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La psicoterapia è scientifica? Intervista a Maurilio Orbecchi


MaurilioOrbecchiPrima era tutto nella trascendentale anima. Poi nella più accessibile psiche. Dopo nella più vicina mente. Ora nel più determinabile cervello. Ma pure corpo. E ambiente. E naturalmente genetica. Dopo i millenari trascorsi religiosi e filosofici, la natura della nostra mente, conscia e inconscia, è stata patrimonio scientifico della psicologia e della psicoterapia per buona parte del secolo scorso. Sulla strada inizialmente tracciata dai due fondatori della psicologia dinamica e del profondo, Freud e Jung, si sono in seguito sviluppate centinaia e centinaia di indirizzi psicoterapeutici. Ortodossi ed eterodossi. Scientifici ed alternativi. Accreditati e new age. Così ad un certo punto, anche per questa eterogeneità di scuole e indirizzi, ci si è posti il problema di indagare alcune questioni fondamentali: come e perché la psicoterapia è efficace? Ancora più a monte: è realmente efficace? E se è efficace, in base a quali principi, metodi, caratteristiche di chi la pratica?

Lo sviluppo delle neuroscienze, delle tecniche di neuroimaging, di rinnovata testistica psicologica e di metanalisi della letteratura scientifica, stanno gradualmente consentendo di rispondere alle suddette domande. Anche se da più parti, anche dall’interno, ad esempio, della stessa psicoanalisi, viene lamentata una situazione di profonda crisi. Non soltanto culturale, ma proprio pratica. Lo psicoanalista Arnold Richards nel suo recente articolo dal titolo “Psicoanalisi in crisi: il pericolo dell’ideologia” (Psychoanalytic Review, 102(3), June 2015) traccia un quadro piuttosto fosco della disciplina freudiana. Rivendicandone di pari passo l’autonomia e l’originalità intellettuale, da disgiungere dai progressi delle ricerche sul cervello. Per un altro verso, proprio in questo periodo, si è potuto leggere un articolo a firma di psichiatri e psicologi, impegnati nella pratica e nella ricerca psicoterapica, su “L’influenza ambientale sul cervello, il benessere umano e la salute mentale” (Tost H, Champagne FA, Meyer-Lindenberg A, Nature Neuroscience, 2015 Oct;18(10):1421-3). In pratica, quanto un fattore modificabile come l’ambiente, sia interno che esterno, possa influire sul nostro benessere mentale. E qualcuno potrebbe aggiungere che proprio la psicoterapia, la terapia delle parole, rappresenta un fattore esterno, modificabile ed adattabile, in grado di influenzare e modificare la biochimica cerebrale. Andando ad agire su quei meccanismi di plasticità cerebrale su cui tutti ormai concordano.

Ma per quanti si vogliano aggiornare, a dispetto della nutrita letteratura internazionale, sia in forma di articoli che manuali e saggistica, non esistono molti volumi prodotti da autori italiani sulla revisione scientifica, anche critica, della psicoterapia. Chi recentemente si è lanciato in questa impresa titanica è Maurilio Orbecchi con il suo saggio Biologia dell’anima. Teoria dell’evoluzione e psicoterapia (Bollati Boringhieri). Un saggio volutamente contenuto nel numero delle pagine e dei pur numerosi rimandi bibliografici, che tuttavia, al lettore attento, appare come lo sforzo di sintesi e di chiarezza di un medico, psicologo clinico, psichiatra e psicoterapeuta, impegnato da decenni tanto nella ricerca, nella pratica terapeutica che nella didattica. Molte le domande e le riflessioni che la lettura del suo volume ci ha suscitato. Così abbiamo contattato Maurilio Orbecchi che ha accettato di farsi intervistare sui temi del suo nuovo saggio e su quanto ne consegue. Ecco il risultato dell’intervista.

Cosa rimane nell’attuale psicoterapia di Freud e di Jung? 

Alla luce degli sviluppi scientifici davvero poco. Forse di Jung può rimanere la simbologia, mentre di Freud, nel momento in cui entrano in crisi il concetto di libido, le fasi sessuali, il complesso di Edipo, la pulsione di morte, la rimozione, la sublimazione, il transfert e l’interpretazione si rompe proprio il cuore centrale del sistema. Eppure, nella pratica quotidiana, la maggior parte degli analisti che si riconoscono nei sistemi istituzionali freudiani e junghiani utilizza tuttora strumenti interpretativi e linguaggio dei rispettivi fondatori. E’ una realtà facilmente constatabile quando si scorrono i programmi di formazione delle scuole di specialità, dei seminari, o quando si leggono le loro pubblicazioni, gli scritti e anche le discussioni nei gruppi online, che sono il ritrovo della maggioranza degli operatori non particolarmente informati delle nuove conoscenze offerte della ricerca scientifica.

Sono teorie che permangono anche tra gli analisti più informati del progresso scientifico, quelli che hanno introdotto concetti nuovi e hanno portato in psicoanalisi la svolta relazionale, una svolta giunta in forte ritardo, ma comunque da me molto apprezzata, come scrivo nel libro. Non capisco come mi si possa accusare di non tenere conto che ci sono dei cambiamenti all’interno della psicoanalisi, come hanno fatto il Presidente della Spi, la società ufficiale freudiana, e un altro critico, quando invece io ho avuto sincere frasi di apprezzamento nei confronti di alcuni importanti esponenti della Psicoanalisi relazionale dei quali cui ho utilizzato ampie citazioni, in senso positivo, nel libro.

D’altra parte il rinnovamento delle scuole ortodosse è ben lungi dall’essere completo e molti psicoanalisti continuano a usare questi concetti, anche se alcuni di loro ne parlano in senso simbolico: come se volesse dire qualcosa “il complesso di Edipo simbolicamente parlando”. Trasformare un’affermazione empirica in una simbolica è tipico delle religioni. È l’operazione che per esempio fanno i teologi con il libro della Genesi per attribuirle una nuova validità, dopo che è stata dimostrata la sua irrealtà. Già questo è un artificio, perché originariamente il libro della Genesi era storico, non simbolico. Comunque se posso capire questa operazione per una religione, che senso ha per il pensiero scientifico ripetere la stessa azione? E’ come se un domani, qualora per assurdo fosse dimostrata la falsità della struttura elicoidale del DNA, noi continuassimo a parlare di struttura elicoidale in senso simbolico. Sarebbe scientificamente assurdo. I concetti psicologici come il complesso di Edipo, non possono fare eccezioni, altrimenti non si capisce più di cosa stiamo parlando.

E poi, se davvero gli psicoanalisti fossero così cambiati, per quale motivo i programmi di formazione della Società psicoanalitica continuano a insegnare concetti superati come quelli di Freud e dei suoi continuatori, mentre sono ancora chiusi alle discipline scientifiche e alla nuova teoria condivisa? Perché invece non presentano in maniera critica i concetti freudiani, dichiarandoli apertamente prescientifici e separando il loro insegnamento dai concetti scientifici? La realtà è che i loro programmi di formazione sono ancorati al Medioevo della psicologia e un analista che si diploma con quei programmi esce del tutto impreparato.

I postfreudiani più informati hanno comunque svolto un lavoro di rinnovamento maggiore degli junghiani. Questi, a parte alcuni studiosi come l’inglese Anthony Stevens, che peraltro presenta un’interpretazione un po’ forzata e davvero troppo benevola delle teorie junghiane, sono ancorati a teorie superate, poco coerenti con la scienza.

Gli junghiani sono persi nel loro mondo New Age con gli archetipi e la teoria della sincronicità, tanto utilizzata dagli scrittori best seller del realismo magico, come Paulo Coelho, per vendere libri di facile successo.

Chiamare la scienza col termine dispregiativo “oggettivante”, invece che oggettiva, come fanno Jung e i tanti post-junghiani come Hillman, è stucchevole, così come introdurre in psicologia categorie ipotetiche fuori luogo, come la spiritualità e l’anima, non necessarie per comprendere la complessità biologica e psicologica, nonché l’interiorità e l’affettività dell’essere umano.

Jung fondava la sua teoria della sincronicità sui lavori di un ricercatore americano, Joseph Banks Rhine, che pretendeva di aver accertato l’esistenza di esperienze parapsicologiche attraverso carte con cinque simboli elementari (cerchio, croce, quadrato, onde, stella). Jung non aveva capito che questi lavori erano perlomeno falsati da aspettative che interferivano coi risultati. Del resto vennero smascherati solo dopo la sua morte. Oggi i post-junghiani avrebbero la possibilità di accedere direttamente tramite internet a tutte le confutazioni scientifiche invece di continuare a dare per accertate esperienze parapsicologiche che non esistono. Per di più tutto il lavoro junghiano e post-junghiano di fondare la teoria della sincronicità sulla teoria dei quanti è pseudoscienza allo stato puro, anche quando fatta da un premio Nobel depresso e alcolista qual’era il famoso fisico quantistico Wolfgang Pauli, una persona quanto mai fragile e in condizioni di dipendenza psichica nei confronti di Jung.  Il microcosmo quantistico non funziona con le stesse leggi del macrocosmo, anche se lo si sostiene strumentalizzando un famoso fisico che è però un proprio paziente in un tentativo, per nulla professionale e certo poco elegante, di dare sostegno alle proprie idee metafisiche. In attesa di una “teoria del tutto” che unifichi questi due mondi, la pretesa di portare l’entanglement, ossia il legame tra due particelle che si muovono in sincronia dal microcosmo nucleare al mesocosmo, ossia il mondo complesso in cui viviamo, non ha semplicemente senso.

A grandi linee si potrebbe riassumere la differenza tra freudiani e junghiani ortodossi definendo le credenze degli uni pseudoscientiche, e quelle degli altri prevalentemente prescientifiche. I primi elaborano un sistema che vorrebbe essere oggettivo, mentre è fondato soltanto su intuizioni personali valide nel loro  sistema autoreferenziale che non si interseca con il mondo scientifico. I secondi invece mescolano il mondo oggettivo con un presunto mondo spirituale come gli alchimisti nel medioevo.

In entrambi i casi è il desiderio di una certezza ideologica di tipo religioso che impedisce loro di aggiornarsi e quindi di superare teorie morte che continuano a creare danni.

Cosa deve fare la psicoterapia per ritenersi scientifica?

Lo statuto di scientificità è applicabile nel momento in cui la comunità scientifica, nel suo insieme, è concorde al proposito. Si potrà perciò formare – e di fatto si sta formando – una visione teorica condivisa e unificata, su determinati temi, grazie alla conoscenza e alla coerenza con le discipline scientifiche vicine alla psicoterapia. Le più importanti sono: 1) le neuroscienze cognitive e affettive; 2) la biologia evoluzionistica; 3) la psicologia animale (in particolare la primatologia), e 4) la psicologia sperimentale. Faccio un esempio: se la psicologia animale e la psicologia sperimentale sono concordi nel dimostrare che gli stress infantili ripetuti sono traumatizzanti e dalle neuroscienze emergono rimodellanti di zone cerebrali e vie neurali per chi ha subito traumi il concetto è scientifico, mentre il complesso di Edipo poiché non trova alcun riscontro fuori del mondo delle credenze autoreferenziali freudiane, non lo è.

Lo statuto di scientificità non ha oggi più ragione di essere messo in discussione per la teoria dell’attaccamento, le carenze affettive, i maltrattamenti, i traumi infantili cumulativi, la dissociazione. Per questo motivo la guerra che ha attraversato la psicologia del profondo a cavallo del Novecento tra Pierre Janet, lo psichiatra francese che sosteneva traumi e dissociazione come origine e manifestazione delle nevrosi, e Sigmund Freud, con il complesso di Edipo e il concetto di rimozione, ha visto la netta vittoria postuma dell’illuminista francese contro il romantico viennese.

Il fatto che le discipline che ho citato non si insegnino nelle scuole private di specialità di psicoterapia dà l’idea della mancanza di preparazione con cui oggi si giunge alla possibilità di praticare la professione. Le scuole private di psicoterapia si sono rivelate scuole “di partito” ideologico e andrebbero chiuse, per riservare l’insegnamento della psicoterapia alle Università. Anche altre discipline, oltre a quelle nominate, sono fondamentali per la preparazione teorica di uno psicoterapeuta. Ce ne sono parecchie, ma mi limito a citare: biologia molecolare, genetica del comportamento, antropologia evoluzionistica, ecologia del comportamento umano, antropologia evoluzionistica, ma anche teoria della conoscenza e logica.

Occorre però essere consapevoli che la psicoterapia non potrà mai essere interamente scientifica, perché ha margini di intervento troppo ampi che dipendono dalla consapevolezza, dalla cultura, dall’empatia, dalla personalità del terapeuta. Già la medicina risente della parte umana e professionale del medico tanto che si parla di arte della medicina, figuriamoci la psicoterapia che è una disciplina maggiormente aleatoria.

La stessa base teorica della psicoterapia sarà pertanto sempre un’integrazione tra ciò che apprendiamo dalle neuroscienze, dalla teoria dell’evoluzione, dalla psicologia sperimentale e dalle altre discipline correlate con alcune parti che derivano dallo sviluppo della nostra cultura umanistica e altre  che risalgono alla personalità e in generale all’equilibrio di un autore. Sarà sempre più necessario avere chiara la differenza tra le une e le altre.

Qual è a suo parere la forma di psicoterapia maggiormente efficace sul piano clinico e in base alle attuali conoscenze neuroscientifiche?

Mi verrebbe da rispondere che la psicoterapia che funziona meglio è una psicoterapia che sia umana e non fanatica. Una psicoterapia, in altre parole, che non segue in maniera pedestre gli insegnamenti teorici di una scuola, ma che trova il suo fondamento nell’autenticità relazionale e affettiva che deriva dalla maturazione personale e dalla capacità culturale ed empatica, oltre che da una profonda esperienza del terapeuta.

Tutto questo però non basta: se l’analista non ha una base teorica fondata sulla scienza e non conosce i risultati delle ricerche scientifiche va inevitabilmente fuori strada trascinando con sé il paziente. Solo le ricerche scientifiche ci dicono quali sono i fattori traumatizzanti, e quali invece sono le convinzioni errate del terapeuta

Per questo motivo rimango sempre allibito quanto leggo psicoanalisti e “psicanalisti” (il termine con cui si definiscono i lacaniani) che parlano del fattore umano come di un loro campo specifico, contrapposto a coloro che conoscono la scienza che non si sa bene per quale motivo  non sarebbero umani. Questa è una pura razionalizzazione a copertura della loro pigrizia e ignoranza scientifica. Per quale motivo chi conosce la scienza non dovrebbe agire con umanità? Se mai è proprio la scienza che ci fa diventare umani facendoci conoscere i fattori che rendono fragile l’uomo. E’ la scienza che ci ha riportato sulla strada delle carenze affettive e dei maltrattamenti, dopo che Freud ci aveva fatto andare fuori strada per quasi un secolo con le sue fantasie incestuose.

Per questo motivo la psicoterapia migliore è quella che sa coniugare lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e di conseguenti aspetti teorici condivisi, come la teoria dell’attaccamento, con alcuni insegnamenti che derivano dalle scuole filosofiche greche, a partire dalla capacità di perseguire uno scopo nella vita che porti felicità a se stessi e agli altri, attraverso la creatività espressa in quella che Platone chiamava “una vita buona”, una vita proporzionata tra pensiero e sentimento, tra sé e gli altri, tra piacere e dovere. La felicità (Eu-demonia) per i greci, non va infatti identificata col piacere edonistico (Hedonia) che ne è solo una parte, come la domenica è solo uno dei sette giorni della settimana.

Per superare i propri problemi, in psicoterapia occorrono anche quelli che Pierre Hadot, il maggior studioso delle scuole filosofiche dell’antica Grecia, chiamava “esercizi spirituali” esercizi che si praticavano nelle scuole filosofiche secoli prima che in quelle cristiane.

Gli esercizi erano la bestia nera per i freudiani, che accusavano chi li praticava di prescrittività, pedagogia e di non fare vera analisi. Ma qualunque psicoterapia, compresa la psicoanalisi, in modo consapevole o meno, impone una lunga serie di pratiche a partire dalla capacità di mantenere la ritualità delle sedute, alla confessione, già praticata nelle scuole greche e poi fatta propria dal cristianesimo, allo sviluppo della distanza riflessiva con cui guardare a se stessi, alla capacità di accettare una posizione di relativa inferiorità nella diade analitica. E’ una pratica che contribuisce a un accudimento che non è una semplice regressione, come pensava Freud, ma un potente strumento terapeutico. Già Pierre Janet nella sua Analisi psicologica, che Freud ha imitato sotto tanti aspetti, a partire dal nome semplicemente capovolto per denominare la sua Psicoanalisi, si avvaleva consapevolmente e laicamente di esercizi e questo molti decenni prima che apparissero sulla scena gli psicologi cognitivo-comportamentali.

D’altra parte gli esercizi, in quanto non verbali, si rivolgono a un livello procedurale dell’individuo, per cui sono in realtà più profondi della classica “interpretazione” freudiana che non è affatto “profonda”, ma un semplice intervento cognitivo che trasmette informazioni (o credenze) con lo scopo di correggere altre precedenti credenze. Anche qui appare, come spesso nella storia, quella che lo psicologo e fisiologo tedesco Wilhelm Wund in opposizione a Karl Marx, chiamava “Eterogenesi dei fini”. Marx affermava che l’uomo, a differenza delle api che costruiscono un alveare preprogrammato, è in grado di progettare e pianificare con precisione il futuro degli eventi: in realtà, quando si persegue una finalità, è molto improbabile che questa si realizzi come immaginata. Se già con la costruzione di una casa in corso d’opera sono necessarie numerose varianti, in situazioni più complesse come un piano economico o politico, si può giungere addirittura all’opposto di quanto previsto inizialmente: per questo motivo Freud, volendo portare alla luce l’inconscio tramite un procedimento cognitivo, faceva una terapia più cognitiva della più superficiale delle cosiddette psicoterapie cognitive comportamentali. E tutto ciò senza minimamente accorgersene.

Qual è il contributo delle neuroscienze alla psicoterapia?

Le neuroscienze sono fondamentali. E’ stata la rivoluzione neuroscientifica, cominciata con  l’introduzione della Risonanza e della Tac, che ci ha consentito di studiare il cervello in vivo e di cominciare a capire come funziona davvero. Oggi abbiamo prove inconfutabili che la mente non è un’entità immateriale indipendente dal cervello e quindi dobbiamo considerare come sensazioni non soltanto concetti antichissimi come quelli di anima, spirito e Io, ma anche altri più recenti, come psiche e Sé. È il cervello a produrre la mente (a cui noi attribuiamo svariati nomi), così come il midollo produce le cellule sanguigne o il fegato la bile. C’è pero una fondamentale differenza con questi sistemi: la mente non è un prodotto passivo come la bile o l’urina, ma ha una formidabile capacità di azione e retroazione sul cervello e lo modifica costantemente e  fisicamente, creando nuove connessioni neurali. In altre parole potremmo dire che senza il cervello non avremmo la mente, anche senza la mente non avremmo il cervello così come lo conosciamo. Il sistema va però visto non soltanto come unità mente/cervello, ma come un sistema aperto che esiste soltanto grazie alla pressione dell’ambiente e del corpo. Il sistema mente/cervello è infatti relazionale: immaginarlo senza ambiente e senza corpo è un’astrazione. Non va neppure immaginato come statico, perché è dinamico come un flusso continuo.

Le neuroscienze sono il nostro básanos, la pietra citata da Socrate che veniva usata per capire se un metallo giallo era davvero oro oppure un falso. Il supposto oro era strisciato contro il básanos, sul quale doveva lasciare una particolare colorazione, altrimenti si trattava di un falso. Noi possiamo elaborare tutte le teorie interpretative della mente che vogliamo, ma se poi queste non risultano compatibili con gli studi neuroscientifici, dobbiamo avere la forza e il coraggio di separarcene. Le neuroscienze, per esempio, ci hanno dimostrato che l’organo cervello/mente ha una tipica struttura associativa/dissociativa. È quindi un risultato che ha validato la teoria della dissociazione e non quella della rimozione. Dalle neuroscienze (e dalla psicologia animale insieme a quella sperimentale) sappiamo che i traumi creano psicopatologia fin dai primi momenti di vita, perché disgregano le normali vie neurali come l’asse ipotalamo-ipofisario, o riducono i lobi prefrontali, o strutture limbiche importanti come l’ippocampo e l’amigdala. Per questo motivo se un cucciolo di mammifero (quale noi siamo), viene maltrattato, soffre di carenze affettive nei primi periodi di vita e rimane disturbato per tutta la vita. Aveva quindi ragione John Bowlby a considerare gli eventi reali come patogeni, così come descritto dalla teoria dell’attaccamento, piuttosto che Freud con il complesso mentale di Edipo o la Klein con il suo mondo fantasmatico. Le fantasie incestuose, il complesso di Edipo, le rimozioni, le sublimazioni, il mondo fantasmatico visto come patogeno sono ipotesi del tutto non necessarie alla scienza per spiegare problemi psicologici come infelicità, depressioni, disturbi del comportamento e di personalità, per non dire le psicosi.

Su questi temi si sono formati anche gruppi di ricerca legati alla psicoanalisi, come la Società di neuropsicoanalisi che sono originariamente nati per verificare l’attendibilità scientifica delle idee di Freud. Possiamo dire senza tema di smentita che i risultati sono tali che se Jaak Panksepp, che è il presidente di questa società, può essere considerato un freudiano, anch’io allora mi considero un freudiano. E’ sufficiente leggere l’ultimo libro di Panksepp Archeologia della mente per verificare che cosa rimane della psicoanalisi freudiana dopo lo sviluppo delle neuroscienze. Sono le neuroscienze a demolire tutta la metapsicologia freudiana che ormai va considerata una vera e propria mitologia. Ed è lo stesso presidente della Società di neuropsicoanalisi, un grande neuroscienziato, a constatarlo.

C’è ancora bisogno di psicoterapia, oppure siamo giunti al punto preconizzato dallo stesso Freud (“la psicoterapia sarà superata dai progressi nelle conoscenze del cervello e in farmacologia”)? 

In realtà ciò che temeva Freud, con il progresso delle ricerche scientifiche, non era tanto la scomparsa della psicoterapia, quanto una possibile smentita delle sue ipotesi teoriche, con il conseguente crollo della psicoanalisi. Lo scriveva chiaramente nel 1920, in Al di là del principio del piacere. Essere consapevole che l’ultima parola ce l’hanno la biologia e quelle che oggi chiamiamo neuroscienze è certo la parte migliore di Freud, una parte che deriva dalla sua formazione come neurologo.

Oggi quanto paventato da Freud si è avverato. Gli stessi psicoanalisti più informati non utilizzano più la teoria e la pratica psicoanalitica ortodossa. E la psicoanalisi odierna più avanzata è molto cambiata rispetto alla pratica freudiana, diventando sostanzialmente janetiana, con l’accento su quello che lo psichiatra francese chiamava rapport e che oggi si chiama relazione terapeutica. Non a caso gli stessi psicoanalisti ortodossi accusano gli psicoanalisti relazionali di non effettuare vera psicoanalisi. In sostanza, possiamo dire che Freud è un vincente che col passare del tempo ha perso, mentre Pierre Janet un perdente che alla lunga ha vinto. Peccato per lui e soprattutto per la nostra cultura che il suo trionfo sia postumo. Ma c’è ancora bisogno di psicoterapia e ce ne sarà sempre bisogno perché il sistema corpo/mente/cervello può vivere soltanto in relazione con un ambiente che a volte può essere davvero traumatizzante.

Da quanto lei descrive e documenta sembra che molti psicoterapeuti, fino ad oggi, si siano creati un “mondo fantastico” di teorie sulle quali hanno impostato il loro intervento. E’ così? E se è così, quali sono a suo parere gli errori, per non parlare dei danni, che certe impostazioni possono produrre?

Naturalmente non sono il solo a pensarla così. La storia è andata in questo modo per molti motivi. Uno dei più importanti è che i sistemi freudiani e junghiani (come anche il cosiddetto socialismo “scientifico“) sono nati in un periodo storico ancora troppo vicino alla caduta della religione come sistema dominante. Le persone erano abituate a un corpus di verità rivelate e le grandi ideologie dell’Ottocento hanno ricostruito, su tematiche differenti, i modelli che avevano dominato per millenni. A una mitologia ultramondana se ne è sostituita una terrena, elaborata da una singola persona con la stessa logica di un Mosé che scriveva una Torah a cui si sarebbe dovuto guardare nei secoli futuri come alla parola di Dio. Ha molto contribuito a questa vittoria il fattore economico derivante dal fatto che la psicoanalisi sostituiva la formazione cristiana seminariale con il training psicoanalitico, vendendo la licenza d’uso del marchio e consentendo buoni guadagni. Già altri hanno rilevato che il vero colpo di genio di Freud è stata la privatizzazione del marchio.

Nello sviluppo culturale accade come in quello psicologico: se una popolazione ha una storia, nei cambiamenti successivi questa storia tenderà a ripetersi, riaggiornata alla nuova situazione, per una sorta di ancoraggio. Ad esempio, dopo la rivoluzione russa, il segretario del partito comunista russo è diventato un nuovo zar, e quello cinese un nuovo imperatore. Non è sufficiente una rivoluzione culturale o politica per liberarsi da modelli operativi individuali e collettivi che si sono formati nel lungo tempo. Si tratta di un compito di estrema difficoltà e non bastano neppure due o tre generazioni, come immaginava davvero troppo ottimisticamente John Bowlby. L’evoluzione psicologica, culturale e scientifica è complessa e richiede molto tempo, insieme a una forte crescita culturale complessiva della popolazione. Oggi, con le scoperte scientifiche e l’accesso alla scienza reso più fruibile tramite i computer, siamo complessivamente un pochino più smaliziati degli uomini del Novecento. Ma i vecchi modelli non sono davvero superati, per cui altre ideologie potrebbero nuovamente prevalere.

Quali sono stati i passaggi, le riflessioni e le esigenze che l’hanno portata a scrivere un saggio come Biologia dell’anima?

Uno dei fattori che ha contato maggiormente è stata la saturazione culturale della visione freudiana, fatta propria ed esibita ormai anche dalle starlet. Un giorno sentii un’attrice che ripeteva la solita litania della sublimazione condita in salsa marxista, ossia che “il capitale” non vuole la libertà sessuale perché se la libertà sessuale fosse completa noi non compreremmo più nulla in quanto non avremmo più bisogno di “sublimare” le nostre insoddisfazioni sessuali. Perfino l’intervistatrice, che evidentemente era donna di buon senso, osservò che non potevamo passare tutto il giorno a fare sesso.

Le persone parlano in questo modo anche perché sono in analisi con terapeuti che le indottrinano. Sentiamo ripetere ogni giorno dalla maggioranza degli psicoanalisti, oltre che dai nostri più fini intellettuali, frasi che contengono “complesso di Edipo”, “lotta tra Eros e  Thánatos”, “sublimazione”, come se queste nozioni corrispondessero davvero a una conoscenza acquisita, un dato di fatto, invece che a una mitologia, aria fritta.

Tuttavia non mi interessava scrivere un libro antifreudiano, ce ne sono già molti. Nella mia intenzione era fondamentale non tanto una critica scientifica delle idee freudiane (e junghiane), ma contribuire a cambiare il pensiero dominante creando un nuovo linguaggio più adeguato alle conoscenze attuali. Per questo motivo ho messo in contrapposizione vecchie categorie interpretative con le conoscenze derivate dallo sviluppo delle ricerche scientifiche. Sono alternative quanto mai attuali e devono essere conosciute dai terapeuti e dal mondo intellettuale, perché sostituiscono completamente il vecchio quadro teorico. È necessario oggi cessare di interpretare i comportamenti dei nostri pazienti con concetti e idee che si sono sviluppate in un passato ormai superato, ma farlo con teorie che abbiano attualità e credibilità scientifica. Per questo motivo il mio libro è molto più construens che destruens: per esempio la mia critica su base evoluzionistica della sublimazione freudiana come processo base per la costruzione della civiltà può apparire devastante, ma è soltanto perché l’alternativa motivante della ricerca di status appare, nelle mie pagine, con tutta evidenza dalla teoria dell’evoluzione.

Lei ipotizza che il giorno in cui vi saranno colonie di robot sufficientemente complesse, forse emergeranno anche forme di coscienza. A quel punto, saranno necessarie anche psicoterapie per i robot? Riprogrammazioni dei loro software (lo vediamo in certi film, racconti e romanzi di fantascienza)? Oppure basterà disattivarli senza remore morali?

C’è un ampio dibattito in filosofia della mente su questi temi. Probabilmente ha ragione Dan Dennett: immaginare che emergano forme di coscienza qualora si riuscisse davvero a costruire un androide come noi, è una naturale conseguenza della teoria dell’evoluzione.

Pensiamo a Blade Runner. Si tratta di un film fantascientifico che possiamo definire filosofico perché apre una serie di interrogativi sulla coscienza e sulla vita. Nel film, gli uomini sono arrivati a costruire delle copie di loro stessi, chiamati Replicanti. Sono uguali in tutto e per tutto agli altri umani, hanno muscoli, sangue, nervi, cervello, coscienza, emozioni, affetti, memoria, cognizione. Differiscono dagli umani soltanto perché sono stati costruiti da loro in poco tempo, invece che dalla natura in miliardi di anni. Gli umani, poi, hanno una vita alle spalle, mentre per i replicanti viene costruita la memoria di un passato mai vissuto. Un replicante trentenne, per esempio, ricorda esperienze infantili e una vita lunga trent’anni, anche se è stato creato soltanto pochi minuti prima. La durata della loro vita è fissata dagli umani in cinque anni. Alcuni di essi, scoperta la loro origine e il loro destino, si ribellano alla morte programmata, cercando di acquisire più anni di vita. Per questo motivo il cacciatore di replicanti Rick Deckard, interpretato da Harrison Ford, viene incaricato di ucciderli, cosa che fa senza alcuna remora morale.

Ora, domandiamoci: perché gli umani, in questo futuro distopico già immaginato dalla fantasia di Philip K. Dick nel suo libro Il cacciatore di androidi, uccidono esseri uguali a loro, esseri dotati di sangue nervi, pensieri, affetti, ed emozioni senza inibizioni morali? Eppure se noi siamo in grado di costruire la vita, (e siamo vicini a costruire forme iniziali di vita), il risultato non è forse vita a tutti gli effetti? Per questo motivo è possibile affermare che se mai esisterà un androide con il nostro corpo, un androide intelligente, emotivo, sociale e affettivo come noi, anche se costruito da noi in poco tempo e non dall’evoluzione in quattro miliardi di anni, questi avrà sofferenze come noi e, per rispondere alla sua domanda, avrà certamente bisogno anch’egli di terapie, tra cui la psicoterapia. E ciò sarebbe valido anche per un essere senziente, emotivo e affettivo costruito col silicio, invece che col carbonio.

Pensiamo alla nostra linea evolutiva, quella che ha prodotto la coscienza. Darwin aveva già capito a metà Ottocento che la coscienza non andava interpretata come un tutt’uno e che parti meno complesse di coscienza erano presenti anche negli altri animali. Oggi i neuroscienziati hanno provato che aveva ragione mediante la scomposizione della coscienza che  emerge dalle loro ricerche. Se guardiamo a specie meno complesse di Homo sapiens come i cani, è indubbio che possiedono forme di coscienza, che troviamo in misura sempre più ridotta man mano che nelle diverse specie la complessità cerebrale diminuisce. Homo sapiens ha infatti la coscienza che gli è permessa da un milione di miliardi di connessioni, i cani hanno quella di un animale con mille miliardi di connessioni e i criceti quella da un miliardo.

Se la coscienza è emersa dal basso attraverso lo sviluppo di una lunghissima serie, sempre più differenziata e complessa di specie, è stato proprio l’aumento di questa complessità a sviluppare dapprima le mappe neurali, quindi forme di coscienza nucleare, affettiva e poi cognitiva. Un singolo neurone è incosciente, così come lo sono neuroni con pochi collegamenti, ma quando si formano strutture complesse come le mappe neurali primordiali, emergono le prime forme primordiali di coscienza che, con il grande aumento della complessità cerebrale, in Homo sapiens diventeranno la nostra coscienza umana. È quindi proprio questo aumento della complessità cerebrale che forma la coscienza, una proprietà emergente proprio come l’acqua che nasce dal legame di idrogeno e ossigeno.

Chiedersi ulteriormente come emerga la coscienza non ha quasi senso: non ci chiediamo affatto come nasca l’acqua dall’unione di idrogeno e ossigeno. Accade così quando si legano due atomi di idrogeno a uno di ossigeno. Nessun mistero dietro l’emersione dell’acqua! Noi ci limitiamo a prenderne atto. Allo stesso modo non c’è nessun mistero dietro la coscienza, se mai tante cose da scoprire e da replicare, come siamo già riusciti a replicare la memoria, il calcolo e il riconoscimento delle forme, funzioni umane che sono parti fondamentale della coscienza, con la costruzione dei computer.

Non commettiamo però l’ingenuità di pensare che siano sufficienti i neuroni per generare la coscienza. Occorre anche un corpo composto da trilioni di altre cellule-robot, che mandano segnali ai neuroni. Come rileva giustamente Porges, ogni stato di coscienza è radicato in una regolazione con il sistema nervoso autonomo e integrato con la particolare situazione del momento dell’organismo, attraverso segnali senso-motori. Per questo motivo, fin quando i computer non saranno composti da trilioni di altri piccoli computer, semiautonomi e sensibili, come le cellule, non emergerà in loro alcuna forma di coscienza così come noi la conosciamo.

Pensa che la psicoterapia esisterà ancora in futuro? Se sì, come la immagina?

Non dobbiamo chiederci se la psicoterapia esisterà ancora, ma soltanto come nel futuro verrà esercitata, intendendo per futuro una società che vivrà in un paradigma culturale di maggiori conoscenze scientifiche e non in una regressione barbarica, un nuovo Medio Evo, sotto l’influenza di una qualche religione. È un pericolo possibile e già concretizzatosi nel passato la cui realizzazione, naturalmente, toglierebbe nuovamente la psicoterapia ai laici per ridarla ai chierici

Se la linea vincente del futuro sarà la continuità dello sviluppo scientifico, aumenteranno gli interventi biologici e fisici sul nostro cervello e si aggiungeranno quelli genetici per le malattie importanti. Ricordiamoci che uno stato della mente è uno stato del cervello e viceversa: per cui noi siamo il nostro connettoma, ossia l’insieme delle nostre connessioni. Qualsiasi cambiamento delle nostre connessioni, già oggi possibile con mezzi biologici e fisici ci cambia intimamente nel modo di ragionare, nelle emozioni, nei valori. Già oggi la stimolazione magnetica come terapia antidepressiva o antiemicranica è un fatto acquisito.  In futuro sarà sempre più possibile intervenire in maniera mirata sul cervello con farmaci, stimolazioni magnetiche e altri modi di variare le connessioni cerebrali, in una zona cerebrale o in una via neurale. Questo è naturalmente un vantaggio e quindi un bene, a condizione che non ci siano abusi. Saranno pratiche che porteranno a un’enorme diminuzione dei disturbi psicologici e delle sofferenze in generale. Sarà la prossima rivoluzione psichiatrica, dopo quella seguita alla nascita della psicofarmacologia negli anni ’50 del secolo scorso, una scoperta che ha permesso il successivo superamento dei vecchi manicomi, un superamento che non sarebbe mai avvenuto senza la scoperta degli psicofarmaci che hanno abbattuto i deliri, restituendo a nuova vita decine di migliaia di ricoverati, soltanto in Italia.

La psicoterapia affiancherà questo percorso, e si esprimerà nella sua pienezza nei casi dove il ricorso alle terapie fisiche e biologiche apparirà inopportuno.

In Biologia dell’anima ho ripreso la favola latina riportata alla luce da Heidegger in cui la Cura appare come colei che dà la forma all’uomo. Prendersi psicologicamente cura di sé è inerente all’esistenza stessa della coscienza umana. Noi ritroviamo la pratica della psicoterapia, sotto altre forme e con altri termini, in qualsiasi popolazione indigena. Le fonti ci dicono che in ogni popolazione del mondo si svolgevano forme differenti di psicoterapia. Le definizioni cambiano: cura dell’anima, pratica filosofica, meditazione, yoga, tantra, tecniche di respirazione, massaggi, gioco, canto, e perfino la stessa preghiera cristiana, tuttora ancora poco considerata dagli studiosi nella sua funzione terapeutica. Termini diversi, ma la sostanza rimane la cura di sé, la psicoterapia, che è sempre esistita da che l’uomo è uomo, è sempre esisterà.

Osserviamo però una differenza: mentre anticamente ci si curava del proprio passato stando nel presente, la psicoterapia moderna si è caratterizzata per il tentativo di curare il presente guardando al passato. Mi spiego meglio: la cura dell’anima tra gli indigeni, le scuole filosofiche greche, le scuole yoga e tantra, come anche la parte psicoterapeutica presente in tutte le religioni, erano e sono tentativi di cambiare l’individuo centrandolo al presente, senza preoccuparsi di ciò che era successo nella sua storia personale. La psicoterapia moderna invece è nata e si è sviluppata con la psicodinamica, sulla base di quella che io definisco la fallacia cognitiva: l’idea che individuo stia male sempre e comunque a causa di qualche evento, reale o mentale, accaduto nel passato, recuperato il quale si guarisce. Si tratta dello sfondo teorico di base della teoria freudiana che ha invaso il Novecento fino a esprimersi in volgarizzazioni hollywoodiane come nel film di Alfred Hitchcok, “Io ti salverò”.

Quando si guarda la realtà con oggettività, (anche senza considerare la “fantasia patogena” di freudiana memoria) bisogna riconoscere che, se è vero che uno sviluppo traumatico infantile può creare disturbi, non è altrettanto vero che per curarlo sia necessario conoscere gli eventi che lo hanno prodotto. La storia passata non la si conosce praticamente mai, soprattutto i fatti i più importanti, quelli che si sono formati nei primi due anni di vita, quando i circuiti della memoria perlopiù non sono ancora funzionanti. La definisco fallacia cognitiva perché, se è naturalmente vero che la conoscenza può dare consapevolezza, non è affatto detto che essa sia il fattore di cura. Come ho ricordato in Biologia dell’anima terapia e conoscenza non sono sempre legate. Di fatto si cambia per i motivi più disparati, tra i più importanti vi è la relazione con la propria figura terapeutica, che non è detto sia sempre un professionista, perché può essere un altro incontro fondamentale nella propria vita. Questo spiega perché si cambia e si migliora anche in contesti privi di autenticità, come i culti religiosi o la psicoanalisi come originariamente concepita da Freud. Come abbiamo potuto verificare infinite volte, le guarigioni da situazioni anche gravi, come le tossicodipendenze e le anoressie, ma anche i semplici miglioramenti di una persona confusa, non giustificano affatto la validità del contesto in cui si sono prodotte.

Penso quindi che nel futuro ci sarà minore fallacia cognitiva, ossia minore ingenuità psicodinamica, pur senza mai rinunciare a costruire uno sguardo critico generale sulla qualità del proprio passato. Ricostruire il proprio passato, più volte nella vita, anche in maniera differente l’una dall’altra è, infatti, un lavoro molto formativo per l’essere umano, sempre che non sia ingenuo e fondamentalista al tempo stesso, ossia non si cerchi, con troppa foga e ingenuità, un particolare evento come spiegazione dei propri problemi di vita e non si sia troppo sicuri che l’ultima versione dei fatti corrisponde alla “verità”. La realtà è quasi sempre molto più complessa.

Sarà ancora una volta lo sviluppo di tante discipline scientifiche, come la genetica del comportamento e l’epigenetica, che porterà a un maggior sguardo critico su facili soluzioni psicodinamiche. Col passare del tempo saranno sempre più numerosi i terapeuti che accetteranno una visione complessa dei problemi psicologici, situati tra lo sviluppo ambientale e la natura biologica. E la biologia non è mai soltanto genetica, perché alla nascita il neonato, oltre ad aver avuto nove mesi di influenze epigenetiche da parte della madre e dell’ambiente, porta con sé anche influenze epigenetiche di avvenimenti accaduti ai genitori e ai nonni.

Continuerà a crescere lo sviluppo delle qualità relazionali come forma di cura. Emergeranno altre forme di psicoterapia interattiva simili all’EMDR, e si andrà sempre più verso una maggiore integrazione tra terapie fisiche e corporee. Permarrà il tentativo da parte della scuola freudiana di modellare la storia della psicologia cercando di far credere che la psicoterapia moderna è stata fondata da Freud, come per esempio scrive la Sigmund Freud University nella propria presentazione, ma forse riuscirà anche a diffondersi la consapevolezza che il freudismo nella cultura è stato un’ideologia che ha fatto deviare la ricerca psicologica per tanto tempo, portandola fuori strada da posizioni che già aveva raggiunto. Vedremo la tendenza BiologiaAnima001che prevarrà.

In ogni caso, ormai a partire dagli anni settanta del Novecento, le teorie e la prassi psicoterapeutiche si stanno muovendo, dapprima lentamente e poi a grandi passi, verso l’acquisizione di basi scientifiche e lo sviluppo di nuove terapie. Si tratta di un percorso che ci rende ottimisti.

Copyright Maurilio Orbecchi

Maurilio Orbecchi è medico-psicoterapeuta, specializzato in psicologia clinica e in psicoterapia. È stato psichiatra di ruolo nei servizi psichiatrici di Torino. Ha insegnato psicopatologia del linguaggio all’Università statale di Milano, antropologia e psicologia all’Università di Pavia e psicologia clinica all’Università dell’Insubria. Scrive sulle pagine scientifiche per il quotidiano “La Stampa” su temi di neuroscienze, psicologia ed evoluzionismo. Per Bollati Boringhieri ha curato l’edizione italiana de La psicoanalisi di Pierre Janet (2014) e scritto il libro Biologia dell’anima (2015). Esercita la sua attività a Torino e Milano.

Riferimenti biblio:

Arnold Richards, Psychoanalysis in crisis: The Danger of Ideology, Psychoanalytic Review, 102(3), June 2015.

Tost H1, Champagne FA2, Meyer-Lindenberg A1, Environmental influence in the brain, human welfare and mental health,
Nat Neurosci. 2015 Oct;18(10):1421-31. doi: 10.1038/nn.4108. Epub 2015 Sep 25.

Vedi anche:

Archeologia della mente: le emozioni che tutti ci accomunano

Archeologia della mente: intervista a Jaak Panksepp

Neuropsicoanalisi, EMDR, Mindfulness, e altre cose. Intervista a Jaak Panksepp (seconda parte)

Dynamo, il ragazzo che volle farsi mago. Motivazioni psicologiche della magia


DynamoCosa spinge una persona, fin da bambino, a intraprendere un percorso artistico? La psicoanalisi delle scelte professionali, delle attitudini, mi diceva Emilio Servadio, uno dei padri della psicoanalisi italiana, è apparentemente una delle più facili da concettualizzare in termini banali. Ma complessa se ci si spinge un po’ più a fondo nelle vite e nei percorsi delle persone. Sappiamo ad esempio che il pensiero magico è un percorso nella costruzione della nostra modalità di pensiero. Che non ci abbandona mai del tutto. Che in certi individui è maggiormente presente e operante più che in altri. Che può avere derive preoccupanti e parapataologiche, o francamente disturbate o devianti. Ma il pensiero magico, può anche essere la base creativa su cui impostare il proprio percorso e successo artistico. Lo può essere per professionisti delle arti visive. Per i registi. Gli scrittori. Per i poeti e i musicisti. E a maggior ragione per i maghi, per gli illusionisti. E a chi si rivolge il mago, l’illusionista? Non lo fa forse verso un pubblico che ha conservato dentro di sé una traccia di quel pensiero magico infantile? Di quella capacità di sorprendersi, stupirsi, emozionarsi di fronte a qualcosa di insolito? Uno psicoanalista come lo psichiatra  americano Bernard C. Meyer ha tra l’altro tentato di interpretare, con gli strumenti freudiani, la vita e le gesta del mago più famoso della storia (non il “più grande”, per i professionisti del settore): Harry Houdini, al secolo Ehrich Weisz, al quale dedicò un suo saggio biografico (Houdini. Una mente in catene) Ho visto Dynamo, al secolo Steven Frayne. L’ho visto in occasione dell’intervista che gli ha fatto Fabio Fazio negli studi Rai di via Mecenate a Milano, per la puntata di “Che tempo che fa” che andrà in onda stasera su RaiTre. Avevo letto la sua autobiografia Dynamo. Niente è impossibile, uscita l’anno passato da Vallardi. Ho visto le sue “magie impossibili” in tv e in rete. Visto anche i filmati di coloro che smontando, spiegano e dissacrano i trucchi scenici di questo mago britannico, classe 1982, originario di Bradford.

Steven è ancora oggi un giovane uomo magro, gracilino (“peso 65 chili”), affetto fin dalla nascita da una grave forma del morbo di Crohn. Cresciuto nel quartiere popolare di Delph Hill, il padre spesso in galera e lui vittima dei bulli. “Mi gettavano nei cassonetti della spazzatura, oppure in una specie di diga, e io non sapevo nuotare. Ho sempre sognato di poter camminare sulle acque, e l’ho fatto sul Tamigi..”. Steven, il ragazzo che volle farsi Dynamo, è un esempio vivente di resilienza. Questo mi interessa. Uno che avrebbe potuto diventare uno sbandato, un depresso, un soggetto da cure psicologico-psichiatriche. Invece si è riscattato grazie alla creatività, all’illusionismo, alla magia. E che la sua autobiografia, scritta poco più che trentenne, abbia come sottotitolo “niente è impossibile”, la dice lunga per uno psicologo e per uno psicoanalista. Pensando a un ragazzo che ha avuto una serie di traumi e di difficoltà, familiari, personali e di salute, non di poco conto. E’ bravo in quella che viene chiamata close-up o micromagia, con le carte, e lo si vedrà domani da Fazio. E’ spiritoso, simpatico. Coinvolgente. Viene criticato dai maghi classici perché, dicono, usa trucchi cinematografici e pubblico finto. Anche qui, come per Houdini, al contrario di come lo presenterà Fabio Fazio, non è “il più grande mago al mondo”, ma uno dei più noti. Per la grande capacità di utilizzare, oltre alla tv, i nuovi mezzi di comunicazione (Youtube e i social, soprattutto), di avvalersi un un gruppo di collaboratori, tra cui altri maghi, con i quali inventarsi continuamente nuovi trucchi e nuove performance di grande impatto mediatico. Un po’ come le botteghe degli artisti consociati di secoli addietro, dove nascevano e si sviluppavano talenti alla luce dei maestri. Che poi, nel caso della “bottega artistica di Dynamo”, siano grandi trucchi derivati anche dalla costruzione di effetti speciali, ispirati al cinema, come la sua “levitazione” sul grattacielo più alto di Londra, lo Shard London Bridge, tutto ciò comunque accresce la sua popolarità, se non la sua fama. In un’era in cui, più sei visto, più sei cliccato, e più hai successo. Vero o falso sia quanto fai.

Intervistato da Fazio, che prende la questione delle critiche ai suoi trucchi un po’ alla larga per non irritare l’ospite venerato, Dynamo risponde da uomo di spettacolo che ormai ha ampiamente superato questo genere di affronti (figurasi, l’aveva già fatto con i bulli di strada): “Il pubblico si divide in due categorie: quelli che si godono lo spettacolo e quelli che sono sempre pronti a scovare i miei trucchi. A me vanno bene anche questi: parlano comunque di me e vengono a vedere i miei spettacoli…”. Ma la magia è, anche se dichiarato e spettacolare, un grande inganno. Esiste un limite al grande inganno? Esiste un’etica dell’inganno? Una morale del trucco? Maghi del presente e del passato – come Giordano Bruno, Cagliostro, Mesmer, Rol – hanno spesso suscitato grande ammirazione, ma pure grandi invidie, critiche, dissacrazioni.

E’ il destino del grande mago: osannato da una parte, immolato dall’altra. E ci sarebbe pure da che riflettere, ragionare, sul fatto che gli illusionisti di oggi, complessivamente preferiscano chiamarsi “maghi”. Non interrompendo alla fine quella linea temporale – e non ne fanno mistero, anzi ne parlano diffusamente nelle loro storie dell’illusionismo – che li riconduce agli sciamani, maghi, alchimisti, magnetizzatori, ipnotisti, medium e sensitivi del passato. Una linea temporale che risale la notte dei tempi, che percorre tutto quel pensiero magico che fa parte della nostra natura di umani. Di ogni tempo e di ogni paese. Che ci consente ancora di provare, ogni tanto, un benefico senso della meraviglia. Se non altro. C’è una filosofia per tutto, ma ne manca una dell’illusionismo. Forse sarebbe il momento di inventarla. E casi come quello di Dynamo, invogliano a farlo. Intanto si stanno facendo strada la psicologia e le neuroscienze dell’illusionismo e della magia.
Vedi anche:

“Siamo tutti di fronte a tempi difficili”: la corrispondenza Freud-Ossipov


JapaCoverUn bell’articolo di Galina Hristeva (Lecturer in German Literature, University of Stuttgart; Research Associate, American Psychoanalytic Association) sul numero di giugno del Journal of the American Psychoanalytic Association analizza la corrispondenza tra Sigmund Freud e Nikolay Y. Ossipov, lo psicoanalista russo fuggito dal bolscevismo sovietico e rifugiatosi a Praga.

La corrispondenza Freud-Ossipov venne pubblicata per la prima volta in Germania nel 2009. Anche in questo caso Freud sorprende per la potenza creativa dei suoi scritti, per l’impegno profuso anche nello scrivere lettere non solo ai colleghi, ma a tutti gli uomini e le donne di pensiero che si accostavano alla psicoanalisi. In questa corrispondenza i temi forti sono la libertà della scienza e il ruolo dell’individuo rispetto alle masse e ai fatti storici tendenti ad annullare il ruolo e la libertà – ideativa, creativa, espressiva – del singolo.

Questa corrispondenza ha un grosso valore storico, sia per come giunse la psicoanalisi in Russia, sia per la figura di Nikolay Y. Ossipov. Prima di dedicarsi alla psicoanalisi, Ossipov studiò medicina, fu allievo e venne fortemente influenzato dalle idee sulla dignità da restituire ai malati di follia del celebre neurologo e psichiatra Sergej Sergeevič Korsakov (suo l’inquadramento clinico, da cui l’eponimo, della Sindrome di Korsakov).

“La vita di Ossipov come emigrato russo a Praga è uno dei temi centrali nella sua corrispondenza con Freud. Nonostante le difficoltà dell’esilio, Ossipov esercitò una forte influenza sullo sviluppo non solo della psicoanalisi in Russia, ma anche nella Repubblica Ceca”.A DREAM OF FREEDOM_Freud_06_13_OK

Uno dei punti cardine di Ossipov, fuggendo dall’esperienza totalitarista, è il rapporto tra l’individuo, l’ego e le masse (da qui il suo concetto di “cooperative complexity”). Tema ancora oggi fondamentale, se analizziamo quanto accade in Europa e in Occidente in generale. Ma tutta questa corrispondenza Freud-Ossipov è permeata delle caratteristiche umane profonde che ritornano, pur cambiando i tempi, i mezzi e le circostanze. La consapevolezza e saggezza tutte freudiane secondo cui le spinte profonde che muovono l’uomo sono e rimangono tali attraverso lo scorrere dei secoli. Occorre prenderne atto e far crescere la conoscenza vera, profonda, scevra da illusioni e ipocrisie, di se stessi e dei nostri simili.

“Nel punto di intersezione tra scienza, politica e l’integrità morale e personale, come rivelato nella corrispondenza, Freud incoraggia Ossipov: «Siamo tutti di fronte a tempi difficili. Bisogna essere più forti di quello che siamo»”.

Fonti

Hristeva G.,  A dream of freedom: the correspondence of sigmund freud and nikolay y. Ossipov 1921-1929,J Am Psychoanal Assoc. 2013 Jun;61(3):511-25.  

A dangerous method. Freud e Jung sbarcano a Venezia


 

Salpando verso New York, il 21 agosto 1909, Freud si rivolse a Jung dicendogli: “Non sanno che portiamo la peste”. Ora la peste, centodue anni dopo, arriva a Venezia con il film del regista dell’inconscio, il canadese David Cronenberg. Si intitola, significativamente, “A dangerous method” e sarà nelle sale dal 30 settembre.

Se ne sta già parlando molto, e avremo modo di tornaci sopra.  Il film affronta il tema della nascita della psicoanalisi, in particolare il rapporto tra Freud, l’allievo e poi rivale Jung e la paziente – successivamente laureatasi in medicina e divenuta anche lei analista – Sabina Spielrein. Un triangolo amoroso alle fondamenta della disciplina dell’inconscio.

Nello stile di Cronenberg, anche se il film è quasi interamente sviluppato sui dialoghi, emergono i lati oscuri, violenti, torbidi e perversi dell’animo umano. Anche di coloro che, tali parti oscure, dovrebbero analizzare, comprendere e curare.

Ha detto Cronenberg in un’intervista rilasciata a Fulvia Caprara de La Stampa: «La psichiatria ha naturalmente influenzato tutti i miei film, anche se, fino a questo momento, a differenza di altri registi, non l’avevo mai affrontata direttamente». Ma nel film, in realtà, non si parla di “psichiatria”, ma semmai di problemi psichiatrici affrontati dal “pericoloso metodo” della psicoanalisi.

Perché la psicoanalisi viene definita un “metodo pericoloso”? Sono molte le critiche che, dalla nascita della disciplina fino ai giorni nostri, le sono piovute addosso. Dal fatto di basarsi su osservazioni empiriche e non su dati scientifici. Al fatto che non esistessero metanalisi dei risultati ottenuti con i pazienti. Al fatto, non ultimo, che i padri fondatori, e molti seguaci, non avessero tenuto un comportamento propriamente corretto, né tantomeno morale, con i propri pazienti. In particolare le pazienti donne.

Il film, tratto dal testo teatrale The talking cure dello sceneggiatore Christoper Hampton, affronta questo delicato aspetto della psicoanalisi al suo sorgere. La cura delle parole e il giro di pazienti donne, amanti e personaggi ambigui. Freud e Jung ne parleranno, anche per corrispondenza, e ne nascerà, tra le altre, la teoria del “transfert” e “controtransfert”.

La storia si dipana, tra gli altri, a partire di due personaggi, Sabina Spielrein e Otto Gross. Furono entrambi pazienti di  Jung e successivamente, da analizzandi, intrapresero il percorso formativo e divennero  a loro volta analisti. I documenti storici (si veda ad esempio I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi dello storico Eli Zaretsky della New York University) mostrano molto chiaramente come gli esordi della psicoanalisi furono improntati all’intuizione, creatività, genialità dei fondatori (il particolare Freud e Jung), ma furono anche impregnati da un’atmosfera torbida, promiscua, sessualmente carica.

La psicoanalisi fungeva da cura per i repressi. Liberava fantasie erotiche, di cui gli stessi analisti, capitava, se ne giovassero. Molti dei primi analisti intrecciarono relazioni con le loro pazienti. Fu il caso di Jung con Sabina Spielrein, in cura con una diagnosi iniziale di schizofrenia,  e di Otto Gross, di cui nel film si vedranno le prodezze, un erotomane in cura, sempre da Jung all’ospedale psichiatrico  Burghölzli dell’Università di Zurigo, per problemi di tossicodipendenza.  C’era una strana e pericolosa commistione tra pazienti, curanti, problematiche psicologiche e sessuali, e messa in atto delle medesime.

Ferenczi, altra figura di spicco della nascente psicoanalisi, fu legato sentimentalmente a due pazienti, Gizella Pálos, che poi sposerà, e alla figlia della medesima, Elma. Scrivendo a Freud, osservò: «Mi ero trovato a pensare che non è giusto usare lo stesso divano per la professione e per le prestazioni amorose. Una persona dotata di acuto senso dell’olfatto avrebbe potuto sentire quel che era successo».

Insomma, gli psicoanalisti, e gli analisti del profondo, scoperchiano il vaso di Pandora della sessualità repressa del tempo, e ne approfittano. Commenteranno pure che le pazienti isteriche sono scatenate, al riguardo. Un metodo pericoloso, non c’è dubbio. Specialmente se utilizzato senza etica e senza freni.

Al film di Cronenberg, che andremo a vedere e commenteremo, c’è un precedente di qualche anno fa, sempre sul rapporto tra Jung e Sabina Spielrein: Prendimi l’anima di Roberto Faenza, un altro regista che ama scandagliare i recessi e i tormenti della psiche.

Aggiornamento: Ho visto il film, uscito oggi, 30 settembre, a Milano come nel resto d’Italia. Inizia con un urlo e termina con un silenzio. In mezzo un bigino della psicoanalisi e del rapporto prima solidale e infine conflittuale, fino alla rottura, tra Freud e Jung. L’elemento disturbante, a parte l’erotomane e tossicomane Otto Gross, è dato da Sabine Spielrein. Colei che scatena in Jung la passione erotica e amorosa. Tra un torbido incontro amoroso e l’altro, la sintesi degli episodi “storici” del rapporto Freud-Jung. La diatriba tra le tensioni mistico-esoteriche di Jung e la fermezza di Freud, perennemente col sigaro in bocca, nel voler mantenere la nascente psicoanalisi dentro i binari della razionalità e della scientificità.

C’è persino il famoso e leggendario episodio degli schiocchi nello studio di Freud, mentre Jung cerca di convincerlo ad occuparsi anche di telepatia e ricerca psichica (la vera denominazione di allora della attuale “parapsicologia”). Episodio che Freud liquida come effetto del riscaldamento e conseguente dilatazione del legno della libreria, deridendo Jung per la sue tensioni paranormali. Non poteva mancare l’altro episodio riportato da gran parte delle mitostorie della psicoanalisi, e citato anche qui: Freud e Jung in nave alla volta di New York, in compagnia di Ferenczi, e la storica frase di Freud sulla “peste” che starebbero portando negli Stati Uniti. E neppure manca lo svenimento di Freud, su cui è stato addirittura scritto un intero libero (S. Rosenberg, Perché Freud è svenuto).  

Ancora, un rapido, fuggevole accenno a Joseph Breuer, colui che, a detta dello stesso Freud poi antagonista, fu il suo vero maestro e ispiratore, con ricerche, lavori fondamentali sull’isteria e sull’ipnosi, nel concepire e strutturare la psicologia del profondo. E c’è una ricostruzione museale (potrà essere usata a scopo didattico) dei marchingegni per registrare i tempi di reazione nel test di associazioni libere, con tanto di cronometro e tracciato rudimentale su cilindro rotante di cuoio. Jung somministra il test alla moglie e Sabine Spielrein, già avviata allo studio della medicina e in seguito della psicoanalisi, sovrintende ai marchingegni. Interpretandone alla fine i risultati, una volta di nuovo sola con Jung.

Dal match cinematografico (Fassbender-Jung, Mortensen-Freud)  esce vincente Freud: una roccia, una guida, un maestro che non perde mai il controllo di se stesso. Fino al punto di svenire, per non adirarsi, dopo una diatriba intelletuale con Jung sulla storica questione “Akhenaton-Mosè” e il monoteismo. Soccorso a terra da Jung, Freud gli sussurra “come dev’essere dolce morire”. Oppure, per far capire il rapporto tra i due, sempre più un duello di intelligenze e sensibilità, Freud che sulla nave verso gli Stati Uniti si rifiuta diplomaticamente di ricambiare  a Jung lo scambio di racconti di sogni personali, dalla cui interpretazione potrebbe risultare scalfita la propria autorità di padre fondatore, maestro e guida della disciplina del profondo. Un Freud dunque ipercontrollato (il Super-io) e, nelle regole del cinema, un antagonista Jung (l’Es) che si abbandona alle pulsioni sotterranee (sessuali, paranormali, sciamaniche, mistiche).

Il film non mi ha convinto del tutto. Emozioni assenti. Se si esclude qualche ridicola pruderie per le scene sado-maso, a suon di cinghiate e sculacciate, tra Jung e la Spielrein. Totalmente cerebrale. Nessuna scena memorabile. Girato e fotografato sicuramente alla grande. Dialoghi ineccepibili, con qualche lieve cedimento qua e là. E qualche raro momento di umorismo, contenuto: Jung che rimpinza il suo piatto di polpettone, invitato a pranzo nella casa di Freud a Vienna. Oppure, Otto Gross con la sua fastidiosa-simpatica invadenza, le sue teorie sulla necessità di dare libero sfogo alla proprie pulsioni, in specie quelle sessuali. 

Anche se è un Cronenberg diverso e questa volta incompiuto, rimane la sua ossessione per le trasformazioni psicosomatiche, qui a partire dall’inconscio. Che nel film però, stranamente, non viene mai nominato. Questa volta più che il tocco del genio Cronenberg, c’è la sua “punzecchiatura”. Si vede la mano del regista canadese (che non ha mai girato neppure una scena negli Stati Uniti, in tutti i suoi film), il suo stile, ma stavolta troppo intellettuale, freddo, arido, didascalico. C’è passione, ma solo per la ricostruzione storica: è più simile a un docufilm, che non a un film.

Riconosco che non è semplice trarre un buon film dalle oceaniche e intricate vicende della psicoanalisi (“sarebbero state necessarie otto ore di film” disse il regista John Huston che realizzò Freud, passioni segrete). E’ sempre stato un rapporto di amore e odio tra cinema e psicoanalisi. La psicoanalisi che entra a far parte del bagaglio culturale del critico cinematografico. Gli sceneggiatori e i registi che, quando parlano di psicoanalisi dal punto di vista storico, prediligono gli aspetti perversi e torbidi. In definitiva, i migliori film “di” psicoanalisi sono quelli che ne utilizzano le tematiche, senza trattarne direttamente o totalmente (vedi Hitchcock).

Faccio una previsione (oppure do un suggerimento). Qualche sceneggiatore e qualche regista si metteranno ora al lavoro su un altro testo parapsicoanalitico: Le lacrime di Nietzsche di Irvin D.Yalom.

Gli errori di Darwin secondo Massimo Piattelli Palmarini


News: Massimo Piattelli Palmarini presenta Gli errori di Darwin mercoledì 12 maggio 2010, ore 18,  alla Libreria Feltrinelli di Piazza Duomo a Milano.

Intervista a Massimo Piattelli Palmarini sui contenuti del libro Gli errori di Darwin e le polemiche suscitate

A un secolo e mezzo dalla pubblicazione delle sue prime opere sull’evoluzione biologica, Darwin fa ancora notizia. Anzi, infiamma gli animi e scatena polemiche. L’ultima, in ordine di tempo, è motivata dall’imminente pubblicazione di Gli errori di Darwin (Feltrinelli), annunciata per il 21 aprile, dopo altrettante polemiche suscitate negli States dall’edizione originale. Il volume, che ha richiesto tre anni di lavoro, è scritto a quattro mani da due scienziati di livello internazionale.

Uno dei due autori, vanto italiano, è Massimo Piattelli Palmarini, docente di Scienze cognitive all’Università dell’Arizona, dopo una permanenza al Mit di Boston e successivamente al San Raffaele di Milano dove ha creato il dipartimento della sua disciplina. L’altro, Jerry Fodor, è anch’egli un’autorità nelle scienze cognitive, insegna filosofia del linguaggio alla Rutgers University del New Jersey. Ancor prima di uscire nel nostro Paese, il volume di Piattelli Palmarini e Fodor sta riempiendo le pagine culturali e scientifiche dei nostri giornali, con pepati botta e risposta tra scienziati che si occupano di queste tematiche.

Ho raggiunto Massimo Piattelli Palmarini a Venezia, durante una sua parentesi italiana,  per un ciclo di seminari universitari. Gli ho chiesto di spiegarci le ragioni di così tanto scalpore per aver controbattuto alcune presunte idee “errate” del darwinismo.

Professor Piattelli Palmarini, ci spiega perché queste reazioni, anche emotive, al libro che ha scritto con Jerry Fodor?

Ci sono varie spiegazioni. Una è che la selezione naturale, il darwinismo, combina le due spiegazioni centrali della nostra vita e della nostra psiche. Che sono la spiegazione di tipo meccanicistico e quella di tipo finalistico. La spiegazione di tipo meccanicistico è quella che applichiamo nella vita di tutti i giorni, nelle cose inanimate, le cose inorganiche. Le spiegazioni finalistiche le applichiamo nelle cose umane. Si spiega quanto è successo nelle vicende storiche e nelle biografie di certi personaggi ricostruendo i loro scopi, le loro intenzioni, i loro progetti. La selezione naturale mette assieme queste due forme fondamentali di spiegazione. Fornisce una spiegazione meccanicistica a qualcosa che sembrerebbe di tipo finalistico.

Non c’è dubbio che l’idea di Darwin sia geniale e abbia conquistato gli scienziati. In fondo, se si guarda all’evoluzione biologica si nota questo emergere di forme sempre più complesse nel tempo. Il “match” che si verifica tra le forme e i tratti biologici degli ambienti in cui crescono. Tutto ciò suggeriva, tradizionalmente, qualcosa di finalistico. E con l’idea della sezione naturale si spiegherebbe questa parvenza di “disegno” in modo meccanicistico. Questa è una idea molto forte che ha conquistato molti, e non intendono abbandonarla.

Questo atteggiamento non assomiglia un po’ alla resistenza degli psicoanalisti quando, ad un certo punto, dovettero confrontarsi con le neuroscienze e con la psicofarmacologia? Certi saperi rischiano di costituirsi, da un certo punto di vista, come “chiese laiche”.

In un certo senso sì. Ma è accaduto in diversi ambiti, non solo per la psicoanalisi. E’ successo, ad esempio, pure per il marxismo. Quando una dottrina è ritenuta “forte”, si coagulano attorno ad essa consensi altrettanto resistenti al cambiamento, e si costituisce una sorta di credenza indiscutibile.

C’è quindi una valenza anche filosofica della teoria dell’evoluzione che incide molto in questo dibattito.

Certo. Perché si tratta di una spiegazione meccanicistica di fenomeni che avevano l’aria di essere finalistici. Non c’è dubbio che questa sia un’idea forte.

Qual è invece l’idea forte del libro che ha scritto con Fodor?

L’idea forte è che, ovviamente, l’evoluzione è un fatto. L’appartenenza nel tempo dell’evoluzione di specie simili ad antenati comuni anche questo è un fatto. Tutte le ricerche degli ultimi anni relative a ciò che tecnicamente viene definito “evo-devo” (cioè l’evoluzione biologica vista insieme allo sviluppo dell’embrione, dall’uovo fecondato fino all’adulto), ha mostrato che i geni sono sostanzialmente gli stessi. Dal moscerino della frutta fino a noi. I geni sono sempre i medesimi. L’evoluzione è un fatto. L’appartenenza delle specie l’una all’altra nella filogenesi, è anch’essa un fatto. Quello che noi contestiamo è che la selezione naturale sia il meccanismo che spieghi la comparsa di specie nuove e di tutte le forme biologiche esistenti. Questo è ciò che noi contestiamo.

Quindi contestate e lasciate un interrogativo aperto. Voi mettete sul piatto dei dubbi, delle perplessità riguardo la possibilità di spiegazione onnicomprensiva delle teorie darwiniane.

Sì, proprio così. Non pensiamo che la teoria universale della selezione naturale debba essere sostituita da un’altra e diversa teoria onnicomprensiva. I meccanismi sono molteplici, i livelli dei cambiamenti biologici nel tempo sono molteplici e quindi si tratta di un processo complesso, articolato, eterogeneo. Siamo ben lungi dall’aver scoperto tutti i fattori in gioco. Occorreranno molte altre ricerche, probabilmente per molti decenni.

In termini un po’ ironici, giocando sui vostri rispettivi doppi cognomi, Cavalli-Sforza ha esemplificato recentemente su “Repubblica” la questione dell’evoluzione culturale e l’adattamento alle necessità ed ai gusti della specie umana. Lasciando intendere tra le righe che lei e Fodor non siete dei genetisti e quindi non avete gli strumenti concettuali  per affrontare tali tematiche.

Sì, però Cavalli-Sforza parla di linguaggio e non è un linguista. I fenomeni linguistici che egli sottolinea sono assolutamente marginali. E’ lo stesso problema: Cavalli-Sforza parla di piccole modifiche cumulative che si verificano nel tempo, all’esterno della lingua. Da parte mia sottolineo invece che da cinquant’anni, da Chomsky in poi, viene riconosciuta l’importanza delle strutture interne della lingua. Quindi, lingue tra loro remote geograficamente e storicamente che hanno fatto le stesse scelte sintattiche. E nulla rende l’organizzazione sintattica del giapponese più funzionale nelle isole del Giappone, né quella dell’inglese più funzionale nelle isole britanniche. Non c’è questo tipo di funzionalità che spieghi alcunché. I vincoli e i fattori sono interni, non ambientali.

Voi siete per una teoria che comprenda anche questi aspetti.

Una teoria che enfatizza molto le strutture “interne”. E i cambiamenti endogeni delle strutture interne, sia nel campo della linguistica che della biologia. L’organizzazione interna dei geni: come possano riorganizzarsi. Come la fisica e la chimica – con componenti di autorganizzazione – organizzano e strutturano in parte gli esseri viventi. Noi enfatizziamo questa componente interna.

Il neo-darwinismo è una dottrina “esterna”: è l’ambiente che filtra e plasma le strutture e i fenomeni biologici. C’è anche quello, però non è una componente così importante. E’ molto più importante la componente interna.

A quale corrente “revisionista” del darwinismo vi rifate, perciò?

Steve Gould e Richard Lewontin sono stati dei pionieri, importantissimi. Ma oggi vi sono, oltre ai revisionisti, anche dei biologi che vanno oltre, che considerano la sintesi moderna (cioè il neo-darwinismo, la fusione di genetica e evoluzionismo darwiniano) decisamente superata. Per esempio Eugene Koonin, Carl Woese, Lynn Margulis, Gabriel Dover, Stuart Newman, Leonard Kruglyak e altri. Siamo dalla loro parte e li citiamo nel libro.

Lei ha lavorato anche all’interno di strutture, come il San Raffaele, in cui le sarà capitato di dibattere con colleghi dell’area medica. Cosa pensa delle teorie darwiniane applicate alla medicina e alla psicologia?

La medicina darwiniana è una sciocchezza. Dello stesso genere dell’ “estetica darwiniana” e dell’ ”etica darwiniana”. Applicazioni senza senso del darwinismo. Una piccola corrente senza importanza. Non vedo il clinico o il chirurgo che quando fanno le diagnosi o eseguono un intervento si rifanno alla teoria darwiniana. Non è il caso. Mi sembra un aspetto decisamente marginale destinato a scomparire. Nelle scienze cognitive, c’è invece la psicologia evoluzionistica che ha centri di ricerca che sono appunto il bersaglio della nostra critica. Infatti nel libro c’è una appendice con svariate citazioni tratte da questi psicologi evoluzionisti i quali sostengono che “tutto cambia, tutto diventa chiaro quando si applica la teoria dell’evoluzione” e così via. Secondo noi è sbagliatissimo.

Le cosiddetta “sacra triade” di studiosi (Dennett, Dawkins e Pinker) oggetto delle vostre critice, secondo Cavalli-Sforza non sarebbe poi così “sacra”, ovvero non così autorevole nelle ricerche relative all’evoluzione biologica. Quindi non meritevole di così tanta attenzione.

Sono comunque studiosi di queste problematiche con cattedre prestigiose, che fanno anche divulgazione. Sono studiosi qualificati e influenti, considerati dei maestri. Mi fa piacere che Cavalli-Sforza ed altri dicano: non state a preoccuparvi di loro dal punto di vista scientifico. Benissimo. Ma non è che non siano autori ininfluenti e di nessun interesse. Sono personaggi con posizioni accademiche ben consolidate. Sono anche autori di prestigio.

A chi è venuta l’idea di questo libro? A lei, a Fodor, ad entrambi parlando di questi temi?

E’ venuta a tutti e due. Io presentai quattro anni fa quella che ora costituisce la “parte prima” del libro alla  City University of New York. E Fodor, con il quale siamo intimi amici da decenni, mi esortò a scriverne, perché le riteneva cose importanti. Mi invitò a ripetere la mia conferenza il giorno dopo ai suoi studenti alla Rutgers University. E insistè che dovevo pubblicarla. Io ribattei che non c’era nulla da scrivere, perché si trattava di dati e scoperte già pubblicate sulle riviste scientifiche. Fodor insistè, dicendo che però era importante riunirle tutte assieme, spiegarle in modo accessibile e discuterle criticamente. Abbinando e integrando queste scoperte della biologia con un’analisi concettuale critica rigorosa delle idee centrali del neo-darwinismo. Così è nata l’idea di scrivere questo libro. Ci siamo divisi i compiti: la prima parte l’ho scritta io e la seconda Fodor. Poi ovviamente ognuno ha letto la parte dell’altro, aggiungendo e integrando la rispettiva divisione del lavoro. Abbiamo impiegato circa tre anni a completarlo, ovviamente alternando questo lavoro agli altri impegni.

Avete seguito anche l’ottima regola, soprattutto americana, di sottoporre i capitoli ad altri esperti, in corso d’opera?

Sì, e un lettore molto importante è stato il grande biologo e genetista Richard Lewontin. Ha suggerito vari cambiamenti che abbiamo adottato. Il suo contributo è stato determinante. Importante anche la critica benevola, ma serrata, di Gabriel Dover e quella amichevole, ma molto dissenziente, di Charles Randy Gallistel, eccellente amico personale sia di Fodor che mio, un critico spietato e micidiale del comportamentismo (che noi citiamo nel nostro libro), ma assai restio a criticare il neo-darwinismo. Altri lettori sono stati filosofi, biologi e altri colleghi che ci hanno fornito suggerimenti e critiche.

Restando su Lewontin, com’è stato che qualcuno abbia avuto l’idea di fare una “petizione” contro di lei? Lewontin, come lei ha detto, l’ha informata di questa curiosa iniziativa.

Sì, è partita dal genetista Giorgio Bertorelle, il quale si vide rispondere da Lewontin “I urge you to desist” (La invito caldamente a desistere). Ma lui ha insistito e, pur senza la firma di Lewontin, ha fatto circolare la petizione e  sostiene che i più prestigiosi evoluzionisti hanno firmato un manifesto contro di me. Un manifesto di condanna contro le mie idee, mi sembra una cosa da inquisizione.

Detto in senso ironico: non è uno dei motivi che l’hanno indotta a tornarsene negli Stati Uniti, dopo la parentesi al San Raffaele di Milano? Metti caso che mi brucino come Giordano Bruno, avrà pensato.

No, ero già in America. E neppure in America sono teneri su certe cose. Sono tornato negli Stati Uniti per tornare a fare lo studioso e non soltanto l’organizzatore.

Si attende altre reazioni dall’uscita del libro nel nostro Paese?

Penso di sì. Appena il libro comincerà a circolare ed essere letto, vi saranno certamente altre reazioni.

Vi farà però piacere: in fondo riapre un dibattito su questioni un po’ ferme tra religione e laicismo.

Noi ovviamente non abbiamo nulla da dire sulla religione. E’ bene che la scienza non dica nulla sulla religione, e viceversa. Sono due settori distinti.

Anche se in Rete, alcuni pensatori religiosi, cominciano ad annoverarvi tra i loro “paladini”.

Lo so, ma cosa possiamo farci? L’importante è che non ci considerino parte di loro. Né che facciano credere ai lettori che stiamo dalla loro parte. E questo per ora non lo fanno. Anzi, sottolineano: questi sono due atei e perfino (sottolineano il perfino) loro criticano il darwinismo. Il che è vero. Quindi, ne facciano l’uso che credono. Qualcuno anzi ci aveva avvertito: non scrivete queste cose perché poi saranno strumentalizzate. Ma noi abbiamo scritto ciò che ci sembra giusto e vero. E poi sull’uso che ne verrà fatto, sarà quel che sarà.

* Su VideoScienza parte dell’audio della conversazione con Piattelli Palmarini.

* Leggi anche una delle più interessanti e pacate repliche a firma del genetista Mauro Mandrioli (Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Biologia animale) su Pikaia (il portale dell’evoluzione diretto dal filosofo della scienza Telmo Pievani).

* La simpatica e divertente intervista a Piattelli Palmarini di Serena Dandini e Dario Vergassola a Parla con me (1 giugno 2010).

Mauro Mancia: il fisiologo dell’inconscio


 

Ho incontrato la prima volta Mauro Mancia molti anni fa, all’Istituto di Fisiologia umana seconda dell’Università di Milano, che egli dirigeva. Mi colpì a prima vista il suo mix di capelli neri e lunghi sulla nuca, da sessantottino, l’aspetto ieratico, longilineo, per niente italiano, e il parlare scandito, rigoroso, calmo, preciso. Ed era davvero singolare che fosse medico, fisiologo e psicoanalista. Lo incontrai per intervistarlo su una delle sue grandi passioni, probabilmente la maggiore della sua vita di studioso: sonno e sogno. In questo tema Mancia scorse, a ragione, uno dei problemi cardine per cercare di comprendere e chiarire il misterioso salto dalla mente al corpo, come diceva Freud. Stavo scrivendo una serie di articoli sul sogno dal punto di vista scientifico, e arrivai a Mancia su indicazione di Cesare Musatti, suo analista didatta.  «Vada a parlare col mio allievo Mauro Mancia – mi suggerì Musatti – ha molte cose interessanti da raccontarle al riguardo».

Dalla sua formazione in ambito medico, al corso di studi del suo insegnamento accademico fino alla psicoanalisi, fu conseguenza inevitabile per Mancia occuparsi di neurofisiologia e precorrere i tempi del grande interesse verso le neuroscienze. Va aggiunto che, in un primo tempo, Mauro Mancia avrebbe voluto fare lo psichiatra. Proposito che abbandonò per seguire il percorso della psicoanalisi freudiana, dopo l’esperienza delle prime guardie all’allora Ospedale psichiatrico milanese Paolo Pini di Affori, diretto dal padre della psichiatria italiana Carlo Lorenzo Cazzullo. Tra l’altro fu proprio Cazzullo, a quanto egli stesso mi raccontò, a sconsigliare Mancia di proseguire sulla via psichiatrica, in quanto troppo emotivamente coinvolto dai pazienti psichiatrici.

Ho a lungo frequentato anche Marco Margnelli, con Mancia entrambi neurofisiologi-sperimentatori su sonno e sogno (purtroppo allora si trovarono a svolgere tali ricerche registrando l’attività cerebrale dei gatti, cosa di cui Margnelli, e credo pure Mancia, si sarebbero successivamente pentiti)  seguendo l’insegnamento del grande Giuseppe Moruzzi. Fu una importante stagione della ricerca neurofisiologica italiana, che avrebbe dovuto dar luogo ad un altrettanto radioso avvenire per le neuroscienze nazionali. Cosa che invece non avvenne, o avvenne molto marginalmente. Uno dei motivi fu il solito di oggi: mancanza di fondi adeguati per la ricerca. Era al tramonto l’era dei laboratori di neurofisiologia composti fondamentalmente da elettroencefalografi (EEG) ed elettrodi – o meglio sopravvivevano, ma integrati con i nuovi e costosi programmi e apprecchiature computerizzati. Per non parlare dell’avvento della ricerca per neuroimmagini.

Le neuroscienze hanno richiesto e richiedono pure oggi investimenti molto onerosi, cosa che né il CNR, per il quale Margnelli lavorava, né tantomeno l’Università potevano affrontare. Margnelli raccontava che certe cose occorrenti presso il suo ufficio, doveva addirittura acquistarle personalmente o portarsele da casa. Questo per dire che pure Mauro Mancia non ha potuto disporre di grandi mezzi per condurre i propri studi in neuroscienze. Il mezzo migliore sono stati il suo stesso cervello, il suo acume e l’aggiornamento costante che praticò da accademico e ricercatore, oltre ai collaboratori e allievi che ha saputo creare. La psicoanalisi fu un ulterire strumento intellettuale di cui poter disporre. E, anche attraverso Mancia, la psicoanalisi è uscita dai salottini e si è alzata dai divanetti, per entrare nei laboratori e nei protocolli di ricerca. In fondo, Freud e Jung erano medici. Freud preconizzò l’avvento e la fortuna delle neuroscienze e della neurofarmacologia.

Ho chiesto a Luca Imeri,  anch’egli docente al Dipartimento di Fisiologia umana II dell’Università di Milano, come allievo e continuatore degli studi di Mancia, quale ritiene sia il maggior contributo che egli abbia lasciato nella comprensione dei rapporti tra neuroscienze e psicoanalisi.

«Mi sembra che il tratto più caratteristico e importante della figura scientifica di Mancia – spiega Imeri – consista nel suo essere stato un neurofisiologo ed uno psicoanalista che ha praticato entrambe le discipline di prima mano. Mancia, l’attività dei neuroni cerebrali non solo l’ha studiata, ma l’ha registrata direttamente in laboratorio. E, insieme, per anni ha visto pazienti e supervisionato colleghi. Mi sento di dire che non credo siano in molti, non solo a livello italiano, ma internazionale, ad avere (o avere avuto) un percorso professionale così peculiare che ha fornito a Mancia un punto d’osservazione speciale e prezioso sulla relazione mente-corpo. Alla sua scomparsa nel 2007, ne ho scritto l’obituary per Sleep (la rivista di settore più importante a livello mondiale per chi si occupa professionalmente di studiare il sonno e curarne i disturbi), in cui è possibile trovare altri informazioni su Mancia, il suo contributo e qualche mia considerazione».

Ora Milano celebra giustamente e finalmente, a tre anni dalla scomparsa, il suo maestro con un incontro dal titolo  “Mauro Mancia. Una vita tra psicoanalisi e neuroscienze”. Ovvero: “Inconscio non rimosso, memoria, sogni. Studiosi italiani e stranieri si confrontano sui filoni principali delle ricerche di Mancia cercando i punti di contatto tra Psicoanalisi e Neuroscienze” (Sabato 20 marzo, Casa della Cultura, Via Borgogna 3, Milano, dalle 9.15 alle 16.30).

Le note di presentazione della giornata dicono:

Mauro Mancia (Fiuminata 1929 – Milano 2007) considerato uno dei padri delle neuroscienze in Italia è stato allievo di Cesare Musatti, ha dedicato la vita a discipline apparentemente parallele – le Neuroscienze e la Psicoanalisi. Convinto che le due dottrine fossero indispensabili per la conoscenza della mente umana, vide le contaminazioni più fertili nell’ambito della Memoria e del Sogno; senza mai trascurare le fondamentali differenze di metodi e strumenti usati per lo studio.

Studioso rigoroso e severo, ha creduto nell’alleanza tra Psicoanalisi e Neuroscienze creando le basi per gli odierni filoni di studio alla scoperta della mente umana: “Esse sono alleate” – affermava Mancia – “dal momento che è possibile considerare alcune funzioni della mente fondamentali per la Psicoanalisi, come quelle di inconscio radicate nelle funzioni della mente, care alle Neuroscienze, come la memoria. Anche nel sogno è possibile trovare delle forme di alleanza anche se il metodo di studio è diverso: le Neuroscienze si occupano della organizzazione neurofunzionale del sogno e dei trasmettitori coinvolti, mentre la Psicoanalisi è interessata al significato del sogno e alla sua integrazione con le esperienze affettive ed emozionali più precoci”. 

Mauro Mancia è stato professore emerito di Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Milano, presidente dell’ASSORN (Associazione per la Ricerca Neurofisiologica), presidente della SIRS (Società Italiana di Ricerca sul Sonno). Ha fondato il Centro Sperimentale di Ricerca del Sonno “G.Moruzzi” che ha diretto per alcuni anni. E’ stato membro ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana e analista dell’International Psychoanalytical Association.

Ha pubblicato libri e diversi lavori sia scientifici come neurofisiologo sia teorico/clinici come psicoanalista.

Tra i suoi libri ricordiamo la sua ultima fatica,  Narcisismo, Il presente deformato dallo specchio appena pubblicata postuma da Bollati Boringhieri; Sonno & sogno (Laterza, 2006); Il sonno e la sua storia. Dall’antichità all’attualità (Marsilio, 2004); Sentire le parole. Archivi sonori della memoria implicita e musicalità del transfert, Bollati Boringhieri, 2004; Psicoanalisi e Neuroscienze, Springer, 2007.

A Milano si raccolgono amici, studiosi, allievi, per ricordare la sua straordinaria figura e per portare avanti i suoi filoni di ricerca. Tra i partecipanti: Vittorio Gallese che con Giacomo Rizzolatti e il gruppo di ricerca dell’Università di Parma sono famosi in tutto il mondo per avere scoperto i “neuroni specchio” e che approfondirà il tema Psicoanalisi e Neuroscienze.

Mauro Manica, psichiatra di Novara e membro SPI, recentemente insignito del Ticho award 2009 (premio per analisti che si siano distinti per il loro lavoro clinico e di ricerca) in occasione del Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Chicago e Antonio Di Benedetto, psicoanalista che con lui condivideva le ricerche su musica e psicoanalisi.

Singolare davvero, aggiungo io, per quelle strane cose che la vita ci riserva, l’associazione tra Mauro Mancia e Mauro Manica: praticamente omonimi, se non fosse per quella “i” preposta o posposta, a seconda di chi ci si riferisca. Tanto che capita si pensi ad un errore di battuta, confondendo Mancia per Manica, e viceversa. Davvero uno scherzo freudiano (della serie “motti e giochi di parole”) o uno scambio di personalità alla Pessoa, che avrebbero certamente divertito un raffinato e ironico pensatore come Mauro Mancia.