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Nutrizione e cancro: quali evidenze?


Con un commento finale a cura della dott.ssa Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa, ricercatrice, responsabile del Servizio Lifestyle Medicine e direttore del Laboratorio di Ricerca in Medicina Preventiva, entrambi di Auxologico, coautrice di Dietasalute. L’alimentazione per dimagrire, prevenire, restare in forma (Sperling & Kupfer).

Se ne parla ormai da decenni, ma la medicina ufficiale stenta ancora a riconoscerne il ruolo. Con la giustificazione che mancano tuttora prove scientifiche evidenti e incontrovertibili ma, soprattutto, condivisibili nei protocolli per il trattamento dei vari tipi di tumore. In mancanza di questo, il campo è lasciato alle libere scorribande di guru della sana nutrizione, libri divulgativi, incontri e lezioni per prevenire e curare il cancro con la nutrizione. Non c’è dubbio che il tema sia non solo affascinante, ma addirittura intrigante per ognuno di noi. Mangiare è un atto quotidiano. E del resto abbiamo evidenza quanto il cibo, ciò che introduciamo nel nostro corpo più volte al giorno, possa in effetti, nel corso degli anni, condurre ad alterazioni del nostro metabolismo fino alla malattia. Sappiamo come sovrappeso, obesità, sindrome metabolica e diabete abbiano un ruolo nella genesi di patologie che interessano vari organi, distretti e funzioni del nostro organismo. E sappiamo che fare maggiore attenzione a quanto mangiamo, limitando l’eccesso di carboidrati e zuccheri, possa mantenerci in migliore salute più a lungo, o a recuperare uno stato di salute, associando ciò a una regolare a adeguata attività fisica. Ancora, sappiamo come l’infiammazione possa essere favorita da una cattiva alimentazione e come lo stato infiammatorio possa creare un terreno favorevole allo sviluppo e al mantenimento di molte malattie. Quindi perché non può esserci un legame tra nutrizione e cancro?

In effetti nessuno lo nega, e anzi sempre più medici sono orientati a impostare diete adeguate non solo per combattere il cancro, ma anche per aiutare i pazienti a sopportare le terapie oncologiche, sia radio che chemioterapiche. Prova ne sia, solo per fare un esempio, il pluridecennale impegno dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano nel campo della alimentazione e nutrizione in oncologia che prevede anche tutta una serie di pubblicazioni e decaloghi ad uso dei pazienti. Sulla questione entra oggi in campo la rivista Science con un lungo articolo a firma di Jocelyn Kaiser in cui vengono affrontate anche le esperienze italiane e di ricercatori italiani operanti all’estero tra cui, in particolare, quella di Valter Longo e la sua “dieta mima-digiuno”.

Dieta chetogenica e cancro

Vicky Makker è una oncologa del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e quando gli capita una paziente con cancro dell’endometrio che si è diffuso o recidivo, sa che le prospettive non sono buone. Anche dopo radioterapia e trattamenti farmacologici, la maggior parte delle donne con malattia avanzata muore entro 5 anni. Makker avrebbe una pallottola da sparare, l’inibitore della fosfatidilinositolo 3-chinasi (PI3K), farmaco utilizzato in questo e in altri tipi di cancro, spesso però senza successo. Ora però Makker sta tentando di rendere le cellule tumorali più vulnerabili al farmaco sottoponendo i pazienti a una dieta chetogenica (regime a basso contenuto di carboidrati sostituiti in genere da carne, formaggio, uova e verdure) in base agli studi sul metabolismo cellulare e a prove di laboratorio in cui sembra che una dieta chetogenica può contrastare la resistenza dei tumori a questo tipo farmaci. Anche se la stessa Makker ammette che tutto ciò è molto al di fuori del pensiero clinico tradizionale. Tra i molti commenti in merito, quella della ricercatrice oncologica britannica Karen Vousden del Francis Crick Institute di Londra: “”C’è una grande industria in questo settore, ma non si basa su una reale comprensione di quello che sta succedendo in una cellula tumorale”.

Per questo motivo le ricerche sulle correlazioni tra cancro e nutrizione hanno avviato tutta una serie di studi laboratoristici per rendere le prove più solide. Soprattutto c’è bisogno di capire, come illustra bene l’articolo odierno di “Science”, quali componenti della nostra nutrizione possono favorire o inibire una efficace terapia dei vari tipi di tumore. Siccome ciò di cui nutriamo è alla fin fine chimica, amminoacidi, ormoni, molecole, occorre scoprire e capire quali di questi eliminare o rafforzare per curare, e magari, per prevenire alcune forme tumorali. Possiamo perciò dire che la dieta chetogenica, se la intendiamo come parte della terapia oncologica, sia indicata per tutti i tipi di tumore? Ancora non è dato sapere. Anzi, taluni ricercatori avvisano che  una dieta chetogenica potrebbe ritorcersi contro e alimentare la crescita di tumori che amano i grassi, come quelli del seno e della prostata e altri con determinate mutazioni. In alcune ricerche si è poi scoperto che la dieta chetogenica ha stimolato la crescita del tumore nei topi con leucemia. In un recente studio, i ricercatori hanno scoperto che, contrariamente al pensiero prevalente, i tumori del glioblastoma possono aggirare la carenza di glucosio nutrendosi di corpi chetonici. Per sfruttare in sicurezza una dieta chetogenica come trattamento, “è necessario capire veramente come e dove funziona”, dice l’oncologo Matthew Vander Heiden del Koch Institute for Integrative Cancer Research presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT).

Dieta mima-digiuno e cancro

Ideata da Valter Longo, professore di Biogerontologia e Direttore dell’Istituto sulla Longevità a USC (University of Southern California) – Davis School of Gerontology di Los Angeles e direttore del programma di ricerca di Longevità e Cancro presso l’Istituto di Oncologia Molecolare IFOM di Milano, la dieta mima-digiuno ha da una parte attirato l’attenzione del pubblico a livello mondiale, anche per l’efficace campagna di marketing utilizzata, ma anche l’attenzione nonché le critiche di molti medici. Non mancano anche in questo caso gli studi e le pubblicazioni scientifici. Ma hanno dimostrato in modo definitivo che la dieta mima-digiuno sia efficace sia nel prevenire che nella terapia del cancro? Le prove di Longo si basano soprattutto su sperimentazioni animali, su topi, rare sono invece le sperimentazioni protratte su malati di tumore, anche per scarsa adesione al rigido regime alimentare. La teoria alla base della dieta mima-digiungo è quella secondo cui le cellule tumorali si “nutrono” di glucosio e dato che il digiuno abbassa i livelli di glucosio nel sangue, questo sì che le cellule sane si adattino in modo protettivo e “affama” le cellule tumorali che devono crescere. Il digiuno riduce anche la produzione nel corpo di ormoni, come l’insulina, che possono guidare la crescita del tumore. Entrambi gli effetti possono rendere le cellule tumorali più suscettibili alla chemioterapia. Per rafforzare le prove a favore della sua dieta mima-digiuno Longo e il suo  team hanno presentato domanda al National Cancer Institute degli Stati Uniti per una sovvenzione di 12 milioni di dollari per eseguire uno studio clinico su 460 pazienti in 11 ospedali con una dieta che imita il digiuno e chemioterapia per il cancro al seno.

Il futuro delle ricerche su nutrizione e cancro

Come abbiamo detto all’inizio e come fa comprendere l’articolo pubblicato oggi da “Science”, le evidenze riguardo le correlazioni tra nutrizione e cancro fino ad oggi si sono limitate ad osservazioni aneddotiche, casistiche di singoli clinici e ricercatori in campo nutrizionale, non su un solido apparto di studi condotti da più centri sanitari mondiali sui pazienti oncologici, come la ricerca biomedica richiede. Al di là del fascino suscitato in tutti noi da questo tipo di argomenti, dato che investono la vita quotidiana nostra e dei nostri cari, il cammino è ancora lungo per ottenere chiarezza sulle possibilità di applicazione nei vari casi oncologici. Come dice Jocelyn Kaiser a conclusione del suo articolo, sulla scorta di quanto affermano altri ricercatori attenti a questo settore: «il campo della dieta antitumorale impiegherà anni per passare da “incursioni frammentarie” a una chiara comprensione dei pro e dei contro di ciascuna dieta. Anche stabilire che una dieta specifica funziona abbastanza bene da diventare parte delle cure cliniche di routine richiederà tempo. Ma combattere il cancro con la dieta non è più un’idea marginale. Il campo è all’inizio di una nuova era in cui le persone prenderanno davvero in seria considerazione la dieta. I tempi sono maturi».

Abbiamo chiesto un commento all’articolo di Science di cui si parla qui a Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa, ricercatrice, responsabile del Servizio Lifestyle Medicine e direttore del Laboratorio di Ricerca in Medicina Preventiva, entrambi di Auxologico, coautrice di Dietasalute. L’alimentazione per dimagrire, prevenire, restare in forma (Sperling & Kupfer).

Articolo molto interessante che tratta il tema dell’associazione di diete specifiche per ridurre la crescita tumorale o potenziare l’effetto di farmaci antitumorali e della radioterapia.

Le diete proposte (chetogenica per ridurre salita di insulina che è fattore di crescita, ipoproteiche  per ridurre apporto di aminoacidi che nutrono le cellule tumorali o digiuno breve prima della chemioterapia) si sono dimostrate efficaci nel topo, ma:

a)    l’efficacia delle diverse diete dipende dal tipo di tumore e dalle mutazioni di questo (non si può consigliare la stessa dieta ad un cancro della mammella ed ad uno del colon), quindi prima di consigliarle è necessario approfondire i meccanismi con cui i nutrienti stimolano la crescita di specifiche cellule tumorali. I tumori infatti sono in grado di aggirare le carenze di un nutriente imparando ad utilizzarne un altro (per es. il glioblastoma che usa i corpi chetonici quando non ha glucosio a disposizione) o sintetizzandolo da soli.

b)   adottare una dieta carente di nutrienti potrebbe essere difficile da sostenere da pazienti tumorali defedati o perché non palatabile.  Per questo motivo si stanno studiando diete specifiche per il tipo di tumore palatabili, da consegnare ai pazienti. Qui nasce il problema dei costi da sostenere.

Dovremo aspettare i risultati degli studi clinici in corso nell’uomo che valuteranno:

a)    effetto del semidigiuno prima della chemioterapia in pazienti con ca mammella

b)   effetto di pasti precostituiti ipoglucidici in pazienti con cancro dell’endometrio e mutazione che aumenta la PI3K che favorisce la crescita tumorale

c)    effetto della dieta chetogenica sulle risposta alla chemioterapia in pazienti con ca pancreas

d)   effetto di frullati privo di specifici aminoacidi su risposta alla chemioterapia

Nel complesso penso che ci sia un razionale per cercare di migliorare la prognosi di pazienti tumorali con la dieta, ma fino a quando non ne sapremo di più, il consiglio per questi pazienti resta quello di ridurre drasticamente gli zuccheri semplici e consumare prevalentemente  le proteine di origine vegetale.

Aggiornamento:

La cosa entusiasmante è che sempre più spesso, ormai, compaiono lavori di ricerca sul ruolo della nutrizione nella salute e nella malattia. Di un paio di due giorni fa è il lavoro dal titolo “Processed foods drive intestinal barrier permeability and microvascular diseases” pubblicato da Science Advances che nella parte finale dedicata alla discussione dice: “È diventato sempre più evidente che la moderna dieta occidentale, composta da alimenti trasformati ricchi di grassi, zuccheri e sale, contribuisce in modo significativo alla problematica dell’obesità, che manifesta anche una vasta gamma di patologie degli organi interni, come la steatosi epatica non alcolica, alcuni tipi di cancro, diabete di tipo 2 e malattie macro e microvascolari correlate. Lo stile di vita di una parte sostanziale delle popolazioni dei paesi sviluppati è caratterizzato da un’elevata assunzione di cibi pronti come cereali per la colazione, biscotti e snack, che sono stati sottoposti a trattamento termico elevato. La trasformazione alimentare altera la struttura chimica dei prodotti alimentari e, in tal modo, aumenta la shelf-life (“vita di scaffale”), l’appetibilità e le proprietà sensoriali, migliorando intrinsecamente gusto e potenzialmente stimolando i centri di ricompensa del cervello, che porta a eccesso di cibo. Sebbene i produttori possano tentare di limitare il contenuto di grassi, zuccheri e sale di questi prodotti per soddisfare le linee guida per un’alimentazione sana, questi alimenti sono spesso fonti ricche di AGE (prodotti finali della glicazione avanzata). Qui, abbiamo stabilito che la componente AGE degli alimenti trasformati è un mediatore del rischio di malattie microvascolari”.

Invecchiare in salute: intervista a Guido Kroemer, vincitore del premio “Lombardia è Ricerca” 2019


OLYMPUS DIGITAL CAMERAGuido Kroemer: è lui il vincitore del premio “Lombardia è Ricerca” di un milione di euro, di cui il 70 per cento verrà investito in ricerca in collaborazione con centri di eccellenza lombardi. Il tema di quest’anno è l’healthy ageing (invecchiamento in salute) e la cerimonia per la consegna del premio avverrà tra pochi giorni, venerdì 8 novembre al Teatro alla Scala di Milano. Ma perché Guido Kroemer? La risposta è nella mole delle sue ricerche scientifiche e delle sue pubblicazioni dedicati ai meccanismi biologici e molecolari che portano all’invecchiamento, con la sequela di conseguenze patologiche che ben sappiamo.

Una costante, quasi una ossessione nei lavori di Kroemer è il “fattore tempo”, tanto da fargli affermare: «Secondo me, il fattore di rischio più importante, sebbene trascurato, di tutte le principali malattie è il tempo. Di conseguenza, la ricerca sull’invecchiamento e la modulazione di questo parametro dovrebbe essere la massima priorità della ricerca biomedica».

A prima vista potrebbe sembrare una tautologia. Come potremmo infatti contrastare il fattore tempo? Imbarcandoci su una macchina del tempo a ritroso negli anni, per ringiovanire? In realtà, leggendo i lavori scientifici di Kroemer si comprende che egli intende riferirsi non tanto al fattore tempo in quanto entità fisica, ma bensì a ciò che lo scorrere del tempo produce sul nostro organismo, sui componenti delle nostre cellule. L’atro fenomeno a cui Kroemer ha dedicato e dedica la sua attenzione di scienziato nel campo biomolecolare dell’invecchiamento, è l’autofagia.

Orologi biologici e invecchiamento

Prendiamo un paio dei lavori scientifici più recenti che recano anche la sua firma. Il primo si intitola “Decelerazione dell’invecchiamento e degli orologi biologici mediante l’autofagia”. Ed ecco che otteniamo già un primo chiarimento. Non si sta parlando di eliminare il fattore tempo. Come mai si potrebbe? Ma bensì di “decelerare”, rallentare gli orologi biologici e, di conseguenza, l’invecchiamento. Ecco un secondo chiarimento. Che è sotto gli occhi di tutti.

C’è un tempo “esterno”  (i giorni, i mesi e gli anni che passano) e c’è un tempo “interno” (quello delle nostre cellule e dei nostri orologi biologici). Gli orologi biologici che ognuno di noi porta dentro di sé e che scandiscono il tempo, ma soprattutto la modalità della nostra vita, non battono tutti allo stesso modo. Avete presente quando diciamo: “Come sei invecchiato bene” oppure “Com’è invecchiato male?”. Il tempo non scorre in modo uguale per tutti. C’è un tempo fisico e c’è un tempo biologico. C’è soprattutto una età biologica che non è uguale per ciascuno di noi. I fattori che ci fanno invecchiare sono tanto esterni quanto interni e dipendono, come sappiamo, dalla genetica, ma pure dall’epigenetica (sani stili di vita, corretta nutrizione, movimento adeguato all’età, giuste ore di sonno, astenersi da  sostanze tossiche, gestione dello stress, spazi per il rilassamento e la meditazione, ambienti ecologicamente sani). Sull’autofagia, abbiate un attimo di pazienza, e ci faremo rispondere dallo stesso Guido Kroemer.

In questo lavoro a firma di Kroemer e del biochimico e biologo molecolare spagnolo Carlos Lopez-Otín (Departamento de Bioquímica y Biología Molecular, Facultad de Medicine, Instituto Universitario de Oncología del Principado de Asturias, Universidad de Oviedo, Oviedo, Spagna) si dice: «L’invecchiamento è il fattore di rischio più importante per la maggior parte delle patologie umane. Proponiamo il concetto che l’avanzamento dei tratti distintivi dell’invecchiamento è dettato da diversi distinti orologi biologici che possono essere rallentati dall’induzione dell’autofagia. Questa “dilatazione del tempo” ritarda la manifestazione dipendente dal tempo di più malattie».

Troppi carboidrati fanno male 

Il secondo recente lavoro a firma di Kroemer e di altri ricercatori (ne diamo gli estremi in bibliografia di questa pagina) è dedicato ai rapporti tra nutrizione e invecchiamento: “Carbotossicità: effetti nocivi dei carboidrati”. Anche qui troviamo un chiarimento, già dal titolo, sul fatto che ci possono essere un invecchiamento precoce e uno invece ritardato anche in funzione ci ciò che mangiamo. Del carburante, tossico o sano, che introduciamo nel nostro organismo e, di conseguenza, nelle nostre cellule.

Non dimentichiamo mai che cibi e bevande, alla fin fine, sono composti chimici che introduciamo nel nostro corpo. E in questo lavoro, in sintesi, si dice: «La nutrizione moderna è spesso caratterizzata dall’assunzione eccessiva di diversi tipi di carboidrati che vanno dai polisaccaridi digeribili agli zuccheri raffinati che mediano collettivamente effetti nocivi sulla salute umana, un fenomeno che chiamiamo “carbotossicità”. Prove epidemiologiche e sperimentali combinate con studi clinici di intervento sottolinea l’impatto negativo dell’assunzione eccessiva di carboidrati, nonché gli effetti benefici della riduzione dei carboidrati nella dieta. Discutiamo i meccanismi molecolari, cellulari e neuroendocrini che collegano l’assunzione esagerata di carboidrati alla malattia e l’invecchiamento accelerato mentre delineiamo strategie dietetiche e farmacologiche per combattere la carbotossicità».

Ma ora è venuto il momento di lasciare la parola a Guido Kroemer.

Professor Kroemer, come spiegherebbe il fenomeno dell’autofagia a chi non ne sa nulla? Perché è così importante?

Il nostro organismo è composto da cellule. Ogni cellula è come una città con le sue infrastrutture. Ovviamente si devono collezionare le spazzature per il loro riciclaggio. Ma perché una città possa sopravvivere a lungo termine, da una parte si devono distruggere le case e le strade vecchie, dall’altra occorre ricavarne gli elementi utili e utilizzarli per costruire degli edifici e delle vie nuovi. L’autofagia permette la demolizione selettiva delle strutture cellulari disfunzionali o condannate, per il loro riciclaggio e ricostruzione posteriori. È un meccanismo di mantenimento e anche di ringiovanimento cellulare.

Cosa significa nella pratica quotidiana attenersi a una “restrizione calorica”? Quali patologie ne risentono positivamente? In quali età è indicata? Quali pregi e difetti avete riscontrato?

La restrizione calorica consiste nella riduzione delle calorie assunte, senza malnutrizione, cioè senza privazione di micro-nutrimenti essenziali (vitamine e oligo-elementi). È stata studiata soprattutto negli animali di laboratorio, in particolate nel  topo. Si sa che la restrizione calorica e una strategia per aumentare la longevità del topo e per ritardare l’avvenimento della maggior parte delle patologie, il cancro, i problemi cardiovascolari, le malattie neuro-degenerative, tra le altre.

Per l’essere umano sappiamo che l’obesità accelera l’invecchiamento e di conseguenza precipita la manifestazione delle malattie oncologiche, cardiovascolari e degenerative. È una evidenza epidemiologica. Però in quanto alle raccomandazioni dietetiche, la mia prima parola è “cautela”. Sono biologo molecolare e cellulare. Lavoro con animali di laboratorio. Non ho fatto nessun esperimento sugli umani, ossia uno studio clinico. Posso dare soltanto dei consigli di “buon senso”. È ovvio che si deve evitare l’obesità, soprattutto l’assunzione di troppi carboidrati (zucchero, pane, pasta, patate) e di cibi industriali ultra-processati e ricchi in acidi grassi trans, che inibiscono l’autofagia, quel fenomeno di ringiovanimento cellulare che studio. Al contrario dobbiamo favorire i comportamenti che possano indurre l’autofagia: un regime equilibrato senza eccessi calorici, variato, senza zucchero aggiunto, senza dolci, ma fare invece uso di verdura, legumi e frutta. Una buona abitudine sarebbe aumentare il tempo fra i pasti, saltare la colazione, magari anche il pranzo, evitare gli snack e le merendine, praticare una attività fisica moderata è frequente di almeno 30 minuti al giorno, non fumare. E diciamo addio allo stereotipo della nonna che rimpinza i nipoti… Per eccellere nel campo della salute e della longevità non si deve eccedere.

Tutto ciò è utile per la prevenzione, ma non si applica alle malattie già conclamate. Il malato deve seguire i consiglio del suo medico invece di auto-medicarsi e di seguire delle diete miracolose trovate su internet. Ogni caso è differente e ci sono delle condizioni in cui la restrizione calorica può essere pericolosa.

Che ruolo hanno i mitocondri sul nostro stato di salute e sui processi di invecchiamento?

I mitocondri sono gli organelli che producono l’energia cellulare. Funzionano come delle centrali termoelettriche e la loro efficacia si riduce con il tempo, con un effetto diretto sul nostro rendimento fisico. Perlopiù i mitocondri vecchi hanno la tendenza a disintegrarsi, inquinando l’ambiente cellulare e causando delle reazioni infiammatorie e perfino la morte cellulare, contribuendo al declino degli organi. I mitocondri devono riciclarsi mediante l’autofagia per mantenere la loro funzione e per evitare la loro decomposizione.

A che punto siamo con le conoscenze epigenetiche? Che percentuale alla genetica e quanto all’epigenetica nella salute e nella malattia?

Certo, esistono delle malattie geneticamente trasmesse dai genitori alla loro discendenza, le malattie genetiche acquistate attraverso delle mutazione precoci, le predisposizioni ereditarie che aumentano il rischio di ammalarsi… Ma nella stragrande maggioranza dei casi, la salute si mantiene o si perde in funzione dell’ambiente in cui viviamo, in funzione della nostra igiene di vita.

Se oggi possiamo “rallentare” l’invecchiamento, qualcuno sostiene che arriveremo a “invertire”, se non “azzerare”, l’orologio biologico dell’invecchiamento: lei che ne pensa?

Nella letteratura scientifica ci sono dei casi rapportati d’inversione del processo del invecchiamento mediante l’eliminazione delle cellule senescenti o la riprogrammazione delle cellule verso uno stato staminale. Ma non sappiamo ancora si questi procedimenti altamente sperimentali, sviluppati dal topo, potranno applicarsi nell’uomo. Per me, la speculazione sull’annientamento dell’invecchiamento rimane fantascienza.Healthy_Ageing _NEUROBIOBLOG.jpg

Un commento sul premio “Lombardia è Ricerca” che sta per ricevere

Sono molto contento, anzi lusingato di ricevere questo premio, forse quello più importante in Italia, perlomeno dal punto di vista economico. È un premio che ricompensa il lavoro sull’invecchiamento in salute – healthy ageing. E precisamente questo è il campo che mi affascina di più.

Chi è Guido Kroemer

Nato in Germania, di nazionalità austriaca e spagnola, Guido Kroemer è professore alla Facoltà di Medicina dell’Università di Paris Descartes, direttore del team di ricerca “Apoptosis, Cancer and Immunity” del French Medical Research Council (INSERM) e direttore del “Metabolomics and Cell Biology platforms of the Gustave Roussy Comprehensive Cancer Center”.

Due domande al prof. Peter Schwartz direttore del Centro per lo Studio e la cura delle aritmie cardiache di origine genetica dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano e dal 2017 uno dei 15 top scientists italiani che compongono la Giuria del Premio “Lombardia è ricerca” di Regione Lombardia. 

Professor Schwartz, cosa significa “invecchiare in salute”? A che punto siamo con la ricerca sull’aging?

Per me vuol dire che nonostante il passare degli anni le cose cui si deve rinunciare sono poche e, se mai, più dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
La ricerca è un processo in divenire e le scoperte di Kromer stanno aprendo molte porte.

Quali ritiene siano i maggiori meriti scientifici di Kroemer, che avete premiato quest’anno?

Il suo merito maggiore è l’aver compreso, e dimostrato, che un processo fondamentale per rallentare l’invecchiamento come l’accelerazione dell’autofagia (l’auto-distruzione cellulare che accelera il ricambio) può essere attivata mediante riduzione dell’intake alimentare, soprattutto di carboidrati. L’importanza dell’autofagia, e le sue basi genetiche, avevano già portato al premio Nobel il ricercatore giapponese Yoshinori Ōsumi nel 2016

Giornata della Ricerca 2019 dedicata a Umberto Veronesi – Programma del premio “Lombardia è Ricerca”

Motivazione del premio internazionale “Lombardia è ricerca” 2019 a Guido Kroemer

Lavori citati

Lopez-Otín, C., Kroemer, G. Decelerating ageing and biological clocks by autophagy. Nat Rev Mol Cell Biol 20, 385–386 (2019) doi:10.1038/s41580-019-0149-8

Kroemer G, López-Otín C, Madeo F, de Cabo R. Carbotoxicity-Noxious Effects of Carbohydrates.Cell. 2018 Oct 18;175(3):605-614. doi: 10.1016/j.cell.2018.07.044.

Riso in bianco? Preferirei di no. Intervista a Cecilia Invitti, edocrinologa e diabetologa


Niente dieta in bianco, per carita! E basta pure con le rassicuranti insalatone di riso bianco che ci fanno sentire a posto con la coscienza? Potrebbe essere questa la conclusione di una metanalisi, pubblicata da British Medical Journal, condotta su quattro lavori clinici riguardanti un totale di 13.284 casi  accertati di diabete di tipo 2 in una casistica complessiva 352.384 partecipanti, con periodi di follow-up compresi tra 4 e 22 anni. Sun Q , Hu EA , Pan A, Malik V (Department of Nutrition, Harvard School of Public Health, Boston,  USA) autori della metanalisi concludono che “un consumo più elevato di riso bianco è associato ad un aumento significativo del rischio di diabete di tipo 2, soprattutto nelle popolazioni asiatiche (cinese e giapponese)”.

In considerazione del fatto che il consumo a persona di riso bianco (raffinato) è molto diverso in Asia rispetto ai Paesi occidentali (in Cina la media è di 4 porzioni al giorno, mentre in Europa la media è di 5 porzioni a settimana), lo studio ha compreso una larga fascia di popolazione asiatica e occidentale per un adeguato numero di anni. E le valutazioni conclusive indicano un rischio maggiorato del 10% per ogni dose giornaliera in più di riso bianco. Cioè a dire: se proprio dovete, consumatene poco, e non più volte al giorno.

Vale la pena ricordare che le prime coltivazioni “addomesticate” di riso, di cui quello bianco è il più consumato al mondo, risalgono a 8000-9000 anni fa da parte delle popolazioni della valle dello Yangtze, in Cina. Esistono più 140.000 varietà di riso ma, alla base, è possibile distinguere tra riso raffinato (bianco) e riso integrale: il primo è sottoposto a lavorazione per privarlo dalle parti tegumentali (pula o lolla). Il riso bianco è però “incriminato” da tempo come alimento con alto indice glicemico (IG), indice che sempre più viene associato ad un rischio maggiore di ammalarsi di diabete 2. E mettere in relazione cibo e malattia (o, al contrario, cibo e salute) è un orientamento sempre più praticato, tanto dai medici quanto da ognuno di noi nella vita quotidiana. 

Dal punto di vista del rapporto causa-effetto, dose-risposta, essendo una questione riguardante molteplici variabili nell’ambito dell’epidemiologia nutrizionale, i commentatori dell’analisi riso bianco-diabete2 preferiscono essere cauti parlando di correlazione molto significativa. Nel suo editoriale Bruce Neal, senior director di BMJ, dice che seppure i risultati dello studio siano interessanti, ne derivano poche implicazioni immediate per medici, pazienti, o servizi sanitari pubblici, non in grado di sostenere un’azione su larga scala. Inoltre, come da formula cautelare, “ulteriori ricerche sono necessarie per sviluppare e dimostrare l’ipotesi di ricerca”. Sarà. Ma intanto, nell’attesa dei tempi della scienza, dato che passare dal riso bianco a quello integrale non è poi sto’ gran sacrificio, meglio non rischiare.

E proviamo ad approfondire ancora un po’ la questione con Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa e ricercatrice dell’Auxologico di Milano.

Fino a non molti anni fa i medici, in certi casi, suggerivano una “dieta in bianco” per il decorso di certe malattie: sembra che il consiglio non sia più così valido…

Sì, meglio il cibo integrale.  Il riso integrale ha una superficie più larga è meno scindibile in molecole più piccole di zuccheri, fa aumentare meno la glicemia postprandiale. Questo è importante nel diabetico. Inoltre, i cibi integrali sono una sorta di “probiotico” che modifica la flora intestinale in senso benefico, in termini di infiammazione indotta nell’organismo.

Nel caso del riso, o della pasta, è quindi indicato consumare solo e unicamente il tipo integrale?

E’ consigliabile in particolare nel soggetto con alterazioni della tolleranza glucidica e nei soggetti con alvo tendenzialmente stitico, ma non bisogna estremizzare, basta preferire i carboidrati integrali.

Perché l’indice glicemico sta assumendo sempre maggiore importanza nella prevenzione delle malattie metaboliche, e secondo alcuni non solo in queste?

Perché l’assunzione di cibi a basso indice glicemico porta ad una minor stimolazione della produzione di insulina che è un ormone anabolizzante, quindi nel diabetico preserva la beta cellula pancreatica verso l’esaurimento. Nel non diabetico riduce la secrezione di un ormone che può aumentare la lipogenesi (accumulo di grasso).

L’industria alimentare, raccogliendo una maggiore consapevolezza e richiesta pubblica orientata al rapporto cibo-salute, si sta gradualmente spostando verso la produzione di cibi che non siano dannosi e addirittura “favoriscano” la salute: cosa si sentirebbe di suggerire in questo senso?

Personalmente sono favorevole alla manipolazione genetica del cibo (per esempio aumentando l’amilosio degli amidi si fa diventare il cibo meno viscoso, più fermentabile e quindi con minor indice glicemico). Fino a quando non capiremo la causa dell’esplosione dell’obesità questo è un mezzo per fermarla che vale la pena di esplorare. Nella sperimentazione ci sono dimostarzioni che questo tipo di manipolazione porta a miglioramento della glicemia, nell’uomo ancora no, anche se alcuni lavori dimostrano che migliora la sensibilità all’insulina.

Riferimenti:

BMJ. 2012 Mar 15;344:e1454. doi: 10.1136/bmj.e1454.
White rice consumption and risk of type 2 diabetes: meta-analysis and systematic review.
Hu EA, Pan A, Malik V, Sun Q.
SourceDepartment of Nutrition, Harvard School of Public Health, Boston, MA 02115, USA.