affermava Mancia – “dal momento che è possibile considerare alcune funzioni della mente fondamentali per la Psicoanalisi, come quelle di inconscio radicate nelle funzioni della mente, care alle Neuroscienze, come la memoria. Anche nel sogno è possibile trovare delle forme di alleanza anche se il metodo di studio è diverso: le Neuroscienze si occupano della organizzazione neurofunzionale del sogno e dei trasmettitori coinvolti, mentre la Psicoanalisi è interessata al significato del sogno e alla sua integrazione con le esperienze affettive ed emozionali più precoci”. 

Mauro Mancia è stato professore emerito di Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Milano, presidente dell’ASSORN (Associazione per la Ricerca Neurofisiologica), presidente della SIRS (Società Italiana di Ricerca sul Sonno). Ha fondato il Centro Sperimentale di Ricerca del Sonno “G.Moruzzi” che ha diretto per alcuni anni. E’ stato membro ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana e analista dell’International Psychoanalytical Association.

Ha pubblicato libri e diversi lavori sia scientifici come neurofisiologo sia teorico/clinici come psicoanalista.

Tra i suoi libri ricordiamo la sua ultima fatica,  Narcisismo, Il presente deformato dallo specchio appena pubblicata postuma da Bollati Boringhieri; Sonno & sogno (Laterza, 2006); Il sonno e la sua storia. Dall’antichità all’attualità (Marsilio, 2004); Sentire le parole. Archivi sonori della memoria implicita e musicalità del transfert, Bollati Boringhieri, 2004; Psicoanalisi e Neuroscienze, Springer, 2007.

A Milano si raccolgono amici, studiosi, allievi, per ricordare la sua straordinaria figura e per portare avanti i suoi filoni di ricerca. Tra i partecipanti: Vittorio Gallese che con Giacomo Rizzolatti e il gruppo di ricerca dell’Università di Parma sono famosi in tutto il mondo per avere scoperto i “neuroni specchio” e che approfondirà il tema Psicoanalisi e Neuroscienze.

Mauro Manica, psichiatra di Novara e membro SPI, recentemente insignito del Ticho award 2009 (premio per analisti che si siano distinti per il loro lavoro clinico e di ricerca) in occasione del Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Chicago e Antonio Di Benedetto, psicoanalista che con lui condivideva le ricerche su musica e psicoanalisi.

Singolare davvero, aggiungo io, per quelle strane cose che la vita ci riserva, l’associazione tra Mauro Mancia e Mauro Manica: praticamente omonimi, se non fosse per quella “i” preposta o posposta, a seconda di chi ci si riferisca. Tanto che capita si pensi ad un errore di battuta, confondendo Mancia per Manica, e viceversa. Davvero uno scherzo freudiano (della serie “motti e giochi di parole”) o uno scambio di personalità alla Pessoa, che avrebbero certamente divertito un raffinato e ironico pensatore come Mauro Mancia.

 

Il ricordo dell’arte


Che vi siano rapporti tra l’arte e la memoria è scontato. Persino chi raffigura un paesaggio, oppure un oggetto, in modo pressoché “fotografico”, introduce contenuti suoi propri, della sua memoria. Quanto è immagazzinato all’interno della nostra memoria (anzi, delle nostre memorie, essendo definitivamente tramontato il concetto di una memoria unitaria), interferisce e agisce con quanto realizziamo sul piano creativo e artistico.  In certe espressioni artistiche il contenuto mnesico soverchia la percezione del mondo esterno, sostituindosi quasi completamente. Ciò che ho nella mente e nel corpo (la memoria del corpo) è quanto raffiguro nella mia espressività artistica. E il confine tra realtà esterna e realtà interna, nell’artista, è qualcosa di molto precario. Così tra memorie reali e memorie concettuali.

Basti pensare al caso, studiato dal neuroscienziato e scrittore Oliver Sacks, di Franco Magnani, definito “un artista della memoria”. Nel senso che riproduceva Pontito, il paese natale sulle colline toscane, soltanto attraverso i ricordi che ne aveva. Ma riusciva a farlo nel minimo dettaglio, attingendo alla propria memoria dei luoghi e degli edifici che aveva immagazzinato nel proprio cervello in maniera veramente fotografica. E lo faceva dipingendo dagli Stati Uniti, dove si era trasferito giovanissimo.

«Questa, dunque, non era un’esibizione di memoria ” pura “», osserva Oliver Sacks (Un antropologo su Marte, 1995), «ma di una memoria asservita a un unico motivo dominante: il ricordo del paese della sua infanzia. Adesso mi rendevo conto che non era solo un esercizio di memoria, ma anche di nostalgia – e non solo un esercizio, ma una compulsione e un’arte».

Tutto ciò mi è tornato alla mente, visitando la mostra di Sonja Quarone (Se ti ricordi bene, Cavallerizza del Castello di Vigevano, 30 gennaio-14 febbraio 2010). I suoi lavori sono pezzi di memoria. In senso fisico. Sono ricordi, angosce, incubi, ma anche lamenti, sogni, desideri, emozioni, urla, ironia, pianti e risate che si materializzano. Ho scambiato qualche battuta con Sonja Quarone, che è artista autentica, aperta al dialogo e al coinvolgimento con la gente che vede e reagisce alle sue opere. Ho fatto presente che uno psicoanalista ci andrebbe a nozze, con quanto realizza. Sorridendo, mi ha confessato che durante una esposizione la chiamò al telefono uno psichiatra francese, dicendole tutto trafelato: «Ho visto le sue opere. Devo incontrarla il più presto possibile: lei è in pericolo!». Ha fatto sorridere pure me.

Sonja aggiunge invece che questa mescolanza di ricordi, foto e oggetti che le appartengono – sia come mondi interni che esterni – materializzati fuori da sé, partoriti sarebbe giusto dire (molti oggetti sono bambolotti amniotici, effetto ottenuto avvolgendoli di resina, ricorda molto il lavoro dei ceroplasti di secoli addietro), rappresentano una distanza dal sé, un qualcosa che, anche rivisto, “mi dà calma”. Forme di vita che si fondono, amalgamano con cose, oggetti dei più vari, pezzi di fotografie. Forme di vita protoplasmica. Vite che si sfaldano, spezzettano e, contemporaneamente, si ricompongono sotto altre modalità. Altre possibilità. Una foto fissa e contemporanemente uccide un momento ben preciso. Un trancio di foto ricomposto da Sonja Quarone riprende, invece, vita. Con la sua creatività, Sonja Quarone resuscita, ridona nuova esistenza a foto e oggetti dismessi, altrimenti destinati alla discarica. I rifiuti-rifiutati (anche nel senso di ricordi, e pure gli oggetti equivalgono a ricordi) diventano arte. Non si butta nulla: tutto ritorna nel ciclo vitale. Anche ciò che è morto.

La formazione di Sonja è nell’ambito dell’arte concettuale. Con quanto realizza, dimostra che la memoria non è soltanto delle idee, dei pensieri e dei concetti, ma pure, soprattutto, del corpo. Per questo, i suoi lavori suscitano emozioni e reazioni fisiche contrastanti. E dopo, fanno discutere.

Avatar e stati di coscienza


Chi  ha  visto Avatar,  il nuovo film di James Cameron, non è rimasto indifferente. Tutt’altro. Quasi tutti i critici e recensori ne parlano come di una “esperienza”. E di questo, in effetti, si tratta. Più che il classico film visto tanto per distrarsi o divertirsi un paio d’ore. Anche se il piacere della visione non manca. Anzi.

La trama New Age ed ecologista, si basa sulla dicotomia natura-tecnologia, interessi materiali-vissuti spirituali. L’ottusità del potere e della  prepotenza dei singoli  rispetto alla vita comunitaria, il rapporto intimo, profondo, con l’ambiente naturale. Molti i riferimenti allo zen (“Non può essere riempita una tazza già colma”), allo sciamanesimo, allo spiritualismo, alla reincarnazione (o alla trasmigrazione dell’anima o meglio, della coscienza, qui tentata in modo scientifico e temporaneo, poi ottenuta stabilmente per via sciamanica – da cui il seguito del prossimo Avatar), alle esperienze fuori dal corpo (OBE, out of the body experience), al soprannaturale e al misticismo. Produttore esecutivo di Avatar è del resto Colin Wilson, studioso e profondo conoscitore di tutte le tematiche connesse al paranormale, autore di molti saggi su temi esoterici e parapsicologici, oltreché nell’ambito della fantascienza. Con Avatar, Wilson e Cameron hanno realizzato un vero e proprio compendio di temi esoterici e paranormali contrapposti alla scienza positivista. E ci hanno messo dentro temi da inconscio collettivo, come quello del “doppio” o della “grande madre”. Un film decisamente junghiano.

Il viaggio in un altrove generato dalla geniale mente di Cameron è assicurato. Si tratta di una anticipazione delle esperienze sensoriali di realtà virtuale che, da qui a qualche decennio, consentiranno di viaggiare in mondi, reali o immaginari, fantastici e perfetti in ogni particolare, totalmente creati dai computer. I sogni diventeranno sempre più parte della nostra realtà. Anzi, il confine tra onirico e reale sarà un concetto sempre più sfumato.

Cameron ha inseguito la realizzazione di questa storia in 3D per diversi anni, attendendo che la grafica computerizzata evolvesse al punto di poter realizzare un progetto così ricco e complesso.  Riuscendo ora a realizzare il film più costoso di tutta la storia del cinema. Ma pure destinato a diventare il più visto. Dando luogo ad una nuova saga fantascientifica.

Come riferisce Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 30.01.10) Cameron ha atteso l’evoluzione delle nuove tecnologie, che gli hanno consentito di “perfezionare la cinematografia tridimensionale fino a realizzare sequenze flash nelle quali le immagini vengono proiettate alternativamente all’occhio destro e a quello sinistro ma a una velocità tale – 24 volte al secondo – dal dare allo spettatore la sensazione della simultaneità”.

James Cameron è ben addentro anche alle questioni neuropsicologiche attuali. Quando gli chiedono se nel suo lavoro relativo ad Avatar prevalga più l’arte o l’ingegneria, risponde che ha dovuto utilizzare “tutti e due i lobi del cervello, quello della creatività, indispensabile per emozionare gli spettatori, e quello della disciplina perché altrimenti sarebbe impossibile condurre in porto un film. Un’impresa nella quale centinaia di ingegneri e tecnici informatici hanno lavorato per due anni  e mezzo a creare immagini e sfondi prima che sul set arrivasse il primo attore. Che poi è stato costretto a recitare in una stanza vuota, su uno sfondo bianco”.

Sulla simbologia del film, Cameron risponde: “Il film contiene messaggi universali, è contro tutti i colonialismi, dall’impero romano alle conquiste spagnole, fino ai giorni nostri”. L’abilità e la furbizia del film è pure quella di evocare vari ricordi e immagini sedimentati nella nostra memoria. Dai nativi americani, agli Incas e ai Maya, ad esempio, con rispettivi morfologie, credenze e rituali. “Vuole trasmettere il suo messaggio attraverso le emozioni – prosegue Cameron. Usa idee semplici. Qualcuno dice semplicistiche. Io rispondo: no, viscerali”.

Cameron ha creato un mondo e un linguaggio. Su un altro pianeta. Da un’altra parte. E ci consente di visitarlo. Anzi, di entrarci dentro. Come avatar, appunto. Il termine, ormai in uso nella blogsfera come sinonimo di “personalità digitale”, deriva in effetti dal sanscrito, col significato di incarnazione, o meglio, discesa in terra  della divinità. Un po’ divinità lo siamo, quando ci muoviamo in un ambiente di realtà virtuale. E l’avatar di Cameron si muove e interagisce, con un altro suo sé, in un pianeta extraterrestre. Il pianeta Pandora, terra esotica situata nel sistema stellare di Alpha Centauri.

Cameron (non dimentichiamo che, oltre che regista e specialista in effetti speciali, è pure uomo di scienza, laureato in fisica) non ha lasciato nulla al caso, sia dal puno di vista tecnico che simbolico. Avatar, Pandora, Alpha Centauri: sono tutti lemmi che evocano nella nostra mente sensazioni, emozioni, ricordi. E il suo Avatar è una esperienza di modificazione dello stato di coscienza allo stato puro.

Il cinema concede al nostro cervello di vivere un lasso di tempo sganciato dalla realtà personale, per farsi catturare da quella narrata sullo schermo. Per questo il cinema è anche terapeutico.  Avatar è questo tipo di esperienza, onirica ma eccezionalmente reale, ai massimi livelli. C’è pure la possibilità di proseguire l’esperienza a casa nostra, attraverso una webcam, collegandosi a Pandorama.

Non sappiamo ancora se visitatori alieni giungano fin qui a bordo di misteriose quanto inafferrabili astronavi (per non parlare delle arzigogolate quanto flebili tracce nei campi di grano). Ma la nostra voglia di entrare in contatto con altri mondi e altre genti galattiche, in parte soddisfatta da una produzione fantascientifica sempre più evoluta e sofisticata, è certamente molto reale ed intensa.