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Gli specchi, la psiche e l’inconscio


IoSpecchioUn bell’articolo di Giovanni B. Caputo, ricercatore del DIPSUM (Dipartimento Scienze dell’Uomo), Università Urbino, sull’influenza che da sempre lo specchio ha sulla psiche e sull’inconscio. Con una attenzione a come Jung ha trattato il tema dello specchio nel suo Psicologia e Alchimia.

Caputo si sta dedicando da tempo agli aspetti percettivi e psicologici di come vediamo noi stessi riflessi (e non a caso “riflettere” vale tanto per la nostra immagine specchiata, quanto per il pensare su noi stessi), proponendo indagini sperimentali in condizioni particolari di illuminazione e riflesso di sé nello specchio. Come dice Caputo “gli specchi sono stati studiati dalla psicologia cognitiva per comprendere l’auto-riconoscimento, l’auto-identità, e la coscienza di sé. Inoltre, la rilevanza degli specchi nella spiritualità, nella magia e nell’arte, suggeriscono che gli specchi possono essere simboli di contenuti inconsci”.

In questo lavoro, ad esempio, ipotizza che il riflesso di sé in condizioni di luce bassa, potrebbe consentire l’emergere e l’integrazione di contenuti inconsci. Metodica che richiama, se vogliamo, l’uso magico e divinatorio dello specchio e delle superfici riflettenti presso maghi e veggenti dei secoli passati. Che quasi sempre utilizzavano tali mezzi divinatori e di veggenza nella semioscurità, o alla luce tremolante e fioca di una candela. Tipo Nostradamus e la sua ciotola d’acqua per profetizzare il futuro.

Caputo, Giovanni B., Archetypal-Imaging and Mirror-Gazing, Behavioral Sciences (2076-328X);Mar2014, Vol. 4 Issue 1, 1-13.

Gillo Dorfles, il cervello, l’arte e la follia


GilloDorefles Ciò che stupisce di Gillo Dorfles è la sua lucidità  nonostante l’età raggiunta di 101 anni!  Già nel 2005 mentre scrivevo il mio libro “Il cervello anarchico” Dorfles fece un intervento sulla terza pagina del Corriere della Sera in cui ipotizzava che l’atto creativo dell’artista potesse nascere da  una pulsione della  memoria implicita, intendendosi per questa il  periodo comprendente gli ultimi 6 mesi di vita fetale ed i  primi due anni di vita neonatale. E’ questa la fase della nostra vita in cui il cervello si costruisce, e tutta la costruzione è interattiva con l’ambiente esterno.

Se la migrazione neuronale o la mielinizzazone, o la costruzione delle sinapsi, avviene  in modo scorretto possono nascere i primi guai nel senso di malattie congenite o  pensieri ossessivi che ci accompagneranno per tutta la vita.  E’ recente, a questo proposito, la scoperta di una proteina definita JAB1 che istruisce le cellule di Schwann sul come e quando debbano proliferare maturare e formare la guaina mielinica stessa. JAB1 agisce regolando i livelli di un’altra molecola chiamata p27. L’eccessivo aumento della p27 impedisce alle cellule di Schwann di proliferare e maturare in modo adeguato. Le neuropatie ereditarie con difetti di mielinizzazione associate a distrofia muscolare congenita possono essere conseguenza di questa cattiva interazione fra JAB1 e p27. E’ questo un piccolo esempio di ciò che può avvenire durante la costruzione del nostro sistema nervoso centrale e periferico.

Il 20 dicembre 2012 Gillo Dorfles ha pubblicato un articolo che riprende il tema della memoria implicita con il titolo “Se l’artista è tentato dall’albero della follia”. L’articolo recensisce un  libro di Louis A. Sass dal titolo “Follia e modernità”. L’autore è un medico psichiatra che si occupa di malati schizofrenici o psicotici  borderline. Secondo Dorfles la nostra può essere considerata una età storica dissociata non solo per la presenza di casi patologici ma in un certo senso come testimonianza della “psicosi” di cui spesso la nostra società è affetta.

Il critico prende lo spunto da questo libro di Sass  che costituisce una messa a punto dei rapporti effettivi apparenti tra schizofrenia e alcune forme creative come la letteratura o la pittura quando si realizzano da parte di letterati come Musil, Sartre, Breton, o di artisti come De Chirico, Modigliani, Klee,  sia per la particolare personalità di questi autori che per i personaggi o le opere da loro concepiti.

L’opera di Sass è un ampio tentativo di tracciare una analogia tra la vera e propria follia e le varie forme impersonate o citate dagli artisti considerati. Scrive   Dorfles “è fin troppo semplicistico individuare nelle diverse opere pittoriche SassOKe letterarie una ‘vena di pazzia’ senza che questa abbia nulla a che fare con una autentica schizofrenia ma è assai facile individuare in ogni creazione artistica quella anomalia della norma che può essere classificata come patologica da chi non possiede le dovute conoscenze scientifiche.

L’autore in fondo giustifica con la sua analisi il problema di alcune esperienze psicotiche come inerenti alla condizione normale dell’uomo e per svelare alcuni rapporti tra linguaggio letterario e artistico  e linguaggio schizofrenico. Quello che risulta importante, secondo Dorfles, è distinguere fra il livello di anomalia psichica e la carica creativa di un artista, in maniera da non creare quegli spiacevoli compromessi che portano a dare un giudizio estetico ad una effettiva anomalia, mentre quelle che sono le sollecitazioni fantastiche di una mente creativa presentano quasi sempre un elemento simbolico e metaforico che ha la meglio sulla nuda realtà esistentiva.

Il labirinto consapevole


LabirintiFranco Maria Ricci ha segnato la mia formazione. E’ stato un editore coraggioso e illuminato, con un gusto per il bello in editoria e nella cultura difficilmente emulabili. Oggi, praticamente impossibile. Ha pubblicato riviste, ma è riduttivo definirle tali, come FMR e Kos a cui mi sono abbeverato. E la collana di libri curata da Borges, il vertice del fantastico dell’ultimo secolo, a cui una mente attratta dalla molteplicità, complessità e multidimensionalità dell’esistenza deve ogni tanto fare ritorno. Quantomeno per tirare una boccata, vitale, di ossigeno.

Sapevo che da anni Franco Maria Ricci, su ispirazione di Borges, stava lavorando alla realizzazione di un labirinto. Anzi, data la natura esclusiva e originale di Franco Maria Ricci, “il” labirinto. Nel senso che una volta ultimato sarà il labirinto percorribile più grande del mondo. Composto da corridoi di piante di bambù, si estende per tre chilometri. Nel contempo, esce il volume Labirinti, sempre di Franco Maria Ricci.

Il tema del labirinto ha aspetti comuni con le neuroscienze. Tanto da rivelarsi sempre più, il labirinto, una estensione e una rappresentazione simbolica della nostra natura psichica e del travagliato percorso che ognuno di noi affronta nell’arco della vita.

La mente è un labirinto. Non fosse che per l’organo da cui è espressa, il cervello. Diecimila sinapsi per neurone moltiplicate per cento miliardi di neuroni, in grado di contenere tutto ciò che  lo scibile umano ha prodotto, dalle pitture rupestri del paleolitico fino all’iPad.

Ai primi anatomisti, le originarie preparazioni di tessuto nervoso, colorate col metodo inventato da Camillo Golgi (premio Nobel con Ramón y Cajal per la scoperta del neurone), apparvero al microscopio di una complessità inestricabile. Immagini frattali simili ad altre in natura, composte da curve e spirali che si ripetono all’infinito, sia nel micro che nel macro dei tessuti nervosi. Il cervello è un percorso immenso e tortuoso, un labirinto composto da prolungamenti ramificati, dentriti, assoni e vesciole sinaptiche, di cui ora si sta cercando di ricostruire il modello. In un chilo e mezzo di tessuto biologico sono contenuti trilioni di sinapsi e oltre mille chilometri di reti nervose intrecciate tra loro.

“Il vasto e complicato diagramma di connessioni che unisce le cellule nervose”, afferma il neurobiologo Jeff Lichtman dell’Università di Harvard,è poco compreso, in parte perché a differenza di altri apparati che hanno un’organizzazione cellulare singola ripetuta più e più volte, ogni pezzo del circuito cerebrale sembra diverso dagli altri”.

Studiare il cervello cercando di venire a capo della sua complessità, richiede anche senso estetico, oltre che conoscenze scientifiche. Lichtman coniuga le conoscenze sul cervello con quelle dell’informatica. E’ l’ideatore del Brainbow, una metodologia che consente di colorare i singoli neuroni del cervello, attivando al loro interno proteine fluorescenti, in una gamma di circa 90 sfumature diverse. Questo metodo consente di studiare in un modo accurato i campi neurali, dal percorso di vita di un singolo neurone alle modalità di connessione tra più neuroni. Dando così vita alla “connettomica”, una nuova disciplina che si propone di mappare la complessa moltitudine di circuiti neurali che raccoglie, processa e archivia l’informazione nel sistema nervoso.

All’interno dell’ “Human Brain Project” i neuroscienziati sono riusciti a ricostruirne una parte con simulazioni informatiche, corrispondente a circa 10.000 neuroni con altrettante connessioni. Una inezia al confronto del telaio magico della nostra coscienza. Fisici, matematici, bioingegneri e neuroscienziati che lavorano al progetto di un “cervello virtuale” si giustificano dicendo che l’evoluzione del cervello umano ha impiegato qualche milione di anni per essere ciò che oggi conosciamo, mentre in qualche decennio siamo riusciti ad ottenere un modello iniziale.

E’ presumibile che grazie alla velocità con la quale si evolvono i sistemi infornatici – la cosiddetta “legge di Moore” – sarà in futuro possibile avere a disposizione un supercomputer, un vero cervello artificiale, simile a quello umano, da studiare in ogni suo aspetto. Henry Markram, direttore del progetto Blue Brain all’EPFL (École Polytechnique Fédérale de Lausanne), sta appunto lavorando da quasi un ventennio alla “ingegnerizzazione”, “modelizzazione” della neurocorteccia umana (la parte più alta ed voluta dell’encefalo).

Ricreare per intero il modello “funzionale” del cervello umano, simularne il funzionamento, vorrebbe dire mettere in rete cento miliardi di computer collegati per la cifra astronomica dei rispettivi collegamenti nervosi. Ma il tentativo, più modesto e attuabile, è quello di realizzare programmi che, con meno macchine e maggiori potenze di calcolo, siano in grado di simulare l’attività complessiva del cervello. Ciò è ottenuto creando algoritmi matematici che simulano il funzionamento dei neuroni e delle reti neuronali. Già oggi vi sono simulazioni delle comunicazioni esistenti tra i vari neuroni, mappe neuronali animate corrispondenti all’estensione dell’intera foresta Amazzonica. Questi modelli replicano il funzionamento dei veri neuroni all’interno del tessuto cerebrale. Di questo passo, si punta alla replicazione dell’intero cervello reale, compresi i circuiti che fanno circolare il sangue.

A quel punto emergerebbe l’autocoscienza? Quella che gli scienziati chiamano “singolarità tecnologica”: la consapevolezza delle macchine. Secondo la predizione del matematico Alan Turing, il giorno in cui ci mettessimo a conversare con una macchina nascosta, senza sapere che di apparecchiatura artificiale si tratta, e non rileveremmo alcuna differenza dal conversare con un umano, a quel punto la macchina avrà superato il “test di Turing”: potrà considerarsi autocosciente. Ma fino a quel giorno, dovremo ancora pensare che dal labirintico substrato nervoso del nostro cervello emerge l’autoconsapevolezza, il mistero della coscienza. E’ parere dei neuroscienziato e della maggior parte dei neurofilosifi che la coscienza emerga dall’intricata rete di connessioni nervose. La complessità semplificherebbe se stessa facendo emergere la coscienza. Pochi miliardi di neuroni e relative reti neuronali, fanno la differenza tra noi e gli scimpanzé.

Anche anatomicamente, con le sue circonvoluzioni, il cervello assomiglia ad un labirinto. E l’immagine del labirinto è spesso utilizzata per rappresentare quanto abbiamo all’interno del cranio. Un dedalo di connessioni nervose, pensieri, sensazioni, emozioni, ricordi, processi cognitivi. Un appartato straordinario e delicatissimo. In grado di funzionare anche oltre il secolo di vita, oppure di danneggiarsi improvvisamente e irrimediabilmente. Capace di esprimere le più alte vette del pensiero umano, come di quello più aberrante, crudele e distruttivo. In grado di concepire mondi lontani e inesistenti, ideare invenzioni, progettare edifici, comporre poesie e musiche, concepire bellezze artistiche, trovare modi per curare i propri simili,  oppure decadere a seguito di traumi, insulti vascolari come l’ictus o degenerazioni nervose come l’Alzheimer.

La sfida per gli scienziati sta nel decifrare questo tortuoso e immenso percorso fatto di neuroni, sinapsi, reazioni elettro e biochimiche, cercando al contempo di comprendere come si originano le malattie neurodegenerative. Così da poterle diagnosticare per tempo, prevenirle se possibile, curarle quando ormai si manifestano. Oggi è possibile introdursi attraverso il dedalo di aree e percorsi nervosi grazie alle tecniche di visualizzazione (imaging cerebrale).

Apparecchiature radiologiche come la risonanza magnetica funzionale (fRm) o la tomografia a emissione di positroni (Pet) che, collegate a pc e attraverso software dedicati, ricostruiscono l’immagine del cervello e del sistema nervoso in funzione. Tutto ciò, fino a pochi decenni anni fa, non era neppure lontanamente immaginabile. Gli scienziati del cervello dovevano accontentarsi di studiare l’organo della consapevolezza soltanto a seguito di autopsia, durante interventi di neurochiurgia come iniziò a fare Wilder Penfield, oppure dedurne le alterazioni in un soggetto vivente colpito da malattia o vittima di un trauma cranico, limitarsi a visualizzarlo sommariamente attraverso i raggi X o registrarne le funzionalità per mezzo dell’elettroencefalografia (Eeg).

I neuroradiologi, pochi rispetto all’esigenza e molto ambiti, sono le Arianne del nostro tempo, in grado di introdursi nei meandri del cervello grazie all’imaging cerebrale, stilando diagnosi e tracciando mappe della funzionalità cerebrale. Per anni nei giornali hanno fatto notizia la visualizzazione di questa o quell’area dedicate alle più varie attività cognitive. Tanto da vedere coniate espressioni come “neuroeconomia” e “neuroestetica”.

Non c’è dubbio che  viviamo in piena neurocultura: il cervello fa notizia, con l’aspettativa, o magari l’illusione, che attraverso lo studio di esso si possa comprendere noi stessi, e magari migliorare la nostra vita e il rapporto con gli altri. Secondo altri studiosi del cervello, al contrario, saremmo i promotori di una vera e propria “neuromania”: non MenteLabirintotutto e non sempre dei comportamenti umani è comprensibile attraverso lo studio funzionale del cervello.

Comunque sia, il labirinto che genera la consapevolezza ha, da sempre, non solo la pretesa di studiare se stesso, ma pure di comprendere se stesso. Ma è un labirinto, per quanto immenso e complesso, dotato di ordine, struttura, schema. E potremmo anche aggiungere che, nel momento in cui, tali strutture labirintiche ma ordinate “saltano”, abbiamo il disturbo e la malattia mentale. A volte i medici del cervello e della mente riescono a ripristinarne i percorsi, magari non gli stessi, ma ridonando autonomia all’individuo. A volte, no. Il labirinto è saltato, quella fitta rete di connessioni strutturate è perduta. Per lasciare il posto a una mente destrutturata, a comportamenti disadattivi. A un labirinto senza fine. Senza più ingresso e senza via d’uscita.

Giovedì 14 novembre 2013 ore 18 a Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Via Brera 28, verrà presentato il volume Labirinti di Franco Maria Ricci. 

Il ricordo dell’arte


Che vi siano rapporti tra l’arte e la memoria è scontato. Persino chi raffigura un paesaggio, oppure un oggetto, in modo pressoché “fotografico”, introduce contenuti suoi propri, della sua memoria. Quanto è immagazzinato all’interno della nostra memoria (anzi, delle nostre memorie, essendo definitivamente tramontato il concetto di una memoria unitaria), interferisce e agisce con quanto realizziamo sul piano creativo e artistico.  In certe espressioni artistiche il contenuto mnesico soverchia la percezione del mondo esterno, sostituindosi quasi completamente. Ciò che ho nella mente e nel corpo (la memoria del corpo) è quanto raffiguro nella mia espressività artistica. E il confine tra realtà esterna e realtà interna, nell’artista, è qualcosa di molto precario. Così tra memorie reali e memorie concettuali.

Basti pensare al caso, studiato dal neuroscienziato e scrittore Oliver Sacks, di Franco Magnani, definito “un artista della memoria”. Nel senso che riproduceva Pontito, il paese natale sulle colline toscane, soltanto attraverso i ricordi che ne aveva. Ma riusciva a farlo nel minimo dettaglio, attingendo alla propria memoria dei luoghi e degli edifici che aveva immagazzinato nel proprio cervello in maniera veramente fotografica. E lo faceva dipingendo dagli Stati Uniti, dove si era trasferito giovanissimo.

«Questa, dunque, non era un’esibizione di memoria ” pura “», osserva Oliver Sacks (Un antropologo su Marte, 1995), «ma di una memoria asservita a un unico motivo dominante: il ricordo del paese della sua infanzia. Adesso mi rendevo conto che non era solo un esercizio di memoria, ma anche di nostalgia – e non solo un esercizio, ma una compulsione e un’arte».

Tutto ciò mi è tornato alla mente, visitando la mostra di Sonja Quarone (Se ti ricordi bene, Cavallerizza del Castello di Vigevano, 30 gennaio-14 febbraio 2010). I suoi lavori sono pezzi di memoria. In senso fisico. Sono ricordi, angosce, incubi, ma anche lamenti, sogni, desideri, emozioni, urla, ironia, pianti e risate che si materializzano. Ho scambiato qualche battuta con Sonja Quarone, che è artista autentica, aperta al dialogo e al coinvolgimento con la gente che vede e reagisce alle sue opere. Ho fatto presente che uno psicoanalista ci andrebbe a nozze, con quanto realizza. Sorridendo, mi ha confessato che durante una esposizione la chiamò al telefono uno psichiatra francese, dicendole tutto trafelato: «Ho visto le sue opere. Devo incontrarla il più presto possibile: lei è in pericolo!». Ha fatto sorridere pure me.

Sonja aggiunge invece che questa mescolanza di ricordi, foto e oggetti che le appartengono – sia come mondi interni che esterni – materializzati fuori da sé, partoriti sarebbe giusto dire (molti oggetti sono bambolotti amniotici, effetto ottenuto avvolgendoli di resina, ricorda molto il lavoro dei ceroplasti di secoli addietro), rappresentano una distanza dal sé, un qualcosa che, anche rivisto, “mi dà calma”. Forme di vita che si fondono, amalgamano con cose, oggetti dei più vari, pezzi di fotografie. Forme di vita protoplasmica. Vite che si sfaldano, spezzettano e, contemporaneamente, si ricompongono sotto altre modalità. Altre possibilità. Una foto fissa e contemporanemente uccide un momento ben preciso. Un trancio di foto ricomposto da Sonja Quarone riprende, invece, vita. Con la sua creatività, Sonja Quarone resuscita, ridona nuova esistenza a foto e oggetti dismessi, altrimenti destinati alla discarica. I rifiuti-rifiutati (anche nel senso di ricordi, e pure gli oggetti equivalgono a ricordi) diventano arte. Non si butta nulla: tutto ritorna nel ciclo vitale. Anche ciò che è morto.

La formazione di Sonja è nell’ambito dell’arte concettuale. Con quanto realizza, dimostra che la memoria non è soltanto delle idee, dei pensieri e dei concetti, ma pure, soprattutto, del corpo. Per questo, i suoi lavori suscitano emozioni e reazioni fisiche contrastanti. E dopo, fanno discutere.

Parnassus: quando il cervello crea alla grande


ImaginariumParnassus

Se non lo avete ancora fatto, correrete a vedere “Parnassus” di Terry Gilliam.  Fatelo al cinema, magari non a fine giornata, possibilmente in una sala dallo schermo panoramico. Andate a vederlo riposati, pronti a ricevere immagini, suggestioni, suoni, racconti, simboli eterni emanati da un cervello – quello di Terry Gilliam – che strabocca di creatività, e diventa sempre più bravo, ad usarla come narratore e regista.

Non aspettate di vederlo a casetta vostra, in dvd o dalla rete. Perdereste un’esperienza unica. E’ una ondata di energia creativa che dovete essere pronti ad accogliere nella giusta disposizione psicofisica. Nell’ambiente oscuro di un cinema, magari senza molta gente. Preparatevi alla visione di questo film come ad un rito iniziatico. La creatività è contagiosa. Ne avrete ulteriore consapevolezza vedendo Parnassus.

Se amate la produzione di quel geniaccio visionario che è Terry Gilliam, lo  Hieronymus Bosch del cinema, (e soprattutto se avete amato, continuate ad adorare l’inventiva e l’irriverenza eterna dei Monty Python) questo è il suo capolavoro. Gilliam prosegue con i suoi film il discorso inizato all’interno dei Python, e chi si appassiona alle indagini neuropsicologiche sulla mente e la coscienza non può non incrociarlo.

La narrazione verbale e visiva di Gilliam oggi, e dei Python prima, segue infatti la tecnica che definirono “flusso di coscienza”. E’ spiazzante e ipnotica. Ve ne accorgerete vedendo Parnassus, dove Gilliam (nonostante la scomparsa prematura del suo interprete, il davvero intenso Heath Ledger) riesce a portare a destinazione il progetto di questo film, tra i più apparentemente folli, onirici, terapeutici, entusiasmanti, che la storia del cinema abbia mai prodotto.

E’ stato coraggioso Gilliam e, una volta tanto, pure la produzione, a crederci. Grazie a metafore, allusioni, interpreti in trance, Gilliam riesce a raccontare tutte le contraddizioni non solo della nostra epoca, ma pure, in generale, della coscienza umana, del rapporto uomo-donna, verità-menzogna, interno-esterno, amore-odio, avidità-altruismo, bene-male, realtà-fantasia, morte-immortalità, figli-genitori, e molto altro. Vedetelo.