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Passeggiare nella natura allontana lo stress: le prove nel cervello


Uno scorcio del Parco del Ticino a Vigevano

Sono nato e vivo in una città del pavese da cui non mi sono mai spostato, pur lavorando a Milano e dovendomi quindi sobbarcare tutti i disagi del pendolarismo. Dei treni locali che spesso hanno guasti, soppressioni e ritardi. Perché l’ho fatto? Fondamentalmente perché la mia città, Vigevano,  è come si suole dire a “misura d’uomo” e in particolare è circondata dalla campagna. Per non parlare del bosco, dell’enorme Parco del Ticino.

Dico sempre che quando stai per entrare a Vigevano in auto provenendo dalla statale della provincia milanese, la prima cosa che incontri, ai lati della strada, non sono i palazzi, non è il cemento, ma bensì i secolari alberi e la rigogliosa vegetazione del Parco del Ticino. Ti accoglie la natura. Avviato da mio padre, che era un grande amante del bosco e dalla campagna, fin da bambino mi ci sono sempre rifugiato, anche in solitaria, per ritrovare equilibrio, serenità, per chiarirmi le idee rispetto a un problema, ascoltare solo il suono della natura e, in pratica, gestire e allontanare lo stress.

E ovviamente tutti sappiamo quanto la natura possa essere terapeutica in tal senso. Su questo sono stati scritti milioni di pagine da parte di poeti, scrittori, filosofi, artisti. Ora c’è pure una dimostrazione scientifica del perché la natura agisca sul nostro cervello come antistress.

Del resto parecchi studi hanno rilevato che vivere in città, specie se grande e con poche possibilità di accedere a parchi e luoghi naturali, rappresenti un fattore di rischio per diverse patologie, sia a causa dell’inquinamento, ma pure per lo stress a cui  si è sottoposti. Compromettendo di conseguenza anche la salute mentale.

Non sarà certo un caso che chi vive e lavora in città parli spesso di “fuga” dei fine settimana o durante i periodi di vacanza, per raggiungere luoghi più a contatto con la natura. Oppure che i pensionati, se possono permetterselo, acquistino casa o comunque scelgano di alternare la vita cittadina con quella dei dei luoghi più in equilibrio con la natura.

Tutto ciò ha ora un riscontro nella ricerca coordinata dalla psicologa cognitiva e ricercatrice tedesca Sonja Sudimac del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience dell’Istituto Max Planck. Come si presenta la stessa Sonja Sudimac: “I miei principali interessi di ricerca si concentrano su come l’ambiente modella il nostro cervello, più specificamente, come l’esposizione alla natura e all’ambiente urbano influenzano lo stress, le emozioni e i processi cognitivi. Sono particolarmente interessata ai meccanismi neurali alla base di questi effetti, nonché ai processi fisiologici durante l’esposizione a diversi ambienti. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e misure fisiologiche cerco di comprendere i correlati neurali e fisiologici degli stati affettivi e cognitivi di un’ora di camminata nella natura rispetto all’ambiente urbano, con l’obiettivo di influenzare la creazione di ambienti ottimali per la nostra salute fisica e mentale”.

Per ottenere prove causali sui rapporti tra ambiente e stress, tra salute psicofisica e natura, i ricercatori del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience hanno esaminato, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’attività cerebrale nelle regioni coinvolte nell’elaborazione dello stress in 63 volontari sani prima e dopo una passeggiata di un’ora nella cosiddetta “foresta verde” di Grunewald, la più vasta foresta cittadina di Berlino, rispetto alla passeggiata in una strada commerciale con traffico a Berlino. I risultati dello studio hanno rivelato che l’attività nell’amigdala è diminuita dopo la passeggiata nella natura, suggerendo che la natura suscita effetti benefici sulle regioni cerebrali legate allo stress.

“I risultati supportano la relazione positiva precedentemente ipotizzata tra natura e salute del cervello, ma questo è il primo studio a dimostrare il nesso causale. È interessante notare che l’attività cerebrale dopo la passeggiata urbana in queste regioni del cervello è rimasta stabile e non ha mostrato aumenti, il che è contrario un’opinione diffusa secondo cui l’esposizione urbana provoca ulteriore stress”, spiega la psicologa ambientale Simone Kühn, a capo del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience.

Gli autori di questo studio mostrano che la natura ha un impatto positivo sulle regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione dello stress e che può essere già osservata dopo un’ora di cammino. Ciò contribuisce alla comprensione di come il nostro ambiente fisico di vita influenzi il cervello e la salute mentale. Anche una breve esposizione alla natura diminuisce l’attività dell’amigdala, suggerendo che una passeggiata nella natura potrebbe servire come misura preventiva contro lo sviluppo di problemi di salute mentale e attenuare l’impatto potenzialmente svantaggioso della città sul cervello”.

Insomma, anche se viviamo in città, a inizio o fine giornata, meglio se ad entrambi, concediamoci una bella passeggiata in mezzo al verde. Magari approfittandone per portare fuori il cane. Il nostro cervello e tutto il nostro corpo ringrazieranno. E saremo meno schizzati rientrando tra le pareti domestiche o sul luogo di lavoro. Inoltre, approfittiamo dei fine settimana per fare altrettanto. Ma questo già lo sapete.

Sonja Sudimac, Vera Sale, Simone Kühn. How nature nurtures: Amygdala activity decreases as the result of a one-hour walk in nature. Molecular Psychiatry, 05 September 2022.

Cervello e retina, verso una biomarker dell’Alzheimer


Per molti secoli i cervello è stato una scatola nera. Studiabile solo sul tavolo anatomico. Soprattutto per quanto riguarda le sue alterazioni. Nel volgere di qualche decennio, con l’avvento delle tecniche di visualizzazione del cervello vivente (neuroimaging), le cose sono radicalmente cambiate. E l’antico detto che gli occhi sono lo specchio dell’anima potrebbe trovare riscontro anche nello studio della retina, la parte posteriore dell’occhio che, di fatto, fa parte del cervello e alcuni suoi gruppi di cellule si collegano direttamente al sistema nervoso centrale.

Molti studi si stanno concentrando negli ultimi 20 anni sull’esame della retina per una diagnosi precoce dell’Alzheimer. In che modo? Secondo questi studi, che hanno preso in esame anche un campione di persone di 45 anni, l’assottigliamento della retina potrebbe indicare un segno precoce di Alzheimer, prima che i sintomi veri e propri si manifestino. Come spiega la ricercatrice Ashleigh Barrett-Young del Dunedin Study (una ricerca globale sulla salute e lo sviluppo dell’Università di Otago, Nuova Zelanda, che di recente ha celebrato i 50 anni dall’avvio degli studi nella popolazione): “Molti dei processi che avvengono nel cervello si verificano anche nelle cellule gangliari della retina, un altro strato di cellule che compongono la retina. Ciò include alcuni dei processi anormali comuni nella malattia di Alzheimer, come la deposizione anormale della proteina beta amiloide e la perdita di cellule”.

Siccome l’imaging della retina non è invasivo, non è doloroso e ogni scansione richiede solo pochi secondi  attraverso una apparecchiatura per la  tomografia a coerenza ottica (Oct), si rivela di importanza fondamentale per la diagnosi precoce di Alzheimer e per le relative cure che si mostrano efficaci se attuate nelle prime fasi della malattia, nonché per il cambiamento degli stili di vita che possono ritardare la progressione verso il declino cognitivo. Inoltre una semplice e rapida identificazione del rischio attraverso la scansione della retina potrà permettere di valutare le future sperimentazioni terapeutiche per l’Alzheimer.

Retinal imaging in Alzheimer’s and neurodegenerative diseases. Snyder PJ, Alber J, Alt C, Bain LJ, Bouma BE, Bouwman FH, DeBuc DC, Campbell MCW, Carrillo MC, Chew EY, Cordeiro MF, Dueñas MR, Fernández BM, Koronyo-Hamaoui M, La Morgia C, Carare RO, Sadda SR, van Wijngaarden P, Snyder HM. Alzheimers Dement. 2021 Jan;17(1):103-111.

Sogni, cervello generativo e creatività


Massimo Scanziani e Yuta Senzai

Per molti secoli i sogni sono stati un mistero. Un mondo dentro il cervello che mi ha sempre affascinato. Anche per esperienze personali. Quando anni fa intervistai lo psichiatra e neuroscienziato John Allan Hobson all’indomani dell’uscita suo bellissimo The Dreaming Brain (in italiano La macchina dei sogni, Giunti)che acquistai a New York appena uscito, mi resi ulteriormente conto che la ricerca sul sogno era a una svolta epocale. Grazie alle moderne tecnologie di visualizzazione del cervello in attività si sarebbe finalmente potuto indagare, con metodi scientifici, quel mistero vecchio di secoli, se non di millenni.

L’anno prossimo saranno passati giusto settant’anni da quando, nel 1953, Eugene Aserinsky e quello che allora era ancora uno studente e oggi è considerato l’iniziatore degli studi scientifici sul sonno,  Nathaniel Kleitman, scoprirono che i movimenti oculari rapidi sotto le palpebre chiuse erano associati alle fasi in cui il cervello sogna, le famosi fasi Rem (da “rapid eye movement”). Il concomitante studio di queste fasi del sonno Rem e non-Rem grazie all’unico mezzo allora disponibile, l’elettroencefalogramma (EEG) che registra l’attività elettrica del cervello, permise di delineare i vari stadi del sonno. La scoperta delle fasi Rem è fondamentale non solo per la ricerca sul sonno ma, come si sta dimostrando, anche per lo studio complessivo del cervello. La nota curiosa e paradossale è che molti ricercatori hanno negato l’importanza delle fasi Rem, considerandole alla stregua di azioni casuali, forse per mantenere le palpebre lubrificate.

Ma cosa avviene nel cervello durante questi movimenti rapidi degli occhi associati alle esperienze oniriche? Sono davvero casuali seppure associate ai sogni? Già da anni si era ipotizzato che i movimenti degli occhi seguissero le scene allucinatorie del sogno. Ma non c’era mai stata una dimostrazione scientifica di questa presunta attività percettiva-cognitiva. In una recente ricerca sperimentale, con tecnologie di ultima generazione, da parte di Yuta Senzai e Massimo Scanziani del Dipartimento di Fisiologia e dell’Howard Hughes Medical Institute Università della California, San Francisco, si sono potute osservare le cellule della “direzione della testa” (le cosiddette “place cells”) nel cervello dei topi che sperimentano anche il sonno Rem. Queste cellule agiscono come una bussola e la loro attività mostra ai ricercatori in quale direzione il topo percepisce se stesso come direzione.

Il team ha registrato simultaneamente i dati da queste cellule sulle percezioni di direzione del topo monitorando i suoi movimenti oculari. Confrontandoli, hanno scoperto che la direzione dei movimenti oculari e della “bussola interna” al cervello del topo erano allineati con precisione durante il sonno Rem, proprio come quando il topo è sveglio e si muove. Inoltre Il team di Scanziani ha scoperto che le stesse, molteplici  parti del cervello interessate si coordinano sia durante il sogno che durante la veglia, dando credito all’idea che i sogni sono un modo per integrare le informazioni raccolte durante il giorno.

Il sogno è alla base della creatività?

Si tratta di una ulteriore dimostrazione del fatto che, durante il sogno, il nostro cervello riorganizza le memorie, sia del corpo che della mente, assembla elementi della vita quotidiana con altri totalmente inventati. E forse tutto ciò potrebbe essere alla base della creatività.

Quando diciamo che una certa arte o un certo cinema sono “onirici” e “visionari”, vedi ad esempio pittori come Hieronymus Bosch o Salvador Dalí, oppure registi come Fellini, Terry Gilliam o David Cronenberg, stiamo forse ipotizzando qualcosa che ha davvero un riscontro nel funzionamento complessivo del nostro cervello, sia durante la veglia che durante il sonno? Del resto è dimostrato anche per altre vie il fatto che staccarsi dalla realtà quotidiana, isolarsi dalle distrazioni del mondo circostante, e magari transitare in uno stato modificato di coscienza, possa favorire i processi creativi. Del resto, lo stesso John Allan Hobson, citato all’inizio, scrisse un intrigante saggio con lo storico dell’arte Hellmut Wohl, dal titolo piuttosto esplicito: Dagli angeli ai neuroni. L’arte e la nuova scienza dei sogni (Edizioni Mattioli 1885).

Ed è pure noto, dalle biografie di artisti, scienziati e musicisti, che certe intuizioni possano arrivare in sogno, oppure nelle fasi iniziai dell’addormentamento o del risveglio: nei cosiddetti stati ipnagogici e ipnopompici. Fu lo stesso chimico tedesco August Kekulé a narrare di avere scoperto, anzi “visto” come un serpente che si morde la coda (il mitico Uroboro), la formula di struttura del benzene; il giornalista ungherese Lazlo Biro che sogna una sfera intrisa di inchiostro che scorrendo sulla carta scrive e inventa la penna a sfera; il compositore Giuseppe Tartini che sogna il suo celebre “Trillo del diavolo”; Robert Louis Stevenson che sogna il fulcro del suo racconto “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, ma pure Mary Shelley col suo “Frankenstein”. E non è certo un caso che opere letterarie come queste, che intrigano sia la parte conscia che inconscia della nostra mente, rimangano come pietre miliari nel storia della letteratura e abbiano ispirato così tanti film, rappresentazioni teatrali, opere musicali e fumetti. L’ipotesi è che la mente creativa prosegua il proprio lavoro anche durante gli stati di sonno con sogno, assemblando memorie ed elementi insoliti, fino a quel momento inesistenti. Il sogno sarebbe dunque una sorta di laboratorio virtuale in cui mettere in campo cose nuove, soprattutto per cervelli abitualmente al lavoro nella produzione creativa durante la vita di veglia.

Massimo Scanziani, uno dei due autori della ricerca che citiamo qui, è dello stesso avviso riguardo i rapporti tra sogno e creatività, tanto che parla di “cervello generativo”. «Questo lavoro ci offre uno sguardo sui processi cognitivi in ​​corso nel cervello addormentato e allo stesso tempo risolve un enigma che ha suscitato la curiosità degli scienziati per decenni”», dice Scanziani. E ancora: «È importante capire come il cervello si aggiorna sulla base delle esperienze accumulate. Capire i meccanismi che ci consentono di coordinare così tante parti distinte del cervello durante il sonno ci darà un’idea di come quelle esperienze diventano parte dei nostri modelli individuali di cosa è il mondo e come funziona. Uno dei nostri punti di forza come esseri umani è questa capacità di combinare le nostre esperienze del mondo reale con altre cose che non esistono al momento attuale e potrebbero non esistere mai. Questa capacità generativa del nostro cervello è la base della nostra creatività».

Siamo partiti parlando del mistero dei sogni per approdare ad un altro, eterno dilemma: quello della creatività. Forse le ricerche presenti e future ci permetteranno di comprendere che sogno e creatività sono strettamente imparentati e magari che il mistero è unico. Sottolineo infine l’importanza del concetto di “cervello generativo”, differente da “cervello creativo”, di cui, ne sono certo, sentiremo ancora parlare.

A cognitive process occurring during sleep is revealed by rapid eye movements. Yuta Senzai, Massimo Scanziani. Science. 2022 Aug 26;377(6609):999-1004.

Vedi anche:

La telepatia che fece scoprire i ritmi cerebrali e l’EEG

Il cervello elettrico: intervista a Simone Rossi

Pensare stanca (anche fisicamente)



“Ma che hai? Ti vedo distrutta”. “Sì, guarda, mi sono talmente arrovellata sui miei problemi che mi sento come se avessi caricato dei pesi per tutto il giorno…”. Capita, che ci si senta a questo modo, anche senza avere fatto nulla di particolarmente faticoso? Eccome se capita. Lo abbiamo sperimentato tutti. Ma è solo un fatto psicologico o c’è davvero qualche corrispondenza fisica? Secondo nuove ricerche sembra proprio che impegnarsi mentalmente per troppe ore lasci debilitati pure a livello fisico, con riscontri biologici specifici. Del resto abbiamo la controprova, proprio in questi giorni: impegnarci in una bella scarpinata sui monti o con delle belle nuotate al mare, pur necessitando di sforzo fisico, ci lascia più ritemprati che non una giornata sedentaria passata a pensare. E il motivo pare risiedere in quel composto biochimico chiamato glutammato che,  dopo ore e ore passate a pensare intensamente, si accumula nelle regioni della parte anteriore del cervello.

Il glutammato, un amminoacido presente anche in gran parte di ciò che mangiamo, in misura maggiore o minore, è un importante neurotrasmettitore del nostro cervello e del nostro sistema nervoso. Ma in eccesso può fare male. Tanto che vi sono alcuni farmaci per abbassarlo. Però non c’era mai stata la dimostrazione sperimentale che si potesse accumulare glutammato nel cervello eccedendo nel fare funzionare intensamente i neuroni. E sarebbe però interessante capire pure quale tipo di impegno cognitivo faccia accumulare glutammato e quindi farci sentire esausti. Dato che non tutto il pensare alla fin fine stanca.

Ma per tornare alla ricerca, guidata dallo psicologo e ricercatore Antonius Wiehler del francese Paris Brain Institute, essa si è focalizzata su una regione della parte anteriore e laterale del cervello chiamata corteccia prefrontale laterale, che molti lavori precedenti hanno dimostrato essere coinvolta in difficili compiti mentali.  Ebbene, in questa area cerebrale, attraverso una tecnica chiamata spettroscopia di risonanza magnetica (MRS) che misura in modo non invasivo i livelli di varie sostanze chimiche nei tessuti viventi, i ricercatori hanno potuto misurati i livelli di otto diverse sostanze chimiche del cervello, incluso il glutammato, che è la principale sostanza chimica di attivazione tra i neuroni.

In che modo? Sottoponendo 40 persone a svolgere attività di memoria sdraiate in uno scanner MRS. Queste includevano la visualizzazione di sequenze di numeri che appaiono su uno schermo e l’indicazione se il numero corrente era lo stesso di quello precedente. Ventisei dei partecipanti hanno svolto una versione più difficile di questo compito, mentre agli altri 14 è stata assegnata una versione più semplice. Dopo aver completato i compiti di memoria per 6 ore, quelli che facevano la versione più difficile avevano aumentato i livelli di glutammato nella loro corteccia prefrontale laterale rispetto all’inizio dell’esperimento. In coloro che svolgono il compito più semplice, i livelli sono rimasti più o meno gli stessi. In tutti i partecipanti, non c’è stato alcun aumento nelle altre sette sostanze chimiche del cervello che sono state misurate.

Come commenta la giornalista medico Chiara Wilson su “New Scientist”: «Tra i partecipanti che svolgono i compiti più difficili, il loro livello di glutammato aumentava con la dilatazione delle pupille nei loro occhi, un’altra ampia misura della fatica. Coloro che hanno svolto il compito più semplice hanno riferito di sentirsi stanchi, ma non hanno avuto aumento del glutammato o dilatazione della pupilla. I ricercatori hanno anche studiato se l’affaticamento mentale ha influenzato il processo decisionale. Lo hanno fatto intervallando il compito di memoria con diversi esercizi, come quello in cui le persone sceglievano tra ricevere una somma di denaro immediatamente o un’altra in seguito. Poiché i partecipanti al compito più difficile si sentivano più stanchi e avevano un accumulo di glutammato, sono passati a opzioni che davano immediatamente una piccola ricompensa. Questo potrebbe essere un esempio di come evitare compiti mentali difficili, come calcolare quale scelta fare, per prevenire l’accumulo di livelli di glutammato potenzialmente dannosi». “Un modo per ridurre l’accumulo di glutammato è attivare meno la corteccia prefrontale laterale durante le scelte”, afferma Wiehler. “Se lo fai, scegli più spesso l’opzione allettante”.

Vi ricorda qualcosa delle vostre giornate? Tipo quando, dopo molte ore di lavoro al computer, migrate sui social o su altri siti piacevoli o di acquisti online? Oppure le ore trascorse a vedere la tv o una di quelle serie che vi appassionano? State disattivando la vostra corteccia prefrontale laterale. Cioè state accumulando meno glutammato nel cervello. Sempreché non abbiate mangiato troppi manicaretti della cucina cinese.

Antonius Wiehler, Francesca Branzoli, Isaac Adanyeguh, Fanny Mochel, Mathias Pessiglione, “ A neuro-metabolic account of why daylong cognitive work alters the control of economic decisions”, Current Biology, August 11, 2022.

Stress e cuore: quando le emozioni possono essere letali


Peter Schwartz con il suo team clinico e di ricerca

Spesso la cronaca riferisce della morte improvvisa di una persona a seguito di un litigio, anche per cause banali, magari per la precedenza a un parcheggio, oppure in altre circostanze di stress acuto. L’esistenza di un’importante relazione tra stress, sistema nervoso autonomo e morte cardiaca improvvisa è nota da molto tempo. In questa ricerca, a cui ha preso parte anche Auxologico, sono state esaminate il gran numero di condizioni, agenti a livello individuale o di popolazione, che sono state causalmente associate alla morte cardiaca improvvisa e sono stati discussi i vari aspetti degli studi che esplorano tali associazioni. Queste condizioni includono fattori di stress esterni (terremoti, guerre) e interni (rabbia, paura, perdita di una persona cara) ed emozioni anche di segno opposto, come una gioia improvvisa (portafoglio ritrovato).

Cosa hanno in comune lo spavento e la gioia? Tutte le emozioni forti ed improvvise hanno lo stesso effetto: i nervi simpatici liberano noradrenalina nel cuore ed è questa sostanza naturale che può scatenare, in cuori predisposti, le aritmie fatali. La maggior parte delle situazioni conferma l’antica visione secondo cui gli aumenti dell’attività simpatica sono proaritmici, possono cioè innescare aritmie, mentre gli aumenti dell’attività vagale sono protettivi, questo perché il nervo vago libera nel cuore l’acetilcolina, sostanza che antagonizza l’effetto della noradrenalina.

Tuttavia, gli autori hanno anche  discusso  una condizione in cui il colpevole sembra essere l’eccesso di attività vagale. Si tratta delle “morti voodoo”, quelle in cui lo stregone del villaggio scacciava un uomo dalla tribù e questo, perduta ogni speranza di vita, si sdraiava accanto ad un albero e – nel giro di un giorno o due – moriva. Nella nostra società la situazione equivalente   è quella dei coniugi molto anziani il cui compagno/a muore: chi sopravvive spesso perde letteralmente la voglia di vivere e non è raro che queste persone muoiano nel giro di poche settimane dalla perdita del partner di una vita intera.

Di tutti questi aspetti tratta in modo dettagliato e approfondito l’articolo scientifico “Stress, the autonomic nervous system, and sudden death” appena pubblicato dalla rivista Autonomic Neuroscience: Basic and Clinical. Ne parliamo con il prof. Peter Schwartz, direttore del Centro per lo studio e la cura delle aritmie cardiache di origine genetica e del Laboratorio di genetica cardiovascolare dell’Auxologico, considerato uno dei massimi esperti mondiali di artimie di origine genetica.

Prof. Schwartz, cosa evidenza questa ricerca?

Questa ricerca fornisce la chiave per interpretare morti improvvise di persone all’apparenza sane, in condizioni di stress psicologico. Negli anni 80’ e 90’ abbiamo proprio dimostrato, a livello sperimentale, come l’improvviso aumento di attività simpatica possa indurre aritmie fatali e come, nelle stesse condizioni, l’aumento dell’attività vagale possa prevenirle. Abbiamo già trasferito queste conoscenze dal laboratorio ai nostri pazienti e oggi la modulazione del sistema nervoso autonomo per fini terapeutici è già entrata nella pratica clinica. Questa è stata una grande soddisfazione per il nostro gruppo, sempre attivo nella ricerca e nella clinica.  

Alla luce di tutto ciò, cosa andrebbe consigliato al paziente cardiopatico?

Chiaramente le brusche emozioni possono essere pericolose, e questo vale soprattutto per i pazienti con malattia ischemica o pregresso infarto. Le gioie improvvise non sono evitabili ma molto possiamo fare per evitare inutile emozioni negative. Anger kills (“La rabbia uccide”) è il titolo di un famoso libro dello psicologo americano Redford Williams che insegna a come controllare la rabbia…e salvarsi la vita. Molte delle rabbie che ognuno di sperimenta sono evitabili. Vale davvero il vecchio detto “ma lascia perdere…”.

Come prendiamo decisioni? Intervista a Alain Berthoz


Esiste una decisione puramente razionale? Siamo in grado di decidere nel modo più efficiente possibile? Che il no arrivi dalla scienza potrebbe sembrare un controsenso, ma gli scienziati sanno che l’uomo è condizionato, nei suoi processi decisionali, dalle esperienze passate, dalla sua età, dal sesso, da ciò che crede di volere ma in realtà non desidera. Il cervello, insomma, non è ciò che molti credono sia: riserva sorprese e, talvolta, decisioni sbagliate.

Prendere decisioni. Il tema a prima vista pare frutto di elaborati processi mentali. Di problemi analizzati a fondo, soprattutto dal punto di vista razionale. Pensiamo a grosse decisioni in campo aziendale. Affrontiamo quell’investimento sulla nuova linea di produzione? Oppure a livello politico, o sociale. Ma anche nella nostra vita di tutti i giorni, già da quando dobbiamo decidere se alzarci al mattino o dormicchiare ancora, se proseguire una relazione affettiva, affidarci alle cure di uno specialista, oppure di un altro, come educare i nostri figli. Se ci pensiamo, prendiamo continuamente decisioni. Tanto che, dimostrano le ricerche sul cervello, siamo biologicamente “costruiti” per prendere decisioni. Alain Berthoz, professore di fisiologia della percezione e dell’azione al Collège de France di Parigi e direttore dell’omonimo laboratorio del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs), ne è assolutamente convinto. Nel suo libro dedicato alle ricerche in questo campo, La scienza della decisione (Codice Edizioni), scrive: «La decisione è una proprietà fondamentale del sistema nervoso fondata su meccanismi di simulazione interna del corpo e del mondo che si sono fatti più complessi di pari passo con l’evoluzione». Nasciamo e ci evolviamo per prendere decisioni, in rapporto al mondo. Berthoz studia da anni i processi decisionali, non soltanto dal punto di vista delle neuroscienze, ma anche in rapporto alle scienze umanistiche, sociali ed economiche. Gli abbiamo rivolto alcune domande su come il nostro cervello giunge a prendere decisioni e quali novità ci sono in questo campo di studi.

Professor Berthoz, come decidiamo? Quali sono i processi mentali attraverso cui riusciamo a prendere decisioni efficaci? 

La nostra mente decide attraverso la combinazione, la cooperazione e a volte la competizione tra le aree razionali e quelle emozionali del cervello. Per molto tempo sono state elaborate teorie in campo economico e industriale, attraverso lo studio delle patologie neurologiche, secondo cui si era portati a ritenere che l’uomo decida solo razionalmente. Viceversa è stato dimostrato, in particolare dallo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, che l’uomo non decide solo razionalmente, ma anche con un contributo molto importante del cervello emotivo. È una delle sfide principali delle neuroscienze moderne, e delle loro relazioni con le scienze umanistiche e sociali, capire se il cervello emotivo collabori o sia in competizione con quello razionale. Negli ultimi quindici anni stiamo assistendo a un momento molto importante in questi studi, oggetto di ricerche al confine di varie discipline, e in particolare nel settore della neuroeconomia.

Sono trascorsi diversi anni dalla pubblicazione del suo libro La scienza della decisione: cosa abbiamo scoperto in più su questo tema? 

Dalla pubblicazione di questo libro c’è stato un formidabile sviluppo di ricerche sulla decisione, sia in neurobiologia, vale a dire sui meccanismi fondamentali di tipo neuronale della presa di decisione, sia in settori più sociali, in particolare con la comparsa e l’esplosione delle neuroscienze sociali. La decisione, così come esposta nel mio libro, è stata oggetto di ricerche sia teoriche, attraverso modelli matematici, sia sperimentali, in neurofisiologia degli animali, che dimostrano che non soltanto il cervello, ma gli stessi neuroni prendono continuamente decisioni. Dalla pubblicazione del mio libro, la decisione è oggetto di numerose ricerche e dibattiti, ma le ricerche non sono semplici, perché come ho appunto scritto, la decisione è «una proprietà fondamentale del sistema nervoso». Inoltre, dobbiamo prendere in considerazione il settore della decisione collettiva, uno degli aspetti che ancora non è stato studiato a fondo. In un’azienda, non sono unicamente i dirigenti a prendere decisioni, così come in un’industria che crea un nuovo prodotto, per progettarlo e realizzarlo, occorrono decisioni collettive. In un ospedale, per eseguire un intervento chirurgico, prima si tiene una riunione con tutto lo staff, e nel diritto la condanna di una persona è una decisione collettiva, non unicamente del giudice. Abbiamo fatto molti progressi nello studio delle decisioni individuali, ma rimane un immenso campo di studi per quelle collettive, che rappresentano una nuova frontiera per le ricerche in questo settore.

È stato dimostrato che l’uomo non decide solo razionalmente, ma anche con un contributo molto importante del cervello emotivo

Quali aree cerebrali sono coinvolte nei processi decisionali? 

Ne è interessato il cervello cognitivo, che implica i centri della percezione, quindi corteccia parietale, frontale e prefrontale, oltre alle strutture della memoria con l’ippocampo. Il cervello delle emozioni implica a sua volta una struttura molto importante che si chiama amigdala, che riceve tutte le informazioni dal mondo esterno in maniera molto veloce ed è fondamentale per l’attribuzione dei valori, così come la corteccia orbitofrontale, studiata dal neuroscienziato Antonio Damasio, di cui tratta nel suo libro L’errore di Cartesio. La corteccia orbitofrontale è l’interfaccia tra l’amigdala e la corteccia prefrontale, dove vengono prese le decisioni; corteccia orbitofrontale e corteccia cingolata anteriore sono strutture che possono modificare le valutazioni fatte dall’amigdala. L’immagine caricaturale di queste strutture è un grande sistema cognitivo che va dalla parte posteriore del cervello fino a quella anteriore coinvolgendo la corteccia prefrontale, il sistema limbico con l’amigdala che attribuisce dei valori, e infine la corteccia orbitofrontale. Tra le due aree interviene un neuromediatore, la dopamina, quindi una parte dell’influenza del sistema limbico, il cervello emotivo, sul sistema cognitivo è attuato da un mediatore chimico, e questo è ancora un mistero.

La capacità di prendere decisioni cambia con l’età e le situazioni? 

La questione va suddivisa in due parti: la prima riguarda le differenze individuali, vale a dire il sesso e l’età. La decisione presuppone che il cervello riceva prima di tutto delle informazioni. Noi sappiamo che in funzione dell’età, dell’esperienza e del sesso, non abbiamo per nulla lo stesso modo di rapportarci al mondo esterno. Il mio ultimo libro, che s’intitola La Vicariance, in uscita in italiano da Codice Edizioni, tratta di questo argomento: la differenza notevole tra gli individui nel modo in cui ricevono le informazioni dal mondo in funzione del sesso, dell’età, dell’educazione e della cultura. Il secondo aspetto è che il cervello non si accontenta, come avevo spiegato nel mio libro precedente, di acquisire informazioni per prendere delle decisioni, ma impone al mondo le sue regole di interpretazione: prendiamo dal mondo solo le informazioni che ci interessano e inoltre le trasformiamo a priori facendo intervenire esperienza personale e memoria. A questa fonte di varietà si lega il fatto che per decidere andiamo a cogliere solo alcune informazioni legate alla nostra esperienza e, soprattutto, al nostro obbiettivo. E il cervello è una macchina che funziona per obbiettivi.

Come decide uno scienziato? Nello specifico: lei si ritiene una persona che prende buone decisioni? 

Naturalmente no! Chi ha l’arroganza per sostenere di prendere sempre buone decisioni? Il neuroscienziato cognitivo francese Etienne Koechlin ha proposto, ed è uno degli ultimi progressi in questo settore, una teoria secondo la quale nel processo decisionale vi sono tre componenti: motivazione, presa in considerazione dalle strutture mediali del cervello, l’emozione e cognizione. Detta in un altro modo: ho voglia di una mela, preferisco la banana, ma decido per qualcos’altro. Ebbene, mi trovo nella stessa situazione: prendo delle decisioni in funzione dei miei ricordi, dei bisogni del momento, della motivazione, dell’emozione, e alla fine spesso sono più che altro spettatore della decisione, presa dal mio “doppio”. Ho scritto alcuni capitoli sul doppio, in La semplessità e La Vicariance; le decisioni vengono prese da questo nostro doppio che abbiamo nel cervello: assisto spesso con meraviglia e a volte con stupore alle decisioni che prende il mio doppio.

(Intervista originariamente pubblicata da Oxygen, 22, 2014)