• aprile: 2024
    L M M G V S D
    1234567
    891011121314
    15161718192021
    22232425262728
    2930  
  • Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog e ricevere notifiche di nuovi messaggi per e-mail.

    Unisciti a 1.693 altri iscritti
  • Statistiche del Blog

    • 652.140 hits
  • Traduci

Il mago con una mano sola


L’uso abile, sapiente, allenato delle mani e l’arte della misdirection (deviazione dell’attenzione, depistaggio) sono due fulcri della magia. Ma sarebbe possibile creare numeri magici, suggestioni, stupore con una sola mano? Qualcuno c’è riuscito. Ad esempio il mago argentino Héctor René Lavandera, nome d’arte René Lavand, aveva perso la mano destra in un incidente stradale all’età di nove anni ma, nonostante ciò, divenne un fenomeno nella magia ravvicinata (close-up magic). Provate a vedere qualche suo numero su YouTube e ve ne renderete conto. Esempio sublime di come con la volontà, lo studio, l’allenamento, la perseveranza e, ovviamente, un poco di talento, l’arte magica non è preclusa neppure in caso di deficit fisici.

Il mago contemporaneo che sta emulando l’arte di Lavand con una sola mano è l’americano di Los Angeles Chris Canfield. Quello che ha provocato l’assenza della mano destra di Canfield è una causa congenita, ma la particolarità della sua vita è che suo padre era un mago e, come racconta, “sono davvero cresciuto senza conoscere un mondo senza magia”. Il padre di Canfield si esercitava e sfoggiava trucchi con le carte e con le monete davanti a suo figlio. Arrivava a casa con attrezzature magiche che il giovane poteva usare e lo portò persino a vedere David Copperfield quando Canfield aveva nove anni.

Tutto ciò ha contribuito indirizzare la creatività e a sviluppare in Canfield la passione per l’arte magica nonostante la sua menomazione. Oltre che mago professionista Canfield è anche un dirigente di TraitWare, una piattaforma di semplificazione e sicurezza dell’autenticazione progettata per verificare l’identità dell’utente senza password.

Infine, venerdì scorso Canfield si è esibito con successo al “Penn and Teller: Fool Us”, un programma televisivo competitivo andato in onda per la prima volta nel 2011 sul network statunitense CW con i maghi Penn Jillette e Raymond Teller, programma che offre ai maghi la possibilità di esibirsi e ingannare il duo di fama mondiale. Se Penn e Teller non riescono a capire come funziona un trucco (essere mago, pure mondiale, non ti mette in condizione di capire al volo tutti i trucchi, specie quelli di nuova creazione), il mago dietro quel trucco vince un trofeo Fool Us e altri premi.

Alla ricerca delle radici umane perdute: il Nobel per la Medicina a Svante Pääbo


Paleogenomica. La nuova, affascinante scienza che non si limita a reperire e descrivere morfologicamente i reperti ossei del nostro antenati, ma ne ricostruisce la storia evolutiva, in particolare dall’analisi del DNA mitocondriale. E il pioniere assoluto di questa disciplina è lo svedese Svante Pääbo a cui è stato assegnato il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina di quest’anno. Vincitore totale, unico, a differenza di anni precedenti il cui il più ambito premio per la carriera scientifica era diviso tra più vincitori.

Pääbo è descritto come una mente geniale, un entusiasta e un grande motivatore per chi lavora con lui. Se volete avere percezione di queste sue qualità, vi consiglio la lettura di L’uomo di Neanderthal. Alla ricerca dei genomi perduti (Einaudi). Ma cosa c’entra la paleogenomica con la medicina? C’entra eccome, conoscere la storia evolutiva di noi umani, sotto il profilo biologico, del nostro DNA antico, serve a capire non soltanto da dove arriviamo, ma anche da dove hanno avuto origine le patologie sotto il profilo genetico. E, perché no, in futuro tutto ciò contribuirà anche a individuare nuove terapie. Una volta sulle sale anatomiche delle università campeggiava la scritta in latino: “Qui i morti aiutano i vivi”. Oggi potremmo sostituirla con: “Qui i Neanderthal e gli altri ominidi estinti aiutano l’uomo moderno”.

KatherineBrunson, DavidReich. “The Promise of Paleogenomics Beyond Our Own Species”. Trends in Genetics, Volume 35, Issue 5, May 2019, Pages 319-329.

Mentre tu dormi il tuo corpo lavora


Che il sonno non sia soltanto una questione di riposo ma che invece svolga tutta una serie di funzioni conservative, riparative e persino rigenerative sul nostro corpo, è ormai un fatto assodato. Un buon sonno, il giusto numero di ore di sonno. Perché se invece il sonno è cattivo, scarso, insufficiente per un tempo protratto ci può essere l’effetto contrario. Alcune funzioni fondamentali del nostro corpo, come quella immunitaria e cardiaca, possono alterarsi fino al danno d’organo, accompagnandosi a un aumento generale dello stato infiammatorio. Proprio oggi è stato pubblicato uno studio interessante, seppure frutto di una ricerca non molto estesa, sul Journal of Experimental Medicine, finanziato dal National Institutes of Health statunitense che aggiunge ulteriori evidenze all’assunto che, alla luce delle scoperte che andavano accumulandosi, già anni fa avevo coniato: “Mentre tu dormi il tuo corpo lavora”. E lo fa per preservare il tuo corpo in salute.

Non sarà un caso, per varie alterazioni fisiologiche, che più si invecchia e maggiormente può accadere di non dormire bene per l’intera notte, con le conseguenze sulla salute dell’anziano che alla lunga intervengono.  

Già dalla introduzione del suddetto articolo gli autori elencano le varie ricerche recenti che hanno condotto alla seguenti considerazioni riguardo il ruolo protettivo del sonno sul nostro organismo, fino a livello cellulare: “Il sonno influenza profondamente le risposte immunitarie e infiammatorie, proteggendo dai disturbi immunitari associati all’età, comprese le malattie cardiovascolari, il cancro e le malattie neurodegenerative. Nonostante queste associazioni, più della metà degli adulti non dorme a sufficienza. Il sonno influisce su molti aspetti del sistema immunitario, comprese le risposte adattative, l’infiammazione e la sintesi di citochine e mediatori immunitari”.

E commentando gli stili di vita attuali non favorenti una corretta igiene del sonno, col giusto numero di ore di sonno, andando a letto sempre allo stesso orario, possibilmente prima di mezzanotte (paradossalmente molti medici, specie se si dividono tra clinica, ricerca e docenza universitaria, aggiornamento e redazione di articoli scientifici, sono i primi a negarsi un sonno sano): “L’interruzione cronica del sonno è pervasiva negli stili di vita moderni. L’interruzione del sonno comprende molte permutazioni tra cui, a titolo esemplificativo, frammentazione, restrizione, jet lag sociale, apnea ostruttiva del sonno (OSA) e insonnia, che aumentano sostanzialmente la suscettibilità alle malattie immuno-associate”.

Forse non saranno neppure qui un caso le molte morti tra medici e personale sanitario ospedaliero nella prima ondata pandemica da Covid, personale  soggetto a turni massacranti, con poche ore di riposo e di autentico sonno. Ricordate la foto, divenuta simbolo del malefico periodo, dell’infermiera stremata, addormentata riversa sulla tastiera del computer?

Un dato che emerge anche da questo studio è che il sonno riduce l’infiammazione e, al contrario, che l’interruzione del sonno aumenta l’infiammazione. Anche qui, sarà un caso che quando ci ammaliamo, ad esempio con una infezione respiratoria, avvertiamo un grande bisogno di dormire? Gli autori che hanno eseguito una batteria mirata di analisi del sangue nei soggetti esaminati, sia umani che murini, con sonno regolare o alterato, considerano una possibile funzione di “ricablaggio epigenetico” del sonno, ulteriormente da indagare.

Ricordiamo che l’epigenetica è la nuova scienza che indaga l’influenza dell’ambiente, esterno ed interno, sull’espressione dei nostri geni. Una nuova scienza che apre molte prospettive e fornisce chiavi di lettura di molti fenomeni biologici, in salute e in malattia, fino a non molti anni fa difficilmente interpretabili. Tra cui questa funzione protettiva del buon sonno. Nota a livello empirico, ma che rimaneva ancora da dimostrare con dati oggettivi.

“Quello che stiamo imparando è che il sonno modula la produzione di cellule che sono le protagoniste, i principali attori, dell’infiammazione”, ha affermato Filip K. Swirski, autore senior di questo studio e direttore del Cardiovascular Research Institute alla Icahn School of Medicine del Mount Sinai Hospital di New York. “Un sonno buono e di qualità riduce il carico infiammatorio”.

Segnatevelo e ricordatevelo quando penserete che dormire è una perdita di tempo. Durante il sonno il nostro corpo fa cose, per la nostra salute, che non può fare durante la veglia. E da questo studio emerge pure che non è possibile recuperare gli effetti benefici del sonno dormendo di più quando possibile nel tentativo di compensare quanto non si fa dormendo regolarmente. Gli effetti del sonno alterato in modo protratto permangono a livello biologico, cellulare, accumulandosi perciò nel tempo.

Del resto la “cura del sonno” è nota e praticata dalla notte dei tempi: basti pensare ai templi greci dedicati ad Asclepio, in cui, certo, era dato maggiore risalto al “sogno incubatorio”.  Sempre la terapia del sonno è stata a lungo praticata in ambito medico, anche in tempi recenti, in particolare in ambito psichiatrico, ma pure dalla medicina del sonno per ri-sincronizzare i ritmi sonno-veglia. Ancora, il coma farmacologico è utilizzato in ambito ospedaliero, in caso di gravi compromissioni fisiche, per preservare il cervello, riducendo il consumo metabolico e quello dell’ossigeno. Per non parlare dell’uso millenario delle sostanze psicoattive di derivazione naturale per indurre stati non ordinari della coscienza, molto simili al sogno. Insomma, da tutto ciò si evince che il nostro corpo ha una esigenza quotidiana di sonno, terapeutica in altri modi, per “spegnere”, o meglio “ridurre”, l’incessante, e a volte logorante, attività cosciente del cervello al fine di ristabilire una omeostasi organica.

Cameron S. McAlpine, Máté G. Kiss, Faris M. Zuraikat, David Cheek, Giulia Schiroli, Hajera Amatullah, Pacific Huynh, Mehreen Z. Bhatti, Lai-Ping Wong, Abi G. Yates, Wolfram C. Poller, John E. Mindur, Christopher T. Chan, Henrike Janssen, Jeffrey Downey, Sumnima Singh, Ruslan I. Sadreyev, Matthias Nahrendorf, Kate L. Jeffrey, David T. Scadden, Kamila Naxerova, Marie-Pierre St-Onge, Filip K. Swirski. Sleep exerts lasting effects on hematopoietic stem cell function and diversity. Journal of Experimental Medicine, 21 September 2022.

Vedi anche:

Mentre dormi il tuo corpo ti cura

Dormi che ti passa. Il sonno regola le emozioni

Sonno & salute

Sonno e sistema immunitario

Sonno ed emozioni. Intervista a Carolina Lombardi

Passeggiare nella natura allontana lo stress: le prove nel cervello


Uno scorcio del Parco del Ticino a Vigevano

Sono nato e vivo in una città del pavese da cui non mi sono mai spostato, pur lavorando a Milano e dovendomi quindi sobbarcare tutti i disagi del pendolarismo. Dei treni locali che spesso hanno guasti, soppressioni e ritardi. Perché l’ho fatto? Fondamentalmente perché la mia città, Vigevano,  è come si suole dire a “misura d’uomo” e in particolare è circondata dalla campagna. Per non parlare del bosco, dell’enorme Parco del Ticino.

Dico sempre che quando stai per entrare a Vigevano in auto provenendo dalla statale della provincia milanese, la prima cosa che incontri, ai lati della strada, non sono i palazzi, non è il cemento, ma bensì i secolari alberi e la rigogliosa vegetazione del Parco del Ticino. Ti accoglie la natura. Avviato da mio padre, che era un grande amante del bosco e dalla campagna, fin da bambino mi ci sono sempre rifugiato, anche in solitaria, per ritrovare equilibrio, serenità, per chiarirmi le idee rispetto a un problema, ascoltare solo il suono della natura e, in pratica, gestire e allontanare lo stress.

E ovviamente tutti sappiamo quanto la natura possa essere terapeutica in tal senso. Su questo sono stati scritti milioni di pagine da parte di poeti, scrittori, filosofi, artisti. Ora c’è pure una dimostrazione scientifica del perché la natura agisca sul nostro cervello come antistress.

Del resto parecchi studi hanno rilevato che vivere in città, specie se grande e con poche possibilità di accedere a parchi e luoghi naturali, rappresenti un fattore di rischio per diverse patologie, sia a causa dell’inquinamento, ma pure per lo stress a cui  si è sottoposti. Compromettendo di conseguenza anche la salute mentale.

Non sarà certo un caso che chi vive e lavora in città parli spesso di “fuga” dei fine settimana o durante i periodi di vacanza, per raggiungere luoghi più a contatto con la natura. Oppure che i pensionati, se possono permetterselo, acquistino casa o comunque scelgano di alternare la vita cittadina con quella dei dei luoghi più in equilibrio con la natura.

Tutto ciò ha ora un riscontro nella ricerca coordinata dalla psicologa cognitiva e ricercatrice tedesca Sonja Sudimac del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience dell’Istituto Max Planck. Come si presenta la stessa Sonja Sudimac: “I miei principali interessi di ricerca si concentrano su come l’ambiente modella il nostro cervello, più specificamente, come l’esposizione alla natura e all’ambiente urbano influenzano lo stress, le emozioni e i processi cognitivi. Sono particolarmente interessata ai meccanismi neurali alla base di questi effetti, nonché ai processi fisiologici durante l’esposizione a diversi ambienti. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e misure fisiologiche cerco di comprendere i correlati neurali e fisiologici degli stati affettivi e cognitivi di un’ora di camminata nella natura rispetto all’ambiente urbano, con l’obiettivo di influenzare la creazione di ambienti ottimali per la nostra salute fisica e mentale”.

Per ottenere prove causali sui rapporti tra ambiente e stress, tra salute psicofisica e natura, i ricercatori del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience hanno esaminato, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’attività cerebrale nelle regioni coinvolte nell’elaborazione dello stress in 63 volontari sani prima e dopo una passeggiata di un’ora nella cosiddetta “foresta verde” di Grunewald, la più vasta foresta cittadina di Berlino, rispetto alla passeggiata in una strada commerciale con traffico a Berlino. I risultati dello studio hanno rivelato che l’attività nell’amigdala è diminuita dopo la passeggiata nella natura, suggerendo che la natura suscita effetti benefici sulle regioni cerebrali legate allo stress.

“I risultati supportano la relazione positiva precedentemente ipotizzata tra natura e salute del cervello, ma questo è il primo studio a dimostrare il nesso causale. È interessante notare che l’attività cerebrale dopo la passeggiata urbana in queste regioni del cervello è rimasta stabile e non ha mostrato aumenti, il che è contrario un’opinione diffusa secondo cui l’esposizione urbana provoca ulteriore stress”, spiega la psicologa ambientale Simone Kühn, a capo del Lise Meitner Group for Environmental Neuroscience.

Gli autori di questo studio mostrano che la natura ha un impatto positivo sulle regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione dello stress e che può essere già osservata dopo un’ora di cammino. Ciò contribuisce alla comprensione di come il nostro ambiente fisico di vita influenzi il cervello e la salute mentale. Anche una breve esposizione alla natura diminuisce l’attività dell’amigdala, suggerendo che una passeggiata nella natura potrebbe servire come misura preventiva contro lo sviluppo di problemi di salute mentale e attenuare l’impatto potenzialmente svantaggioso della città sul cervello”.

Insomma, anche se viviamo in città, a inizio o fine giornata, meglio se ad entrambi, concediamoci una bella passeggiata in mezzo al verde. Magari approfittandone per portare fuori il cane. Il nostro cervello e tutto il nostro corpo ringrazieranno. E saremo meno schizzati rientrando tra le pareti domestiche o sul luogo di lavoro. Inoltre, approfittiamo dei fine settimana per fare altrettanto. Ma questo già lo sapete.

Sonja Sudimac, Vera Sale, Simone Kühn. How nature nurtures: Amygdala activity decreases as the result of a one-hour walk in nature. Molecular Psychiatry, 05 September 2022.

Cervello e retina, verso una biomarker dell’Alzheimer


Per molti secoli i cervello è stato una scatola nera. Studiabile solo sul tavolo anatomico. Soprattutto per quanto riguarda le sue alterazioni. Nel volgere di qualche decennio, con l’avvento delle tecniche di visualizzazione del cervello vivente (neuroimaging), le cose sono radicalmente cambiate. E l’antico detto che gli occhi sono lo specchio dell’anima potrebbe trovare riscontro anche nello studio della retina, la parte posteriore dell’occhio che, di fatto, fa parte del cervello e alcuni suoi gruppi di cellule si collegano direttamente al sistema nervoso centrale.

Molti studi si stanno concentrando negli ultimi 20 anni sull’esame della retina per una diagnosi precoce dell’Alzheimer. In che modo? Secondo questi studi, che hanno preso in esame anche un campione di persone di 45 anni, l’assottigliamento della retina potrebbe indicare un segno precoce di Alzheimer, prima che i sintomi veri e propri si manifestino. Come spiega la ricercatrice Ashleigh Barrett-Young del Dunedin Study (una ricerca globale sulla salute e lo sviluppo dell’Università di Otago, Nuova Zelanda, che di recente ha celebrato i 50 anni dall’avvio degli studi nella popolazione): “Molti dei processi che avvengono nel cervello si verificano anche nelle cellule gangliari della retina, un altro strato di cellule che compongono la retina. Ciò include alcuni dei processi anormali comuni nella malattia di Alzheimer, come la deposizione anormale della proteina beta amiloide e la perdita di cellule”.

Siccome l’imaging della retina non è invasivo, non è doloroso e ogni scansione richiede solo pochi secondi  attraverso una apparecchiatura per la  tomografia a coerenza ottica (Oct), si rivela di importanza fondamentale per la diagnosi precoce di Alzheimer e per le relative cure che si mostrano efficaci se attuate nelle prime fasi della malattia, nonché per il cambiamento degli stili di vita che possono ritardare la progressione verso il declino cognitivo. Inoltre una semplice e rapida identificazione del rischio attraverso la scansione della retina potrà permettere di valutare le future sperimentazioni terapeutiche per l’Alzheimer.

Retinal imaging in Alzheimer’s and neurodegenerative diseases. Snyder PJ, Alber J, Alt C, Bain LJ, Bouma BE, Bouwman FH, DeBuc DC, Campbell MCW, Carrillo MC, Chew EY, Cordeiro MF, Dueñas MR, Fernández BM, Koronyo-Hamaoui M, La Morgia C, Carare RO, Sadda SR, van Wijngaarden P, Snyder HM. Alzheimers Dement. 2021 Jan;17(1):103-111.

Intestino & Covid


L’intestino ha recettori simili a quelli del cervello. E capita che sia definito “secondo cervello”, pure per il ruolo, attraverso la popolazione batterica che lo abita (microbiota), anche per il benessere e la salute mentale. Ora c’è un elemento in più in questa visione cervello-intestino: la serotonina presente nell’intestino.

Il Covid-19 si può associare a una serie di sintomi gastrointestinali come la diarrea. Per quale motivo? Ricerche recenti indicano che questi sintomi intestinali nei pazienti Covid-19 peggiorano con la gravità della malattia e questo sarebbe collegato all’aumento della serotonina intestinale, rilasciata a causa delle disfunzioni intestinali, aumentando la risposta immunitaria del corpo e potenzialmente peggiorando le condizioni dei pazienti. E certi pazienti avrebbero una risposta eccessiva del sistema serotoninergico intestinale, per loro tipologia genetica. Ciò renderebbe ragione anche di un altro sintomo, la nausea, che difatti si associa a un eccesso di serotonina.

Da qui l’idea di abbassare il livello di serotonina circolante nel corpo. Come? Con gli antidepressivi. Del resto supportata da prove precedenti secondo cui gli antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (Ssri) potrebbero ridurre la gravità dei sintomi di Covid-19.

Come ha commentato l’autore senior dello studio pubblicato dalla rivista internazionale di ricerca gastrointestinale Gut, Damien J. Keating, del Flinders Health and Medical Research Institute and College of Medicine and Public Health, Flinders University, Adelaide, Australia: “Il nostro studio aggiunge ulteriori prove che il Covid-19 ha molte più probabilità di infettare le cellule dell’intestino e aumentare i livelli di serotonina attraverso effetti diretti su specifiche cellule intestinali, peggiorando potenzialmente gli esiti della malattia. Fornisce inoltre ulteriore supporto alle prove cliniche emergenti che i farmaci antidepressivi, che bloccano il trasporto della serotonina nel corpo, possono servire come trattamento benefico”.

Alyce M Martin, Michael Roach, Lauren A Jones, Daniel Thorpe, Rosemary A Coleman, Caitlin Allman, Robert Edwards, Damien J Keating. Single-cell gene expression links SARS-CoV-2 infection and gut serotonin. Gut, 2022.