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Serve ancora la psicoanalisi? Ovvero: l’inconscio costa


Ho conosciuto, frequentato e intervistato grandi psicoanalisti, addirittura “padri” della disciplina nel nostro paese, come Cesare Musatti ed Emilio Servadio. Ed altri della generazione successiva, come Mauro Mancia, e pure critici nei confronti dell’establishment psicoanalitico, come Elvio Fachinelli. L’impressione che ne ho ricavato è stata di trovarmi di fronte a personaggi di grande intelligenza, sensibilità, preparazione, apertura mentale. Intenzionati ad esplorare non soltanto il disagio metale, ma pure le infinite variazioni che cultura, creatività, espressione artistica, offrono alla comprensione della psiche umana. Ma tuttavia consapevoli di rappresentare una disciplina che si propone come chiave di intepretazione della psiche, della personalità e dell’agire umano, costantemente in divenire.

Ho conosciuto persino demolitori della psicoanalisi, come Hans Eysenck, uno dei fondatori della psicologia comportamentale che, ai gloriosi lunedì letterari che un tempo si svolgevano al Piccolo Teatro di via Rovello a Milano, tenne una conferenza dal titolo fin troppo esplicito: “declino e caduta dell’impero freudiano”. Eysenck che era tra l’altro dotato di fine umorismo british, negava totalmente l’esistenza di ciò che viene  definito “inconscio”. Quando gli chiesi: “E allora i sogni?”. Mi rispose con un sorriso tra l’ironico e il sarcastico: “Non hanno alcun significato”.

Ho incontrato pure James Hillman e concordo in parte con lui: cento anni di psicoanalisi e il mondo va sempre peggio. In parte, perché forse, senza psicoanalisi, sarebbe andato ulteriormente peggio.

La psicologia comportamentale è stata una “deriva” necessaria del secolo scorso. Aveva necessità e urgenza di affrancarsi dall’influenza della filosofia (non dimetichiamo che in passato non vi era alcuna differenza tra psicologia e filosofia). Doveva diventare pienamente scientifica e sperimentale. Accantonando, per un certo periodo, tutto ciò che era reame “interiore”. Questa scissione schizoide – oggi possiamo storicamente affermarlo – è stata in parte compensata dalla psicoanalisi freudiana. Ma anch’essa si trovò nella necessità di affermarsi sul piano rigorosamente scientifico, per quanto fosse possibile e, soprattutto, plausibile. C’era, come ebbe più volte ad affermare Freud, sempre il rischio che gli psicoanalisti fossero scambiati per studiosi di fenomeni “occulti” (interessi che del resto spopolavano tra gruppi di accademici e scienziati di fine Ottocento, inizi Novecento).

Il rigore della psicoanalisi feudiana, tuttavia, generò una ulteriore messa al bando di tutti quei fenomeni psichici che le teorie di Freud non erano in grado di interprerare. Da qui la scissione con Jung e la nascita di una ulteriore disciplina: la psicologia del profondo (o analitica). Di scissione in scissione o, se preferiamo, di moltiplicazione in moltiplicazione, siamo oggi giunti a svariate centinaia di diversi indirizzi psicoterapici (ne erano stati censiti più di 300 nei soli Stati Uniti, che incrementano di giorno in giorno – vale dunque la pena di attenersi alla regola: esistono tanti indirizzi psicoterapici quanti sono gli psicoterapeuti). Una ulteriore necessità storica è stata quella di voler legare la psicoanalisi alle scoperte delle neuroscienze – molto mitigata, per difficoltà oggettive, in questi ultimi anni. Penso che ricercare l’inconscio nel cervello, per certi versi sia simile a volerci scovare l’anima.

Trovo ulteriore conferma di quanto dico – progressivo distanziamento dall’entusiasmo iniziale sui rapporti tra psicoanalisi e neuroscienze –  dal XV Congresso nazionale della Società psicoanalitica italiana (Spi) che si conclude oggi a Taormina (Esplorazioni dell’inconscio: prospettive cliniche). Dal programma si desume un interesse preminente per gli aspetti più clinici e culturali della psicoanalisi, che non per le presunte dimostrazioni nell’ambito delle neuroscienze. Questi ultimi percorsi, mi pare di capire, hanno rischiato una ulteriore deriva della psicoanalisi: nel tentare di rintracciare i correlati neurologici dell’inconscio, si finisce magari col trascurare le ramificate e cangianti dinamiche del medesimo.

Che l’inconscio non sia fisso e inamovibile come quello concepito da Freud, lo conferma anche Stefano Bolognini, psichiatra, psicoanalista e presidente della Spi. Nell’intervista che ha rilasciato a Egle Santolini (“Nell’era dell’uomo catamarano”, La Stampa, 28 maggio 2010) afferma riguardo i pazienti che giungono in analisi: «Sempre più spesso, invece che i classici sintomi nevrotici, con i tradizionali comportamenti ossessivi o ansiosi, ci troviamo a fare i conti con un dolore sordo, poco strutturato, indefinito. Il fatto è che è l’inconscio ad essere mutato».

Ma, mi domando: se l’inconscio muta, ha ancora senso chiamarlo inconscio? E l’inconscio cambia, sicuramente, anche a seguito della crisi economica e sociale che ci attanaglia. Non auspico certo una “psicoanalisi popolare”, per mettere in analisi e “curare” l’intera società, come capitò di sentir dire in passato (e comunque uno psichiatra come Ronald Laing può oggi essere considerato profetico, per come seppe intuire e descrivere i guai mentali che avrebbe prodotto un certo tipo di cultura sociale e industriale).

Un trattamento psicoanalitico, un tempo distribuito su cinque volte la settimana, oggi viene “ridotto” a tre o quattro. I costi? Dai 40 agli 80 euro, a seduta. Avere un inconscio, costa. In tutti i sensi. Non passerà molto e qualcuno proporrà che, in tempi di crisi e siccome muta, conviene abolirlo. Oppure applicare una pesante tassa sull’inconscio. Per legge.

Mauro Mancia: il fisiologo dell’inconscio


 

Ho incontrato la prima volta Mauro Mancia molti anni fa, all’Istituto di Fisiologia umana seconda dell’Università di Milano, che egli dirigeva. Mi colpì a prima vista il suo mix di capelli neri e lunghi sulla nuca, da sessantottino, l’aspetto ieratico, longilineo, per niente italiano, e il parlare scandito, rigoroso, calmo, preciso. Ed era davvero singolare che fosse medico, fisiologo e psicoanalista. Lo incontrai per intervistarlo su una delle sue grandi passioni, probabilmente la maggiore della sua vita di studioso: sonno e sogno. In questo tema Mancia scorse, a ragione, uno dei problemi cardine per cercare di comprendere e chiarire il misterioso salto dalla mente al corpo, come diceva Freud. Stavo scrivendo una serie di articoli sul sogno dal punto di vista scientifico, e arrivai a Mancia su indicazione di Cesare Musatti, suo analista didatta.  «Vada a parlare col mio allievo Mauro Mancia – mi suggerì Musatti – ha molte cose interessanti da raccontarle al riguardo».

Dalla sua formazione in ambito medico, al corso di studi del suo insegnamento accademico fino alla psicoanalisi, fu conseguenza inevitabile per Mancia occuparsi di neurofisiologia e precorrere i tempi del grande interesse verso le neuroscienze. Va aggiunto che, in un primo tempo, Mauro Mancia avrebbe voluto fare lo psichiatra. Proposito che abbandonò per seguire il percorso della psicoanalisi freudiana, dopo l’esperienza delle prime guardie all’allora Ospedale psichiatrico milanese Paolo Pini di Affori, diretto dal padre della psichiatria italiana Carlo Lorenzo Cazzullo. Tra l’altro fu proprio Cazzullo, a quanto egli stesso mi raccontò, a sconsigliare Mancia di proseguire sulla via psichiatrica, in quanto troppo emotivamente coinvolto dai pazienti psichiatrici.

Ho a lungo frequentato anche Marco Margnelli, con Mancia entrambi neurofisiologi-sperimentatori su sonno e sogno (purtroppo allora si trovarono a svolgere tali ricerche registrando l’attività cerebrale dei gatti, cosa di cui Margnelli, e credo pure Mancia, si sarebbero successivamente pentiti)  seguendo l’insegnamento del grande Giuseppe Moruzzi. Fu una importante stagione della ricerca neurofisiologica italiana, che avrebbe dovuto dar luogo ad un altrettanto radioso avvenire per le neuroscienze nazionali. Cosa che invece non avvenne, o avvenne molto marginalmente. Uno dei motivi fu il solito di oggi: mancanza di fondi adeguati per la ricerca. Era al tramonto l’era dei laboratori di neurofisiologia composti fondamentalmente da elettroencefalografi (EEG) ed elettrodi – o meglio sopravvivevano, ma integrati con i nuovi e costosi programmi e apprecchiature computerizzati. Per non parlare dell’avvento della ricerca per neuroimmagini.

Le neuroscienze hanno richiesto e richiedono pure oggi investimenti molto onerosi, cosa che né il CNR, per il quale Margnelli lavorava, né tantomeno l’Università potevano affrontare. Margnelli raccontava che certe cose occorrenti presso il suo ufficio, doveva addirittura acquistarle personalmente o portarsele da casa. Questo per dire che pure Mauro Mancia non ha potuto disporre di grandi mezzi per condurre i propri studi in neuroscienze. Il mezzo migliore sono stati il suo stesso cervello, il suo acume e l’aggiornamento costante che praticò da accademico e ricercatore, oltre ai collaboratori e allievi che ha saputo creare. La psicoanalisi fu un ulterire strumento intellettuale di cui poter disporre. E, anche attraverso Mancia, la psicoanalisi è uscita dai salottini e si è alzata dai divanetti, per entrare nei laboratori e nei protocolli di ricerca. In fondo, Freud e Jung erano medici. Freud preconizzò l’avvento e la fortuna delle neuroscienze e della neurofarmacologia.

Ho chiesto a Luca Imeri,  anch’egli docente al Dipartimento di Fisiologia umana II dell’Università di Milano, come allievo e continuatore degli studi di Mancia, quale ritiene sia il maggior contributo che egli abbia lasciato nella comprensione dei rapporti tra neuroscienze e psicoanalisi.

«Mi sembra che il tratto più caratteristico e importante della figura scientifica di Mancia – spiega Imeri – consista nel suo essere stato un neurofisiologo ed uno psicoanalista che ha praticato entrambe le discipline di prima mano. Mancia, l’attività dei neuroni cerebrali non solo l’ha studiata, ma l’ha registrata direttamente in laboratorio. E, insieme, per anni ha visto pazienti e supervisionato colleghi. Mi sento di dire che non credo siano in molti, non solo a livello italiano, ma internazionale, ad avere (o avere avuto) un percorso professionale così peculiare che ha fornito a Mancia un punto d’osservazione speciale e prezioso sulla relazione mente-corpo. Alla sua scomparsa nel 2007, ne ho scritto l’obituary per Sleep (la rivista di settore più importante a livello mondiale per chi si occupa professionalmente di studiare il sonno e curarne i disturbi), in cui è possibile trovare altri informazioni su Mancia, il suo contributo e qualche mia considerazione».

Ora Milano celebra giustamente e finalmente, a tre anni dalla scomparsa, il suo maestro con un incontro dal titolo  “Mauro Mancia. Una vita tra psicoanalisi e neuroscienze”. Ovvero: “Inconscio non rimosso, memoria, sogni. Studiosi italiani e stranieri si confrontano sui filoni principali delle ricerche di Mancia cercando i punti di contatto tra Psicoanalisi e Neuroscienze” (Sabato 20 marzo, Casa della Cultura, Via Borgogna 3, Milano, dalle 9.15 alle 16.30).

Le note di presentazione della giornata dicono:

Mauro Mancia (Fiuminata 1929 – Milano 2007) considerato uno dei padri delle neuroscienze in Italia è stato allievo di Cesare Musatti, ha dedicato la vita a discipline apparentemente parallele – le Neuroscienze e la Psicoanalisi. Convinto che le due dottrine fossero indispensabili per la conoscenza della mente umana, vide le contaminazioni più fertili nell’ambito della Memoria e del Sogno; senza mai trascurare le fondamentali differenze di metodi e strumenti usati per lo studio.

Studioso rigoroso e severo, ha creduto nell’alleanza tra Psicoanalisi e Neuroscienze creando le basi per gli odierni filoni di studio alla scoperta della mente umana: “Esse sono alleate” – affermava Mancia – “dal momento che è possibile considerare alcune funzioni della mente fondamentali per la Psicoanalisi, come quelle di inconscio radicate nelle funzioni della mente, care alle Neuroscienze, come la memoria. Anche nel sogno è possibile trovare delle forme di alleanza anche se il metodo di studio è diverso: le Neuroscienze si occupano della organizzazione neurofunzionale del sogno e dei trasmettitori coinvolti, mentre la Psicoanalisi è interessata al significato del sogno e alla sua integrazione con le esperienze affettive ed emozionali più precoci”. 

Mauro Mancia è stato professore emerito di Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Milano, presidente dell’ASSORN (Associazione per la Ricerca Neurofisiologica), presidente della SIRS (Società Italiana di Ricerca sul Sonno). Ha fondato il Centro Sperimentale di Ricerca del Sonno “G.Moruzzi” che ha diretto per alcuni anni. E’ stato membro ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana e analista dell’International Psychoanalytical Association.

Ha pubblicato libri e diversi lavori sia scientifici come neurofisiologo sia teorico/clinici come psicoanalista.

Tra i suoi libri ricordiamo la sua ultima fatica,  Narcisismo, Il presente deformato dallo specchio appena pubblicata postuma da Bollati Boringhieri; Sonno & sogno (Laterza, 2006); Il sonno e la sua storia. Dall’antichità all’attualità (Marsilio, 2004); Sentire le parole. Archivi sonori della memoria implicita e musicalità del transfert, Bollati Boringhieri, 2004; Psicoanalisi e Neuroscienze, Springer, 2007.

A Milano si raccolgono amici, studiosi, allievi, per ricordare la sua straordinaria figura e per portare avanti i suoi filoni di ricerca. Tra i partecipanti: Vittorio Gallese che con Giacomo Rizzolatti e il gruppo di ricerca dell’Università di Parma sono famosi in tutto il mondo per avere scoperto i “neuroni specchio” e che approfondirà il tema Psicoanalisi e Neuroscienze.

Mauro Manica, psichiatra di Novara e membro SPI, recentemente insignito del Ticho award 2009 (premio per analisti che si siano distinti per il loro lavoro clinico e di ricerca) in occasione del Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Chicago e Antonio Di Benedetto, psicoanalista che con lui condivideva le ricerche su musica e psicoanalisi.

Singolare davvero, aggiungo io, per quelle strane cose che la vita ci riserva, l’associazione tra Mauro Mancia e Mauro Manica: praticamente omonimi, se non fosse per quella “i” preposta o posposta, a seconda di chi ci si riferisca. Tanto che capita si pensi ad un errore di battuta, confondendo Mancia per Manica, e viceversa. Davvero uno scherzo freudiano (della serie “motti e giochi di parole”) o uno scambio di personalità alla Pessoa, che avrebbero certamente divertito un raffinato e ironico pensatore come Mauro Mancia.