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Passeggiare nella natura allontana lo stress: le prove nel cervello


Uno scorcio del Parco del Ticino a Vigevano

Sono nato e vivo in una città del pavese da cui non mi sono mai spostato, pur lavorando a Milano e dovendomi quindi sobbarcare tutti i disagi del pendolarismo. Dei treni locali che spesso hanno guasti, soppressioni e ritardi. Perché l’ho fatto? Fondamentalmente perché la mia città, Vigevano,  è come si suole dire a “misura d’uomo” e in particolare è circondata dalla campagna. Per non parlare del bosco, dell’enorme Parco del Ticino.

Dico sempre che quando stai per entrare a Vigevano in auto provenendo dalla statale della provincia milanese, la prima cosa che incontri, ai lati della strada, non sono i palazzi, non è il cemento, ma bensì i secolari alberi e la rigogliosa vegetazione del Parco del Ticino. Ti accoglie la natura. Avviato da mio padre, che era un grande amante del bosco e dalla campagna, fin da bambino mi ci sono sempre rifugiato, anche in solitaria, per ritrovare equilibrio, serenità, per chiarirmi le idee rispetto a un problema, ascoltare solo il suono della natura e, in pratica, gestire e allontanare lo stress.

E ovviamente tutti sappiamo quanto la natura possa essere terapeutica in tal senso. Su questo sono stati scritti milioni di pagine da parte di poeti, scrittori, filosofi, artisti. Ora c’è pure una dimostrazione scientifica del perché la natura agisca sul nostro cervello come antistress.

Del resto parecchi studi hanno rilevato che vivere in città, specie se grande e con poche possibilità di accedere a parchi e luoghi naturali, rappresenti un fattore di rischio per diverse patologie, sia a causa dell’inquinamento, ma pure per lo stress a cui  si è sottoposti. Compromettendo di conseguenza anche la salute mentale.

Non sarà certo un caso che chi vive e lavora in città parli spesso di “fuga” dei fine settimana o durante i periodi di vacanza, per raggiungere luoghi più a contatto con la natura. Oppure che i pensionati, se possono permetterselo, acquistino casa o comunque scelgano di alternare la vita cittadina con quella dei dei luoghi più in equilibrio con la natura.

Tutto ciò ha ora un riscontro nella ricerca coordinata dalla psicologa cognitiva e ricercatrice tedesca Sonja Sudimac del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience dell’Istituto Max Planck. Come si presenta la stessa Sonja Sudimac: “I miei principali interessi di ricerca si concentrano su come l’ambiente modella il nostro cervello, più specificamente, come l’esposizione alla natura e all’ambiente urbano influenzano lo stress, le emozioni e i processi cognitivi. Sono particolarmente interessata ai meccanismi neurali alla base di questi effetti, nonché ai processi fisiologici durante l’esposizione a diversi ambienti. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e misure fisiologiche cerco di comprendere i correlati neurali e fisiologici degli stati affettivi e cognitivi di un’ora di camminata nella natura rispetto all’ambiente urbano, con l’obiettivo di influenzare la creazione di ambienti ottimali per la nostra salute fisica e mentale”.

Per ottenere prove causali sui rapporti tra ambiente e stress, tra salute psicofisica e natura, i ricercatori del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience hanno esaminato, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’attività cerebrale nelle regioni coinvolte nell’elaborazione dello stress in 63 volontari sani prima e dopo una passeggiata di un’ora nella cosiddetta “foresta verde” di Grunewald, la più vasta foresta cittadina di Berlino, rispetto alla passeggiata in una strada commerciale con traffico a Berlino. I risultati dello studio hanno rivelato che l’attività nell’amigdala è diminuita dopo la passeggiata nella natura, suggerendo che la natura suscita effetti benefici sulle regioni cerebrali legate allo stress.

“I risultati supportano la relazione positiva precedentemente ipotizzata tra natura e salute del cervello, ma questo è il primo studio a dimostrare il nesso causale. È interessante notare che l’attività cerebrale dopo la passeggiata urbana in queste regioni del cervello è rimasta stabile e non ha mostrato aumenti, il che è contrario un’opinione diffusa secondo cui l’esposizione urbana provoca ulteriore stress”, spiega la psicologa ambientale Simone Kühn, a capo del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience.

Gli autori di questo studio mostrano che la natura ha un impatto positivo sulle regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione dello stress e che può essere già osservata dopo un’ora di cammino. Ciò contribuisce alla comprensione di come il nostro ambiente fisico di vita influenzi il cervello e la salute mentale. Anche una breve esposizione alla natura diminuisce l’attività dell’amigdala, suggerendo che una passeggiata nella natura potrebbe servire come misura preventiva contro lo sviluppo di problemi di salute mentale e attenuare l’impatto potenzialmente svantaggioso della città sul cervello”.

Insomma, anche se viviamo in città, a inizio o fine giornata, meglio se ad entrambi, concediamoci una bella passeggiata in mezzo al verde. Magari approfittandone per portare fuori il cane. Il nostro cervello e tutto il nostro corpo ringrazieranno. E saremo meno schizzati rientrando tra le pareti domestiche o sul luogo di lavoro. Inoltre, approfittiamo dei fine settimana per fare altrettanto. Ma questo già lo sapete.

Sonja Sudimac, Vera Sale, Simone Kühn. How nature nurtures: Amygdala activity decreases as the result of a one-hour walk in nature. Molecular Psychiatry, 05 September 2022.

Stress e cuore: quando le emozioni possono essere letali


Peter Schwartz con il suo team clinico e di ricerca

Spesso la cronaca riferisce della morte improvvisa di una persona a seguito di un litigio, anche per cause banali, magari per la precedenza a un parcheggio, oppure in altre circostanze di stress acuto. L’esistenza di un’importante relazione tra stress, sistema nervoso autonomo e morte cardiaca improvvisa è nota da molto tempo. In questa ricerca, a cui ha preso parte anche Auxologico, sono state esaminate il gran numero di condizioni, agenti a livello individuale o di popolazione, che sono state causalmente associate alla morte cardiaca improvvisa e sono stati discussi i vari aspetti degli studi che esplorano tali associazioni. Queste condizioni includono fattori di stress esterni (terremoti, guerre) e interni (rabbia, paura, perdita di una persona cara) ed emozioni anche di segno opposto, come una gioia improvvisa (portafoglio ritrovato).

Cosa hanno in comune lo spavento e la gioia? Tutte le emozioni forti ed improvvise hanno lo stesso effetto: i nervi simpatici liberano noradrenalina nel cuore ed è questa sostanza naturale che può scatenare, in cuori predisposti, le aritmie fatali. La maggior parte delle situazioni conferma l’antica visione secondo cui gli aumenti dell’attività simpatica sono proaritmici, possono cioè innescare aritmie, mentre gli aumenti dell’attività vagale sono protettivi, questo perché il nervo vago libera nel cuore l’acetilcolina, sostanza che antagonizza l’effetto della noradrenalina.

Tuttavia, gli autori hanno anche  discusso  una condizione in cui il colpevole sembra essere l’eccesso di attività vagale. Si tratta delle “morti voodoo”, quelle in cui lo stregone del villaggio scacciava un uomo dalla tribù e questo, perduta ogni speranza di vita, si sdraiava accanto ad un albero e – nel giro di un giorno o due – moriva. Nella nostra società la situazione equivalente   è quella dei coniugi molto anziani il cui compagno/a muore: chi sopravvive spesso perde letteralmente la voglia di vivere e non è raro che queste persone muoiano nel giro di poche settimane dalla perdita del partner di una vita intera.

Di tutti questi aspetti tratta in modo dettagliato e approfondito l’articolo scientifico “Stress, the autonomic nervous system, and sudden death” appena pubblicato dalla rivista Autonomic Neuroscience: Basic and Clinical. Ne parliamo con il prof. Peter Schwartz, direttore del Centro per lo studio e la cura delle aritmie cardiache di origine genetica e del Laboratorio di genetica cardiovascolare dell’Auxologico, considerato uno dei massimi esperti mondiali di artimie di origine genetica.

Prof. Schwartz, cosa evidenza questa ricerca?

Questa ricerca fornisce la chiave per interpretare morti improvvise di persone all’apparenza sane, in condizioni di stress psicologico. Negli anni 80’ e 90’ abbiamo proprio dimostrato, a livello sperimentale, come l’improvviso aumento di attività simpatica possa indurre aritmie fatali e come, nelle stesse condizioni, l’aumento dell’attività vagale possa prevenirle. Abbiamo già trasferito queste conoscenze dal laboratorio ai nostri pazienti e oggi la modulazione del sistema nervoso autonomo per fini terapeutici è già entrata nella pratica clinica. Questa è stata una grande soddisfazione per il nostro gruppo, sempre attivo nella ricerca e nella clinica.  

Alla luce di tutto ciò, cosa andrebbe consigliato al paziente cardiopatico?

Chiaramente le brusche emozioni possono essere pericolose, e questo vale soprattutto per i pazienti con malattia ischemica o pregresso infarto. Le gioie improvvise non sono evitabili ma molto possiamo fare per evitare inutile emozioni negative. Anger kills (“La rabbia uccide”) è il titolo di un famoso libro dello psicologo americano Redford Williams che insegna a come controllare la rabbia…e salvarsi la vita. Molte delle rabbie che ognuno di sperimenta sono evitabili. Vale davvero il vecchio detto “ma lascia perdere…”.

Sistema nervoso, stress e cancro: nuove evidenze


Cancro_E_SistemaNervoso_NeurobioblogDa una parte c’era l’oncologia ortodossa, sempre più impegnata a cercare le mutazioni genetiche delle cellule tumorali, ma sempre meno a comprendere come il cancro si sviluppi e si diffonda nel corpo. Dall’altra, ricercatori ritenuti strambi e stravaganti, esponenti di una “scienza leggera” che parlano dei rapporti tra psiche e cancro, di psicosomatica, psiconcologia,  psiconeuroendocrinoimmunologia, nome chilometrico (in sigla Pnei), stress, specie quello cronico, e cancro. Insomma, di gente che si era resa conto, magari empiricamente, che qualche connessione tra sistema nervoso e cancro ci dovesse pure essere.

Ebbene, come riferisce oggi la rivista scientifica Science in un articolo intitolato “Come i nervi del corpo diventano complici nella diffusione del cancro”, i due fronti dell’oncologia, quello genetico-molecolare e quello orientato sul versante del sistema nervoso, possono finalmente trovare un punto d’incontro nelle nuove evidenze che stanno emergendo. Si è ad esempio scoperto che i nervi periferici che si ramificano attraverso il nostro corpo e regolano i nostri organi sono partner cruciali per il cancro mentre cresce e si diffonde.

I nervi periferici sfornano molecole che sembrano aiutare la crescita delle cellule tumorali e alterano il tessuto circostante in modi che possono renderlo più ospitale per il cancro. Tali recenti studi hanno rivelato molte linee di comunicazione tra tumori, nervi e altre cellule vicine. Questa elaborata compartecipazione sembra favorire la crescita e la diffusione del cancro, in parte attraverso il rilascio di ormoni legati allo stress.

Ricercatori come Anil Sood, biologo del cancro presso il MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas a Houston, si erano già da tempo impegnati nello studio del sistema nervoso nella speranza di individuare una connessione sfuggente tra cancro e stress. Anil Sood era stato incuriosito dalle scoperte che i tumori erano cresciuti  più velocemente negli animali da laboratorio che erano stressati, ad esempio essendo fisicamente tenuti in ambiente chiuso o socialmente isolati. Ma quali potevano essere i meccanismi sottostanti alla relazione tra sistema nervoso e diffusione del cancro nel corpo?

Le ricerche si concentrarono sul sistema nervoso simpatico, che orchestra la nostra risposta di “lotta o fuga” a una minaccia percepita. E, due ormoni in particolare, l’epinefrina e la noradrenalina, svolgono un ruolo chiave in tale risposta. Come? Aumentando la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. I nervi simpatici, che si intrecciano attraverso i nostri organi e li segnalano, rilasciano i due ormoni nei tessuti vicini. Partendo dalle ghiandole surrenali collocate sui nostri reni che secernono tali ormoni rilasciati poi nel flusso sanguigno e distribuiti ampiamente in tutto il corpo.

Rimane ancora l’incognita di quanto lo stress abbia veramente un ruolo, vista la difficoltà di quantificarlo, non tanto nella genesi del cancro, mai dimostrata, quanto nel favorirne la diffusione, attraverso meccanismi neuro-ormonali, nei vari distretti e apparti del corpo. E bloccare le possibilità di metastasi, ad esempio dopo un intervento chirurgico, è un obbiettivo determinante delle cure oncologiche. Studiare il ruolo del sistema nervoso come via di diffusione delle cellule tumorali può essere una strada promettente? La risposta è di certo affermativa.

Gustavo Ayala, patologo della McGovern Medical School presso l’Università del Texas Health Science Center di Houston, tra i primi ricercatori a studiare i rapporti tra sistema nervoso e cancro, nel 2018 ha riferito alla rivista medica The Prostate  che in quattro pazienti con tumori alla prostata, a cui era stata iniettata la tossina botulinica in un lato del tumore, è stato provocata la scomparsa di più cellule tumorali rispetto al lato non trattato. Tali studi sui rapporti sistema nervoso-cancro stanno quindi aprendo nuovi approcci, nuove terapie nella cura dei tumori.

Nuove ricerche sono in corso da parte del team di Ayala, ad esempio sui nervi parasimpatici e su altre classi di nervi attraverso le proteine che li esprimono. Novità si profilano all’orizzonte dei rapporti cancro-sistema nervoso, e sono di sicuro interesse. Aggiungiamo che proprio il coblogger Enzo Soresi, da grande scienziato capace di intuito e sintesi clinico-scientifica, da decenni si è accostato alle neuroscienze, proprio rendendosi conto dei rapporti tra cancro e sistema nervoso.

Kelly Servick, “How the body’s nerves become accomplices in the spread of cancer”, Science, Sep. 12, 2019

Vedi anche: Cancro e psiche: esiste una connessione?

 

 

Cervello, sistema immunitario e ipertensione: le interazioni


Cervello_IpertensionePer generazioni di medici dire “ipertensione essenziale” equivaleva a dire che non se ne conosceva la causa. Ce l’avevi e te le tenevi. Ce l’avevi per ragioni familiari, genetiche, e te la curavi grazie ai farmaci che per fortuna sono stati messi a punto. Correggendo nel contempo gli stili di vita. Anche se un margine di rischio per infarto, ictus, insufficienza renale e disabilità, permane. Inoltre, l’ignoranza resta: cosa la innalza, cosa la causa, quali sono i meccanismi fisiopatologici che la determinano? Ancora, lo stress ha di certo un ruolo riconosciuto, quindi pure il cervello, ma in che modo?

«L’ipertensione è un importante fattore di rischio per malattie cardiovascolari», spiega Gianfranco Parati, professore ordinario di medicina cardiovascolare all’Università di milano-Bicocca e direttore scientifico dell’Auxologico, «e si associa ad un aumento della mortalità e dell’incidenza di eventi drammatici quali infarto del miocardico, ictus, insufficienza cardiaca e malattia renale cronica. Inoltre, attraverso le sue conseguenze negative, è una tra le principali cause di disabilità nell’arco della vita. Nonostante l’importanza clinica ed epidemiologica dell’ipertensione, i processi fisiopatologici che contribuiscono a determinare un aumento dei valori pressori, quasi sempre  implicando la complessa interazione di diversi meccanismi, sono ancora poco conosciuti. Da qui il termine di ipertensione “essenziale”, che sottolinea l’incompletezza che ancora oggi caratterizza le informazioni disponibili. Recentemente, sono state raccolte alcune evidenze sperimentali che suggeriscono il contributo di una complessa interazione tra fattori nervosi e meccanismi infiammatori e immunologici. In particolare vi sono dati sperimentali a favore di una interazione tra midollo osseo, microglia cerebrale e mediatori immunitari alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa. L’attenzione si è rivolta più specificamente  verso l’ interazione tra elementi del sistema immunitario, come le citochine e componenti del sistema nervoso come i neuropeptidi».

Un lavoro a cui hanno preso parte cardiologi e immunologi dell’Auxologico, tra cui cui Gianfranco Parati, propone una ipotesi nella patogenesi dell’ipertensione essenziale che chiama in causa una interazione tra midollo osseo, microglia cerebrale e mediatori immunitari – nello specifico: citochine e peptidi, come il neuropeptide Y, la sostanza P, l’angiotensina II e l’angiotensina (1-7) – che potrebbe essere alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa.

Il ruolo dello stress

In tale interpretazione patogenetica, lo stress psicologico cronico aumenta il rischio di ipertensione attraverso un meccanismo che coinvolge il midollo osseo e il sistema nervoso simpatico. L’attivazione della microglia cerebrale è un segno distintivo della neuroinfiammazione nell’ipertensione e il midollo osseo, si dice in questo articolo, contribuisce all’ipertensione aumentando lo stravaso delle cellule infiammatorie periferiche nel cervello.

Sempre più attenzione viene dunque posta ai meccanismi che determinano la neuroinfiammazione e il “crosstalk” immune, come si dice nel titolo di questo lavoro, alla base di malattie con manifestazioni a carico di vari organi e apparati, dal cardiovascolare allo stesso cervello.

«Lo stress psicologico cronico sembra avere un importante ruolo nell’aumentare il rischio di ipertensione», conclude Gianfranco Parati, «probabilmente proprio attraverso l’attivazione di questa interazione neuro-immunitaria. Nel nostro recente e  innovativo lavoro pubblicato sulla rivista Nature Reviews  in Cardiology, viene fornita una dettagliata analisi delle evidenze disponibili a questo proposito. Sia l’evidenza sperimentale sia le osservazioni cliniche sembrano in effetti dimostrare  il coinvolgimento di una interazione neuro-immunitaria alla base delle alterazioni  della regolazione del sistema cardiovascolare sottostanti l’ipertensione arteriosa. Un’immediata applicazione clinica di queste nuove interpretazioni fisiopatologiche potrà essere pertanto il suggerimento di analizzare, nello stesso paziente,  il contributo di più fattori neuro-immunitari e genetici, insieme ad  un’attenta lettura degli aspetti emozionali e psicologici. Le nuove evidenze scientifiche sembrano quindi supportare anche in questo campo la necessità di un approccio  multidisciplinare, allo scopo di ottenere  informazioni più dettagliate e più precise sul rischio cardiovascolare di un dato  paziente, nella prospettiva di una medicina che eroghi terapie quanto più possibile personalizzate».

Nature Reviews Cardiology 2019 Mar 20 
Neuroimmune crosstalk in the pathophysiology of hypertension 
Calvillo L, Gironacci MM, Crotti L, Meroni PL, Parati G

Autoipnosi: una via per gestire lo stress


Giocare a golf con l’autoipnosi… La cosa che più mi colpiva in quel giocatore con cui, tempo  fa, stavo partecipando ad una gara di golf, era la sua estrema tranquillità ed i suoi movimenti molto pacati, sia negli spostamenti da una buca all’altra che nello sviluppo del suo gioco. Spesso capita, partecipando  ad una gara di golf,  che si svolge in un team di 4 persone,  di conoscere stress-autoipnosi-con-cd-audio-libro-64836nuovi giocatori e di valutarne quindi, in un percorso di 18 buche, che dura circa 5 ore, sia le capacità tecniche che la componente emozionale, vero pilastro di  questo complesso sport in cui il gesto tecnico non è mai risolto, se non si ha la fortuna di averlo acquisito da bambini. Finita la gara e interessato da questo giocatore dilettante, così rilassato, gli domandai di cosa si occupasse nella vita e la risposta fu molto eloquente: sono un medico psichiatra – rispose – ho lavorato all’ospedale Sacco di Milano per parecchi anni, fondando l’ambulatorio di medicina psicosomatica, ed ho scritto alcuni libri di cui uno sull’autoipnosi per combattere lo stress…ecco svelato il mistero! (Enzo Soresi)

Autoipnosi (post di Bruno Renzi, psichiatra) 

È possibile oggi vivere senza stress?

Sì, in determinate condizioni psicologiche, ambientali e stili di vita è possibile che  l’esistenza si possa svolgere senza stress, una sana vita rurale o monastica potrebbero essere un buon esempio.

Ma non è questo il caso di chi vive in contesti urbani concitati con ritmi di lavoro frenetici e stili di vita che continuamente violano elementari norme di benessere psicofisico.

Lo stress quindi è, per molti di noi, una condizione che è costantemente presente nel nostro quotidiano; “ corro da un impegno all’altro, rispetto i tempi tecnici del lavoro, rispondo alle aspettative del capo o del committente, devo mantenermi in forma, devo essere altamente competitivo-a, faccio tardi la notte, litigo con il mio compagno o con la mia migliore amica ed altro”, la lista potrebbe allungarsi, ma questi sono alcuni semplici eventi stressanti che si sommano ai miei abituali stati emotivi, alle mie insicurezze, al mio modo di percepire me stesso-a, gli altri ed il mondo; risultato, stress, tensione, disagio, disfunzioni di varia natura, ansia, lieve flessione dell’umore, disturbi che se prolungati nel tempo divengono patologia.

Gli studi sullo stress

Hans Selye inizia i suoi studi sullo stress intorno agli anni trenta e giunge alla descrizione ed alla definizione della Sindrome Generale da Adattamento (GAS), intendendo con essa una reazione biologica dell’organismo ad uno sforzo fisico o psichico intenso e prolungato; questa sindrome è alla base di numerosi disturbi psicofisiologici.

Gli eventi stressanti possono essere di varia natura, sforzi fisici, fattori avversi come freddo, caldo, fame, eccessi alimentari, fattori psicosociali, tratti di personalità, aspettative proprie ed altrui, alto livello di competitività, incapacità a fronteggiare piccoli e grandi problemi della vita quotidiana, abitudini, stili di vita e convinzioni interne disfunzionali.

In una condizione di stress abbiamo una risposta fisiologica articolata in tre fasi: una prima condizione di “allarme”, ciò che percepiamo come evento stressante attiva il sistema nervoso autonomo e l’asse ipotalamo-ipofisi surrene, l’intero organismo si attiva in una condizione di “allertness”, per cui siamo pronti all’azione e possiamo resistere in una condizione che richiede un’iperattivazione psicofisica.

Una seconda fase di resistenza; se le condizioni stressanti persistono nel tempo, l’organismo cerca di adattarsi ed è già a questo livello che possono insorgere aspetti disfunzionali. Infine una fase di esaurimento con manifestazione di danni organici a volte irreversibili.

Quindi cosa accade se io vivo in modo stressante, se forzo in modo eccessivo la mia capacità di adattamento psicofisico?

Le risposte individuali allo stress

Nelle situazioni stressanti prolungate si possono avere delle risposte del tutto individuali, vale a dire che ogni individuo ha una sua peculiare risposta agli stressor in relazione alla sua struttura psicofisiologica; vi sono contesti di lavoro che possono essere fonte di ”allarme o preoccupazione” ed in tali circostanze alcuni individui hanno risposte del tutto normali, altri a secondo delle loro peculiari strutture psicofisiche possono percepire stati di tensione, ansia, disperazione o attacchi di panico che inibiscono delle risposte funzionali nel contesto affettivo, relazionale e lavorativo; risposte da stress che appartengono ad un ampissimo “spettro” che va dalla semplice disfunzione a carico di un apparato, ad esempio tachicardia, sudorazione, tremori, disfonia etc… sino a condizioni più complesse quali stati d’ansia, intensa paura, irritabilità, imbarazzo, difficoltà a concentrarsi.

Gli eventi stressanti attivano risposte fisiologiche, che in un primo momento hanno una funzione positiva, consentono una condizione di attivazione dell’organismo per affrontare la situazione stressante; questa condizione è indicata come eustress quando è di normale entità, prepararsi ad una gara ad un esame, affrontare il pubblico sono eventi che possono essere vissuti in una condizione di eustress.

Quindi una risposta fisiologica di breve durata non determina danni per la salute; la situazione cambia se la condizione di stress perdura nel tempo, ad esempio le condizioni di vita stressanti descritte precedentemente perdurando a lungo attivano risposte fisiologiche che divengono disfunzionali determinando patologie di varia natura in relazione alla struttura psichica ed alla costituzione dell’individuo.

Le risposte fisiologiche sono mediate dal sistema nervoso autonomo e dal sistema endocrino con variazioni a cascata mediate dalla produzione di adrenalina e noradrenalina e dal cortisolo.

In una condizione di stress, come già descritto, assisteremo ad un aumento della frequenza cardiaca, del ritmo respiratorio, della pressione arteriosa, della sudorazione, della motilità intestinale, della tensione muscolare e molte altre variazioni di parametri biologici e se queste variazioni sono prolungate per una condizione di costante stress si manifesteranno patologie correlate all’impossibilità di un adattamento prolungato.

Stress cronico, epigenetica e danni al Dna

Oggi la scienza dimostra che una condizione di stress prolungato può determinare con meccanismi epigenetici dei danni a livello del Dna che possono permanere nel tempo, generando quindi erronee sintesi proteiche e disfunzionalità nella espressione genica con conseguente danno cellulare e sistemico.

Al di là dell’esistenza di condizioni stressanti, ciò che ha un valore determinante è il vissuto personale di un evento, ossia la percezione e l’attribuzione di un certo significato ad un evento o ad un contesto.

È il mio vissuto personale che determina la mia risposta psicofisiologica, così ancora una volta ciò che per alcuni può essere stressante non lo è per altri ed in alcuni casi uno stress può essere fonte di eccitamento positivo e di piacere.

Anche una condizione di stress emozionale cronico legato all’incapacità di elaborare adeguatamente emozioni profonde, quali rabbia, lutto, delusione, può determinare nel tempo condizioni patologiche che alterano le performance relazionali e lavorative.

Ed allora come si può ridurre lo stress e migliorare le proprie performance lavorative e relazionali?

Esistono diverse metodologie o tecniche che consentono di ridurre lo stress, spesso alcune appartengono a tradizioni di conoscenza mistico-filosofiche orientali che prevedono un impegno intellettuale e motivazionale non indifferente; al di là di queste nella mia esperienza l’autoipnosi è più incisiva, nel lisare lo stress, rispetto alle normali tecniche di rilassamento o del training-autogeno.

L’autoipnosi può essere appresa con estrema facilità e può essere considerata una forma di igiene mentale; la pratica quotidiana consente di ritrovare e realizzare una condizione psicofisica ottimale che migliora notevolmente la nostra capacità di adattamento allo stress.

Ho utilizzato l’autoipnosi in molti disturbi psicosomatici e con soggetti che desideravano avere una personale fonte di rigenerazione psicofisica per affrontare lo stress della vita quotidiana.

Diversi sono i benefici che si possono ottenere con una pratica quotidiana dell’autoipnosi di pochi minuti:

miglioramento della qualità del sonno

● recupero più veloce dopo uno sforzo fisico o intellettuale intenso

● riduzione progressiva del nervosismo

● maggiore resistenza all’ansia ed agli shock emotivi

● migliore resistenza alle malattie

poiché la stabilizzazione di uno stato di rilassamento riduce le disfunzioni da stress, attraverso la normalizzazione di tutti i parametri biologici correlati;  è sufficiente una pratica di 10 – 20 minuti mattino e sera per modificare in modo sostanziale le nostre risposte allo stress.

Voglio concludere con un’ultima indicazione: l’autoipnosi è la porta di ingresso verso stati di coscienza modificati che consentono un aumento delle nostre capacità di interazione e di relazione, una via principe agli stati più profondi della dimensione inconscia che consentono un potenziale processo di rinnovamento e progresso in ogni area della nostra esistenza.