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Il ricordo dell’arte


Che vi siano rapporti tra l’arte e la memoria è scontato. Persino chi raffigura un paesaggio, oppure un oggetto, in modo pressoché “fotografico”, introduce contenuti suoi propri, della sua memoria. Quanto è immagazzinato all’interno della nostra memoria (anzi, delle nostre memorie, essendo definitivamente tramontato il concetto di una memoria unitaria), interferisce e agisce con quanto realizziamo sul piano creativo e artistico.  In certe espressioni artistiche il contenuto mnesico soverchia la percezione del mondo esterno, sostituindosi quasi completamente. Ciò che ho nella mente e nel corpo (la memoria del corpo) è quanto raffiguro nella mia espressività artistica. E il confine tra realtà esterna e realtà interna, nell’artista, è qualcosa di molto precario. Così tra memorie reali e memorie concettuali.

Basti pensare al caso, studiato dal neuroscienziato e scrittore Oliver Sacks, di Franco Magnani, definito “un artista della memoria”. Nel senso che riproduceva Pontito, il paese natale sulle colline toscane, soltanto attraverso i ricordi che ne aveva. Ma riusciva a farlo nel minimo dettaglio, attingendo alla propria memoria dei luoghi e degli edifici che aveva immagazzinato nel proprio cervello in maniera veramente fotografica. E lo faceva dipingendo dagli Stati Uniti, dove si era trasferito giovanissimo.

«Questa, dunque, non era un’esibizione di memoria ” pura “», osserva Oliver Sacks (Un antropologo su Marte, 1995), «ma di una memoria asservita a un unico motivo dominante: il ricordo del paese della sua infanzia. Adesso mi rendevo conto che non era solo un esercizio di memoria, ma anche di nostalgia – e non solo un esercizio, ma una compulsione e un’arte».

Tutto ciò mi è tornato alla mente, visitando la mostra di Sonja Quarone (Se ti ricordi bene, Cavallerizza del Castello di Vigevano, 30 gennaio-14 febbraio 2010). I suoi lavori sono pezzi di memoria. In senso fisico. Sono ricordi, angosce, incubi, ma anche lamenti, sogni, desideri, emozioni, urla, ironia, pianti e risate che si materializzano. Ho scambiato qualche battuta con Sonja Quarone, che è artista autentica, aperta al dialogo e al coinvolgimento con la gente che vede e reagisce alle sue opere. Ho fatto presente che uno psicoanalista ci andrebbe a nozze, con quanto realizza. Sorridendo, mi ha confessato che durante una esposizione la chiamò al telefono uno psichiatra francese, dicendole tutto trafelato: «Ho visto le sue opere. Devo incontrarla il più presto possibile: lei è in pericolo!». Ha fatto sorridere pure me.

Sonja aggiunge invece che questa mescolanza di ricordi, foto e oggetti che le appartengono – sia come mondi interni che esterni – materializzati fuori da sé, partoriti sarebbe giusto dire (molti oggetti sono bambolotti amniotici, effetto ottenuto avvolgendoli di resina, ricorda molto il lavoro dei ceroplasti di secoli addietro), rappresentano una distanza dal sé, un qualcosa che, anche rivisto, “mi dà calma”. Forme di vita che si fondono, amalgamano con cose, oggetti dei più vari, pezzi di fotografie. Forme di vita protoplasmica. Vite che si sfaldano, spezzettano e, contemporaneamente, si ricompongono sotto altre modalità. Altre possibilità. Una foto fissa e contemporanemente uccide un momento ben preciso. Un trancio di foto ricomposto da Sonja Quarone riprende, invece, vita. Con la sua creatività, Sonja Quarone resuscita, ridona nuova esistenza a foto e oggetti dismessi, altrimenti destinati alla discarica. I rifiuti-rifiutati (anche nel senso di ricordi, e pure gli oggetti equivalgono a ricordi) diventano arte. Non si butta nulla: tutto ritorna nel ciclo vitale. Anche ciò che è morto.

La formazione di Sonja è nell’ambito dell’arte concettuale. Con quanto realizza, dimostra che la memoria non è soltanto delle idee, dei pensieri e dei concetti, ma pure, soprattutto, del corpo. Per questo, i suoi lavori suscitano emozioni e reazioni fisiche contrastanti. E dopo, fanno discutere.