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Ancora sul libero arbitrio: “Cosa ne penso da fisico”


(Post di Simone Zoia, fisico teorico dell’Università di Torino)

 

Sono personalmente d’accordo con l’affermazione che il libero arbitrio non esista, intendendo con “libero arbitrio” una forma di volontà/coscienza che trascenda le leggi della fisica e sia in grado di influenzare le nostre scelte.

Per quel che capisco, il fatto che la meccanica quantistica introduca un elemento di casualità intrinseco nelle leggi della fisica non ha alcuna conseguenza sulla conclusione che il libero arbitrio – inteso come sopra – non esista. Per quanto i fenomeni quantistici distruggano l’idea di determinismo in senso classico, essi sono per l’appunto casuali: possono introdurre un grado di impredicibilità negli eventi, ma non sono influenzati da alcuna forma di “volontà”. Un tale fenomeno, se mai esistesse, andrebbe oltre le leggi della fisica attualmente note. Ciò è estremamente improbabile, poiché tali leggi sono state confermate da un’infinità di osservazioni negli intervalli di energie e distanze rilevanti per la nostra vita quotidiana (inclusi i fenomeni neurologici). Anche se la nostra comprensione della natura potrebbe non essere definitiva, qualsiasi modifica alle attuali leggi avrebbe impatto solo a scale di energia incredibilmente elevate o distanze incredibilmente piccole (per fenomeni come i buchi neri o il Big Bang, per esempio). Le attuali leggi della fisica resterebbero validissime, anche se come approssimazioni, per tutti i fenomeni rilevanti per la nostra vita quotidiana.

Detto ciò, il concetto di “libero arbitrio” resta per me utile in due sensi.

Primo, come proprietà per descrivere il comportamento umano. E’ in pratica impossibile descrivere il comportamento umano in termini delle leggi fondamentali della fisica. Per esperienza personale le posso dire che è già sufficientemente difficile determinare il comportamento di una singola particella, figuriamoci un intero organismo! Se vogliamo descrivere il comportamento degli esseri umani è necessario ricorrere a proprietà emergenti. Il fisico/filosofo Sean Carrol esprime questo concetto con una metafora molto astuta: “il libero arbitrio è reale quanto il baseball”. Le regole del baseball non fanno parte delle leggi fondamentali della fisica e sarebbe praticamente impossibile spiegare una partita di baseball partendo dalle particelle subatomiche. Per questo, quando guardiamo una partita di baseball, facciamo ricorso alle regole del baseball e non a quelle del Modello Standard della fisica delle particelle. Allo stesso modo, per descrivere il comportamento di una persona occorre ricorrere a regole emergenti, come per esempio il libero arbitrio. Possiamo quindi vedere le persone come agenti razionali dotati di libero arbitrio non perché esse abbiano una libertà intrinseca che trascende le leggi della fisica, ma poiché tale descrizione funziona molto bene per spiegare il loro comportamento.

Secondo, il concetto di libero arbitrio è fondamentale per la società. Rinunciare a descrivere il comportamento delle persone in termini di libero arbitrio vorrebbe dire rinunciare al concetto di responsabilità. Considerare le persone come agenti razionali dotati di libero arbitrio non solo è una buona e semplice descrizione del loro comportamento, ma garantisce una migliore vita di comunità per tutti.

In conclusione, la mia posizione sul libero arbitrio è che non esista come fenomeno fisico, ma che sia un’utilissima proprietà emergente che consente una più semplice descrizione del comportamento umano e una migliore vita di comunità.

Enzo Soresi: “Qualche riflessione, da medico, su libero arbitrio e no vax”


Come medico ho sempre ritenuto che le mie decisioni diagnostiche e terapeutiche fossero  condizionate dal libero arbitrio che ognuno di noi ritiene di esercitare. La sensazione di essere responsabili delle nostre scelte è fondamentale per la nostra esistenza e a maggiore ragione in campo medico quando la nostra decisione può mettere ingioco la vita dei nostripazienti. In realtà la liberta di decidere ogni nostra azione che riteniamo scontata, cioè questo tipo di libero arbitrio, è esclusa dalle leggi della fisica.

Il neuroscienziato Vilayanur S. Ramachandran, ha definito il libero arbitrio “un concetto  intrinsecamente imperfetto  ed  incoerente”. Secondo Yuval Noah Harari il libero arbitrio è un mito anacronistico reso obsoleto dalla capacità della  moderna scienza dei dati di conoscersi meglio di quanto conosciamo noi stessi e quindi di prevedere e manipolare le nostre scelte. Benjamin Libet, negli anni ’80 del secolo scorso, collegando i suoi soggetti volontari ad un elettroencefalogramma e chiedendogli di muovere un dito in un momento da loro deciso trovò che la loro decisione poteva essere rilevata dall’attività cerebrale 300 millisecondi prima che prendessero una decisione consapevole. Altri studi successivi hanno rilevato attività cerebrale fino a 10 secondi prima di una scelta consapevole.  Come bene, peraltro, ha dimostrato Damasio con il concetto di  marcatore somatico, ogni nostra scelta è condizionata da un atto intuitivo frutto di una summa di esperienze memorizzate costruite con il tempo nel network cerebrale e nato da percezioni e sensazioni  che nascono nel corpo.  

E’ chiaro quindi che alcune attività cerebrali precedono il momento in cui ne diventiamo consapevoli. Secondo GiulioTononi, neuroscienziato italiano, studioso della coscienza, ogni nostra decisione avviene come se in un senato della repubblica 500 senatori discutessero animatamente fino a che uno alza la mano e decide per tutti. In altre parole è sempre l’atto intuitivo che decide per noi. Se si dimostrasse che il libero arbitrio non esiste e se dovessimo accettare questa idea “scoppierebbe una guerra culturale molto piu violenta di quella che è stata combattuta sul tema dell’evoluzione” ha scritto Harris, potremmo arrivare a pensare che sia moralmente ingiustificabile infliggere punizioni ai criminali dal momento che non potevano scegliere di non commettere i loro reati.

In una raccolta di dialoghi con il collega filosofo Daniel Dennet, Gregg D. Caruso scrive in Just deserts   “non è mai giusto trattare qualcuno come se fosse moralmente responsabile”. Consideriamo il caso di Charles Whitman. La notte del 1 agosto 1966, Whitman, un ex marine statunitense 25 enne e apparentemente sano di mente, compì un massacro uccidendo prima sua madre a coltellate e poi,  sparando all’impazzata dal tetto di un edificio sito in un Campus  del  Texas, ammazzò altre 11 persone. Alla fine di questo massacro fu ucciso dalla polizia. Poche ore dopo questa tragedia  venne trovato un messaggio scritto da Whitman la sera prima in cui  esprimeva un profondo disagioper pensieri ricorrenti strani ed irrazionali. “Dopo la mia morte vorrei venisse eseguita una autopsia per vedere se ho qualche problema fisico” si trovò scritto  nei suoi appunti. L’autopsia fu eseguita e venne rilevato un grosso tumore cerebrale che comprimeva l’amigdala il nucleo cerebrale della memoria implicita che governa le nostre emozioni. In questo caso la presenza del tumore giustifica il comportamento malvagio  ma a questo punto dobbiamoporci unadomanda scomoda: cosa ha di tanto speciale un tumore rispetto a tutti gli altri modi in cui il cervello spingele persone ad agire ?

Scrive a questo proposito Strawson,  mentre faceva  ricerche per la sua tesi di dottorato “nel 1975 stavo leggendo qualcosa sulle opinioni di Kant sul libero arbitrio e rimasi colpito, la logica, una volta intuita, sembra freddamente inesorabile. Comincia da quella che sembra una verità ovvia: tutto ciò che succede nel mondo deve essere stato causato da cose successe prima ed a loro volta quelle cose sono state determinate da fatti precedentemente avvenuti e cosi’ via fino all’alba dei tempi. Causa dopo causa tutte seguono le prevedibili leggi della natura, anche se non le abbiamo ancora comprese “. Tutto questo risulta più comprensibile nel mondo fisico della natura. Ma sicuramente “da cosa nasce cosa” anche nel mondo delle decisioni e delle intenzioni. Poco tempo fa, a cena con il filosofo Umberto Galimberti, alla mia domanda di cosa pensasse del libero arbitrio, la risposta fu lapidaria: tutto è predeterminato! 

Le nostre decisioni  implicano una attività neurale e perché un neurone dovrebbe essere esente dalle leggi della fisica più di una roccia è la mia riflessione. A parte Galimberti, la prevalenza dei filosofi respinge la tesi contro il libero arbitrio ed aggiungono che anche se le nostre scelte sono predeterminate ha comunque senso dire che siamo liberi di scegliere. Questi filosofi sono definiti “compatibilisti” cioè pensano che determinismo e libero arbitrio siano compatibili. In sostanza, qualunque sia la verità filosofica siamo tentati di liquidare la controversia sul libero arbitrio  pensando che non sia importante per la vita reale dato che non possiamo fare a meno di provare la sensazione di possederlo. Da qualche tempo, da quando ho approfondito questo argomento, ho la sensazione che le mie parole ed i miei atti sorgano spontanemente , come da un programma cerebrale preordinato.

Anche durante le visite mediche, presso il mio studio professionale , le mie diagnosi si esprimono con semplicita’ come se sgorgassero da un software cerebrale già presistente costruito sulla base delle mie molteplici esperienze  clinico – diagnostiche. Quale è quindi il rischio? Che dal software partano programmi in quel caso clinico non  corretti e che io invece do per scontati. Come ovviare a questo rischio? Parecchi anni fa un radiologo mi spiegò che di fronte ad una radiografia del torace aveva l’abitudine di riguardarla dopo avere  espresso la sua prima diagnosi e di esprimere quindi un secondo parere diagnostico (second look). In alcune occasioni la seconda diagnosi era più veritiera ed accurata. Ecco il trucco quindi, una volta espressa la diagnosi, riflettere su  tutti i dati clinici a nostra disposizione e quindi riformulare unaseconda ipotesi  diagnostica che, se uguale alla prima ci darà maggiore tranquillità e se poi non saremo ancora tranquilli sarà utile discutere il caso clinico con un collega che stimiamo ed il cui software cerebrale è costruito su esperienze diverse dalle nostre. In ogni caso se il libero arbitrio si dimostrasse davvero inesistente , le implicazioni potrebbero non essere del tutto negative.

Harris sostiene che se comprendessimo a pieno la tesi dell’assenza del libero arbitrio, sarebbe difficile odiare gli altri: come si può odiare  qualcuno che non si incolpa per le sue azioni?  E pensando all’attuale momento storico in cui il Covid 19 ha messo in crisi l’intera umanità come si potrebbero incolpare i no vax di qualche colpa se il loro network cerebrale è stato programmato per non desiderare di  ricevere il vaccino?

Concludo citando una riflessione tratta dal libro di  Christian List Il libero arbitrio:  “Si può dunque affermare che, se abbandonassimo la nostra  fede nel libero arbitrio, dovremmo attuare una profonda revisione del modo in cui concepiamo la condizione umana. In breve, stando al senso comune, il libero arbitrio sembra essere una capacità umana cruciale , non meno cruciale del pensiero e del linguaggio. La sfida , per la scienza e per la filosofia , è quella di chiarire se siamo davvero in possesso di questa capacità e, in tal caso , come essa si adatti alla nostra visione scientifica del mondo”.

Per approfondire:

“Siamo davvero liberi di scegliere?”,  Internazionale 2/8 luglio 2021, Numero 1416

Christian List, Il libero arbitrio. Una realtà contestata, Einaudi, 2020

Il cervello innocente: intervista a Giuseppe Sartori

Il cervello innocente: intervista a Giuseppe Sartori


Viviamo in piena neurocultura secondo alcuni, neuromania per altri. Ci sono neuroscienziati e neurofilosofi. I secondi cercano di spiegare ai primi le conseguenze, soprattutto etiche, delle loro scoperte. Facciamo qualche esempio. Se le tecniche di visualizzazione cerebrale consentono di scovare alterazioni nel cervello di un criminale, ciò potrà influenzare il nostro giudizio sulla sua responsabilità e, di conseguenza, la pena che gli commineremo? Il dibattito è aperto, e già oggi vi sono procedimenti in tal senso. Le perizie a carico di neurologi, psichiatri o psicologi clinici si avvalgono della competenza professionale e sui mezzi che il periodo storico rende disponibili. Se in futuro le tecniche diagnostiche (e non semplicemente i test proiettivi, ad esempio) consentiranno di valutare modificazioni o alterazioni neuronali, anche minime, addirittura molecolari, dovremo tenerne conto nel giudizio sul comportamento di un criminale?

Lombroso partiva dalle caratteristiche fisiche dell’uomo delinquente, la criminologia successiva dagli aspetti psicologici e, oggi, addirittura da quelli neurobiologici. Altro elemento, a lungo dibattuto, è quello a carico dell’accertamento strumentale della testimonianza veritiera o fasulla. Esistono, o potranno esistere procedure di lie-detection (anche attraverso l’imaging cerebrale e non solo la registrazione dei parametri fisiologici) in grado di accertare se un teste mente o dice la verità? E, di nuovo, perché insistiamo a non riconoscere validità alle  moderne tecniche di lie-detection, il cui margine d’errore può essere inferiore al trenta per cento, quando una diagnosi crimolologica vecchio stile può sbagliare per oltre il cinquanta?

Anche prendendo in esame il solo campo neurogiuridico, ulteriore neologismo col prefisso “neuro”, è evidente che la massa di conoscenze, dati e scoperte mediati dalle neuroscienze è talmente vasta, intrecciata e complessa, da rendersi indispensabili strumenti di analisi critica, riflessione e, soprattutto, sintesi. Le neuroscienze ci prospettano una immagine di noi stessi che, per certi versi, si discosta, a volte in maniera radicale, da quelle ricavate dalla storia del pensiero precedente.

Dunque potremo un giorno sostenere, come il titolo di un recente saggio (Il delitto del cervello, Codice Edizioni), che è il cervello ad essere “colpevole” di un delitto o di un crimine? Se noi siamo il nostro cervello, una alterazione anche minima della biochimica cerebrale, non può essere alla base di un comportamento criminale? Insomma è sotto accusa il nostro cervello o la nostra personalità? Dove sta il confine? Enormi ed infiniti quesiti che il panorama aperto dalle neuroscienze ci fa solo intravedere. Abbiamo cercato di chiarirci le idee con Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia clinica presso l’Università di Padova e direttore del Master in Psicopatologia e neuropsicologia forense.

Proprio in questi giorni, si sta svolgendo a Padova, anche su iniziativa di Sartori, un convegno internazionale di neuroetica sul tema “Le neuroscienze tra spiegazione della vita e cura della mente”.

La sintesi grossolana di questa conversazione con Sartori, che dà anche il titolo a questo post, sembra comunque essere che il cervello è “sempre” innocente. Scoprite perché.

Professor Sartori vedo dal programma che affronterà il caso della cosiddetta “mano aliena”: di cosa si tratta?

Io come altri ci occupiamo di libero arbitrio. Da neuropsicologo lo affronto dal punto di vista di come lo studio delle patologie neurologiche può farci capire come noi prendiamo decisioni volontarie. Partendo dalla patologia, deduciamo, inferiamo il funzionamento normale della mente e come si produce l’azione volontaria. Ad esempio se ora preme un pulsante, lei ha un senso di proprietà della mano che preme ed è un tutt’uno con il senso della mano che preme, la finalità della mano che schiaccia, la finalità di premere il bottone e voler iniziare l’atto. Cioè è un’unica cosa. In realtà la sindrome della mano aliena dimostra che le cose sono scorporate. Nel senso che il soggetto con mano aliena che, ad esempio, potrebbe colpirsi la faccia, ha la sensazione che la mano sia sua, che l’azione sia finalizzata, cioè tirarsi delle sberle, ma non è lui a volersi tirare delle sberle. Praticamente la mano non obbedisce alla sua volontà.

Quali aree cerebrali sono interessate nella sindrome della mano aliena?

È poco studiata ed è considerata una condizione instabile, nel senso che non rimane a lungo immutata. Trattandosi di azioni volontarie, è riconducibile alla funzionalità del lobo frontale. Tutti i disordini dell’incapacità di iniziare un comportamento, sono riconducibili ad alterazioni del lobo frontale. Uno dei relatori del nostro convegno, Dylan Jones,  ha studiato approfonditamente le attività cerebrali legate alle azioni volontarie. E’ riuscito in particolare prevedere in base a una particolare attività del cervello, riferita all’area del lobo frontale, ancor prima che la persona ne sia direttamente consapevole, se è in procinto di muovere la mano destra o sinistra. Il lobo frontale contiene l’informazione che andrò a muovere la mano destra ancor prima che a me sembri di aver deciso di muovere la mano destra.

Nel recente Il delitto del cervello viene fuori questo paradosso che recita “Non sono stato io, ma il mio cervello”: è probabile che qualcuno prima o poi tenti di scagionarsi da un delitto in questo modo? 

Quel libro è il migliore che c’è in circolazione su questi temi, ma un concetto del genere non è assolutamente sostenibile. La posizione che sta portando avanti il gruppo di cui faccio parte è che le questioni di responsabilità sono svincolate da quelle relative al cervello. Dal punto di vista scientifico esiste la possibilità teorica di ricostruire il nesso di causa che determina ogni nostra azione. Ci avviciniamo sempre di più al lavoro di Dylan Jones, però dal punto di vista della responsabilità è una questione che ha a che fare con l’aspetto cognitivo e non col cervello. Le faccio un esempio. Se un soggetto è pedofilo, cioè agisce con azioni di natura sessuale nei confronti di un minore, può essere o non essere responsabile indipendentemente dal suo cervello. Ad esempio, vi sono delle pedofilie acquisite a causa di lesioni nella regione dell’ipotalamo, per tumori nella zona ipotalamica, che possono interferire con i nuclei dell’ipotalamo coinvolti nell’orientamento sessuale, dando origine a questo comportamento. Però dal punto di vista della questione se la pedofilia sia acquisita o congenita, è piuttosto irrilevante. Ciò che conta è la capacità di fare diversamente. I test sulla responsabilità sono di tipo psicolegale, non di tipo neurologico. Test di tipo psicolegale significa che si vada ad accertare la seguente questione: il soggetto è in grado di fare diversamente, se solo avesse voluto? Questo è il discrimine.

E la risposta finale qual è? Se parto dal concetto che una lesione o una alterazione del cervello potrebbe essere alla base di un comportamento criminale, posso dimostrare sia che un soggetto è innocente quanto colpevole, dal punto di vista della responsabilità personale.

Dipende. Prendiamo il caso Stevanin, privo di mezzo lobo frontale a causa di un incidente. Stevanin strangolava le sue vittime, durante incontri di sesso estremo. Qualcuno potrebbe dire: “la sua lesione gli provoca l’incapacità di fermarsi”. E’ un ragionamento logico, ma non è questa la dimostrazione. La domanda da porsi a monte è: “se lui vuole, può fermarsi quando vuole?”. I periti hanno risposto affermativamente, perché questi giochetti li faceva anche con la sua fidanzata e se voleva si fermava. Tant’è vero che non l’ha uccisa. Quindi che questo soggetto avesse o non avesse il cervello danneggiato nel lobo frontale, rispetto al crimine commesso è un fatto secondario. La questione del cervello è più che altro legata alla simulazione della malattia mentale. Prendiamo il caso di Breivik, il colpevole della strage di Oslo. Un gruppo di periti sostiene che non è imputabile perché schizofrenico, un altro gruppo invece che è imputabile perché non ha nulla. Breivik stesso non vuole essere considerato malato di mente. Si trova, eventualmente, nella condizione in cui nasconde, dissimula una sua psicopatologia. Nella condizione processuale il soggetto tende sempre a trasformare un po’ la sua psicopatologia, nella direzione che gli conviene. Breivik nella direzione di negarla, qualcun altro nella direzione di farla emergere. Studiare il cervello ci può aiutare a sapere se una psicopatologia è reale oppure no. Esistono tecniche, come la “voxel based morphometry” (VBM, una tecnica di neurorimaging che misura variazioni molto fini), che ci consentono di capire se Breivik ha un cervello schizofrenico, oppure no. In questo senso le neuroscienze aiutano.

In pratica, di un soggetto accusato di un crimine, va valutato tutto il percorso di vita, non soltanto gli aspetti neuropsicologici di quel determinato momento.

Il criterio per decidere se la sua azione è stata libera e volontaria, quindi responsabile, oppure se la sua azione è avvenuta al di fuori della sua volontà, quindi non è responsabile, non è un criterio di tipo neurologico, ma bensì di tipo cognitivo.  Prendiamo il caso di un paziente con ballismo, una patologia neurologica che provoca movimenti improvvisi e incontrollabili. Se un paziente del genere impugnando un coltello uccide per errore la moglie, è responsabile del suo movimento che ha determinato la morte? La risposta è no. Perché non è lui che l’ha voluto, ma è la malattia che si è sostituita alla sua volontà nel determinare il movimento. Facciamo un ragionamento per assurdo: immaginiamo che a causa del singhiozzo si possa uccidere. Una persona che ha il singhiozzo e a causa di esso uccide, è responsabile? La risposta è no. Perché, quella persona se anche avesse voluto non avrebbe potuto non singhiozzare. Il criterio della “mental insanity” è unicamente cognitivo, rispetto alla responsabilità.

E se quella persona ha una sindrome premestruale?

Qui entriamo nella zone grigie, perché sono esempi “né carne né pesce”. Quando i giuristi discutono lo fanno usando sempre degli esempi estremi, come quelli che ho appena fatto.

Ne Il delitto del cervello c’è un intero capitolo dedicato al caso dello psicopatico. E si cita l’assunto di quel giurista americano secondo cui, pur riconoscendo la psicopatologia del soggetto che ha commesso un crimine e ritenendo che ciò non costituisca attenuante, lo condanna in quanto “è necessario che la legge mantenga le sue promesse”. Ora se da una parte le neuroscienze sostengono che noi siamo il nostro cervello e i processi cognitivi sono un prodotto del cervello, come faccio a distinguere se ciò che commetto è frutto della “cognizione” oppure di una “disfunzione” del cervello? Non è la stessa cosa?

No, non lo è. Il criterio in base al quale lo decido è fenomenologico, riguarda i sintomi, non il cervello.

Mi sta dicendo che c’è un momento in cui il soggetto può decidere se compiere una certa azione oppure no. Il famoso libero arbitrio: pur alterato da qualcosa, mi rendo conto che sto per fare qualcosa di male, e decido di farlo comunque.

Esattamente. E questo è un criterio di tipo cognitivo, non neurologico. Lo psicopatico è perfettamente consapevole del fatto che sta facendo qualcosa di male. E lo fa comunque.

In base ai suoi studi, alle sue riflessioni e al confronto con i colleghi, come definirebbe oggi il libero arbitrio?

In realtà più che i filosofi e gli scienziati, sono i giuristi che in centinaia d’anni hanno seghettato minuziosamente il libero arbitrio. Perché i giuristi introduco delle sfumature particolari, ad esempio su concetto di “dolo eventuale”. Il dolo eventuale è un reato per cui, facendo un esempio, una persona passa con il rosso ed uccide un’altra persona. Cosa significa? La persona che non ha rispettato il rosso non voleva in realtà uccidere. Non aveva l’intenzione di uccidere, però passando col rosso la persona sa che si espone ad un rischio e decide liberamente di assumersi il rischio. Questa è una sfumatura ulteriore del libero arbitrio. Questo per dire che il libero arbitrio lo hanno analizzato molto meglio i giuristi che gli scienziati. Perché è una approssimazione progressiva di un sistema giudiziario che da centinaia d’anni, quotidianamente, si trova ad affrontare tutte le cose possibili ed immaginabili dell’agire umano. Di tutti i tipi di reato che rendono conto di un aspetto che prima non era previsto, e così via.

Tornando al semaforo rosso, si potrebbe fare l’esempio della nave da crociera che va a sbattere contro lo scoglio per una bravata: so di rischiare, ma lo faccio comunque. A rischio dei passeggeri , del mezzo e dell’ambiente.

Certo, e qui è ancora più grave. Perché se passo col semaforo rosso so che metto repentaglio, al massimo, la vita di tre o quattro persone, nel caso della nave so che rischio la vita di centinaia di persone.

Nel corso del convegno vengo anche discusse le tanto citate ricerche di Benjamin Libet, sull’attività cerebrale che anticiperebbe la volontà di agire. Vi sono state molte valutazioni di tali ricerche, e soprattutto delle conclusioni tratte: lei cosa ne pensa?

Ho lavorato con dei colleghi sulle questioni sollevate dalle ricerche di Libet, il quale dimostra che la nostra azione attiva e consapevole viene preceduta da una attività cerebrale che esiste e ci predispone all’atto prima che ne diveniamo consapevoli. E’ certamente un dato di partenza molto interessante. Nel nostro campo, riguarda un gamma di comportamenti delittuosi molto limitata: il cosiddetto “reato d’impeto”. L’agire d’impulso. Certamente non riguarda comportamenti pianificati come decidere dove andare in vacanza la prossima estate. Riguarda azioni elementari, ma dal punto di vista processuale conta anche quello. Perché c’è tutta una gamma di reati, chiamati “reazioni a corto circuito”, per cui ad esempio la moglie dice al marito che l’amante è più bravo di lui, e questo non capisce più nulla e l’uccide.

Oppure le aggressioni urbane per futili motivi: l’urtarsi sul mezzo pubblico, la lite per strada, il parcheggio.

Precisamente. Sono tutte situazioni in cui il colpevole del crimine poi dice: “mi sono trovato col coltello in mano e non so perché”.

Com’è dunque il rapporto tra neuroscienziati e giuristi?

Ci sono due filoni. C’è un filone estremista che dice: le neuroscienze stanno dimostrando che il libero arbitrio non esiste, quindi bisogna ripensare l’intero sistema della responsabilità e della punizione. C’è invece una corrente più cauta, a cui penso di appartenere, secondo cui le neuroscienze contribuiscono ad introdurre un po’ più di oggettività in un mondo in cui le tecniche argomentative, e non oggettive, la facevano da padrone. Perché più che neuroscienze o non neuroscienze, nel campo giudiziario c’è la differenza tra “evidence based” e “non evidence based”. Prenda il caso di Garlasco. Cosa dice il Pm? Dice qualcosa di intuitivo: “Stasi mente perché sostiene di essere andato dall’ingresso alla defunta immediatamente. Ma siccome lì c’erano delle chiazze di sangue e le sue scarpe non sono sporche di sangue, racconta balle”. Questa è una intuizione che si basa sull’assunto che uno cammini in linea retta. I periti hanno fatto un vero e proprio esperimento in cui hanno chiesto a trenta persone di compiere un certo tragitto su un piano macchiato. Ebbene: le persone non pestavano le macchie, stanno attente a non pestare le macchie di sangue. Ecco che la ricerca empirica ci dice qualcosa di diverso rispetto alla nostra intuizione, che è fallace. Questo è un bell’esempio di scienza nel processo. Dunque le neuroscienze contribuiscono a spostare l’asse dalla cultura filosofica-argomentativa alla cultura della verifica empirica.

Però diventa sempre più complesso condurre in porto un processo.

Certamente. Un altro bell’esempio è quello della testimonianza. Dico: “lo riconosco”. Ma la scienza dimostra che il riconoscimento è molto fallace e dipende da molti fattori.

Quindi le neuroscienze sono ben viste nei tribunali? E cosa vede nel prossimo futuro?

Sono la novità del momento e vedo un aumento esponenziale del loro contributo a livello legale e giuridico. Siamo soltanto all’inizio. Un altro esempio di applicazione è poter decidere se una persona simula oppure no la malattia mentale. Siamo all’intuizione rispetto al fatto di avere delle basi scientifiche per affermare che una persona simula o non simula la malattia mentale.

Cosa abbiamo a disposizione oggi oltre alla classica testistica di personalità?

Abbiamo anche una testistica  neuropsicologica molto accurata sull’identificazione del simulatore. Soprattutto abbiamo la logica della cosiddetta correlazione anatomo-clinica. Cioè andando a vedere il cervello di Breivik possiamo capire se ha un cervello da schizofrenico o da normale. C’è tutto un pattern di attivazione e di morfologia che coinvolge il lobo frontale piuttosto distintivo del paziente schizofrenico.

 Vuole dire che il base al neuroimaging possiamo dire se una persona è schizofrenica oppure no?

No. In base al sintomo, possiamo dire se quel cervello è congruente con quel sintomo.

Ma solo dall’immagine radiologica non possiamo dire se un cervello è schizofrenico oppure no.

Certo che no. Ma questo vale per qualsiasi sindrome neurologia. Se io vedo una lesione nell’area di Broca, non posso dire che quel soggetto è un afasico di Broca. Perché potrebbe non esserlo. Posso sostenere invece che quelli con una lesione nell’area di Broca tendono a sviluppare un quadro clinico che è simile a quella che conosciamo come afasia di Broca.

Cosa si aspetta da questo convegno?

E’ ormai arrivato alla quarta edizione e ogni volta cerchiamo di affrontare temi diversi. Quest’anno ad esempio affrontiamo anche l’argomento della psicoterapia che cambia il cervello. Perché funziona la psicoterapia quando funziona? Quando funziona i cosiddetti “responder” cambiano il cervello come lo cambiano a seguito di una farmacoterapia. Ovviamente rimane un grosso mistero come le due cose agiscano in modo più o meno simile nel cervello.

Come facciamo a stabilire se il cervello è cambiato a seguito della psicoterapia o, tanto per dire, del tempo che passa e delle circostanze di vita che si modificano?

Perché ci sono ormai modelli sperimentali appositi per verificarlo.

E le caratteristiche dei “responder” sono definibili?

Non tanto. Sono ricerche che vengono condotte su sintomatologie che vengono provocate, col metodo di “symptom provocation approach”. Patologie che possono essere provocate sono ad esempio la fobia. Se lei è fobico verso il ragno, mettendole davanti un ragno le induco una reazione fobica. Patologie che non possono essere provocate sono le allucinazioni. Non posso dire ad uno schizofrenico: “al mio via fatti venire un’allucinazione”. L’allucinazione viene per i fatti suoi. In sostanza, quello che si sa rispetto alle caratteristiche dei responder è su patologie che possono essere provocate. Quindi, disturbi ossessivo-compulsivi, fobie, reazioni ansiose.

Però, tornando alla questione della psicoterapia efficace o meno, pare che non sia tanto la tecnica quanto la figura dello psicoterapeuta a fare la differenza.

Vale a dire che è una questione relativa alla relazione, più che alla tecnica adottata. Entriamo in un ambito un po’ complesso. Riguarda la quantità di effetto placebo presente nella psicoterapia.

Quindi chi cambia il cervello andando dallo sciamano o in pellegrinaggio in un luogo sacro, anziché dallo psicoterapeuta?

Beh certo, il cambiamento non è mica specifico al discorso della psicoterapia. Se lei guarda le ultime ricerca nell’ambito della depressione, le ultime metanalisi dimostrano che il novanta per cento del beneficio dell’antidepressivo viene duplicato dall’effetto placebo. Per cui quanto di effetto specifico antidepressivo vi sia nel farmaco, è molto poco. Lo stessa cosa per quanto riguarda la psicoterapia.

Perché ritiene le ricerche di Dylan Jones così interessanti?

Perché utilizza le cosiddette tecniche di “mind reading” , cioè di decodificazione dello stato mentale sulla base dell’attività cerebrale. In pratica, dimmi come funziona il tuo cervello e ti dirò ciò che pensi. Si tratta di un altro filone in crescita. Vi sono tecniche molto sofisticate in tal senso oggi.

Ultima domanda: diceva che questo settore, le applicazioni giudiziarie delle neuroscienze, è in crescita esponenziale. Ma dove si formano gli specialisti in questo settore?

Un po’ alla volta si formeranno. Rientrano all’interno di professioni classiche come la psichiatria forense, la psicologia e la neuropsicologia forense. Ci sono poi avvocati che utilizzano queste tecniche per costruire teorie giuridiche, strategie processuali. Ma è un’altra questione. A Padova, da quest’anno, è stato introdotto il primo corso di psicologia del giudizio e della decisione alla facoltà di  giurisprudenza, a cura del professor Rino Rumiati. Vengono insegnati ai giuristi i meccanismi della mente e del cervello nell’ambito giudiziario. Un po’ alle volte le cose stanno cambiando.

* All’indirizzo www.fondazionebassetti.org è possibile seguire i lavori del convegno in diretta streaming.