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Lo sciamano cheesecake


SinghA chi non piace il cheesecake? La tesi che lo sciamano, senza offesa, sia simile all’invenzione del cheesecake è contenuta in una recente pubblicazione di Manvir Singh (Dipartimento di biologia evolutiva umana, Harvard University). Contrariamente alle tesi che vedevano nello sciamano un ciarlatano, uno psicotico, un prete ispirato, un performer, uno psicoanalista, un custode o un medico, Singh aggiunge alla lista la categoria partirita dallo psicologo evoluzionista, sempre harvardiano, Steven Pinker: “uno squisito prodotto confezionato per solleticare i punti sensibili delle nostre strutture mentali”.
E in effetti, lo sciamano, come il cheesecake, funziona ancora oggi. Viene inviato pure nelle nostre società avanzate. Anche in situazioni e convegni ipertecnologici. Perché?
Perché sollecita le nostre strutture mentali. Risponde a esigenze profonde della nostra mente. Stuzzica emozioni, timori e paure vecchi come le stratificazioni del nostro cervello. «Nello stesso modo in cui – spiega Singh – l’evoluzione culturale e le pasticcerie hanno ideato dolci configurati per i nostri organi di senso dell’età della pietra. L’evoluzione culturale e artisti ingegnosi hanno raccolto miti e costumi che colpiscono le nostre psicologie per placare le nostre ansie».
Che un buon cheesecake plachi l’ansia, non c’è dubbio. Salvo poi, dopo averlo ingurgitato, farci venire l’ansia di ingrassare. Detto questo, l’articolo scientifico di Singh è interessante e, prima di questa spiazzante conclusione, passa il rassegna il fenomeno dello sciamanismo nelle culture umane.
Ah, un’ultima cosa: quello nella foto non è uno sciamano. È il dottor Manvir Singh della Harvard University.

La scienza della magia


magiaokokok002Come ho avuto modo di dire e scrivere altre volte, la psicologia, le scienze cognitive e le neuroscienze stanno da alcuni anni studiando la magia (nel senso di prestigiazione, illusionismo, mentalismo) in quanto miniera di conoscenze sugli inganni della mente. La magia è di fatto, oltre che forma di spettacolo antica quanto l’uomo, una scienza empirica. Una scienza che, per tentativi ed errori, utilizza trucchi ed espedienti per ingannare e manipolare la percezione, la memoria, le emozioni.

Si tratta di trucchi ed espedienti che costituiscono un vero e proprio corpo di test proiettivi, oltre che percettivo-cognitivi. Un corpo di test sviluppato non in laboratorio, ma bensì nella vita reale, nell’arco di secoli. Ecco dunque che oggi, psicologi, psichiatri e neuroscienziati, che magari sono allo stesso tempo prestigiatori professionisti, o cultori della materia, si fanno promotori di una neonata “scienza della magia”. Più nell’area anglo-america che non europea o italiana. Anche se pure in Italia la disciplina viene seguita da alcuni psicologi e psichiatri, esperti o addirittura praticanti di illusionismo.

A tal proposito, ecco quanto scrivono gli psicologi e ricercatori francesi Cyril Thomas e André Didierjean nel loro articolo “La magia in laboratorio” pubblicato dal numero di questo mese (gennaio 2017) della rivista “Mente & Cervello”: «Il mago può manipolare alcuni processi cognitivi molto simili a quelli che i ricercatori hanno evidenziato. Ma il mondo della magia offre probabilmente un terreno di gioco molto più ampio, ricco e complesso di quello già esplorato. Siamo certi che lo studio approfondito dei trucchi più moderni porterà alla luce nuovi meccanismi mentali ancora sconosciuti. E siamo anche sicuri che i maghi non abbiano finito di soprenderci…».

Aggiungo di mio che i maghi non hanno di certo finito di sorprenderci, perché, come ho già scritto, la magia è darwiniana, evolutiva. Se è durata così tanto attraverso i secoli, resistendo pure alla magia di altre forme di spettacolo, come ad esempio il cinema, è in ragione del fatto che i maghi utilizzano trucchi ed espedienti vecchi come il mondo, ma nello stesso tempo li attualizzano continuamente e inglobano l’uso di conoscenze scientifiche e delle tecnologie disponibili. Oggi, ad esempio, si fanno illusioni magiche anche con smartphone e tablet. Inoltre, ritengo che lo studio della magia sia molto utile anche per la psicologia dell’inganno, rispetto alla conoscenza di come si mettano in atto truffe, imbrogli e raggiri o, in senso sociologico e di storia e filosofia delle religioni, sui meccanismi culturali e psicologici alla base della formazione delle credenze.

Vedi anche:

La magia funziona perché la coscienza è imperfetta

Psicologia e scienza della magia

Psicologia e scienza della magia: intervista a Gustav Kuhn

Psicologo e mago: a lezione da Anthony Barnhart, in arte Magic Tony

Guardare e non vedere: la cecità attentiva in uno sketch dei Monty Python

Cesare Lombroso, Woody Allen, mentalismo e spiritismo


CesareLombrosoOKNegati, bistrattati, insultati. Tacciati di truffa. Imbrogli e nefandezze ai danni del prossimo. Facendo leva sul terrore della morte. Sul senso di sgomento che ci coglie quando pensiamo alla scomparsa di quel grumo di coscienza che ognuno di noi si porta appresso. Sulla voglia di tornare a comunicare con i propri cari scomparsi. Ma seducendo in passato pure personaggi del mondo della scienza e della cultura, tra la fine del 1800 e i primi decenni del 1900. Che fecero nascere lo spiritismo, la ricerca psichica e, infine, la parapsicologia.

Facendo vivere, non solo ai sempliciotti, ma come dice Woody Allen (prossimo all’uscita del suo nuovo film Magic in the Moonlight, dedicato agli imbrogli di una sedicente e seducente medium) una nuova stagione magica anche a “gente molto famosa, come ad esempio Sir Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes” (Fulvia Caprara, La Stampa di oggi). Mentre ad Arianna Finos che lo intervista per Repubblica, sempre Woody Allen, risponde: “Sono partito dalle gesta di Houdini, famoso per aver smascherato falsi medium. Nell’America anni Venti erano molti: rubavano i soldi alla gente fingendo di comunicare con i morti, predire il futuro, possedere strani poteri. Gli intellettuali e gli scienziati potevano essere raggirati, gli illusionisti no”.

Praticamente tutte le prodezze dei sedicenti medium (e loro compari), vengono oggi riprodotte da illusionisti e mentalisti, a partire dalle illusioni spiritiche, teatrali, dei fratelli Davenport (a loro volta ispirati dalle…sorelle Fox, da cui partì la nuova religione del movimento spiritico in America). Ai mitici Davenport, è dedicato dai discendenti, il più antico, e forse più noto, negozio di magia al mondo: il Davenports Magic Shop, alla Charing Cross Underground Arcade di Londra.

E in Italia cosa accadeva? Pure qui vi furono pezzi da novanta del mondo della cultura e della scienza, attratti dal fascino dello spiritismo, ma pure, diciamolo, delle medium. Il più delle volte, donne. Che, per amore della verifica e della scienza – diciamo così – venivano fatte spogliare per controllare eventuali trucchi celati. In un epoca in cui le donne (mica come oggi) non mostravano pubblicamente manco una caviglia. I salotti medianici diventavano così una sorta di porto franco, dove vivere esperienze magiche, ma pure di vicinanza ed ispezione fisica, autorizzati dalla scienza. Nacquero, c’è bisogno di dirlo?, amorazzi clandestini tra studiosi e medium.

Uno dei personaggi italiani più noti, ancora oggi rammentato dagli storici, anche per gli aggettivi partoriti dal suo nome, fu il medico e antropologo Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale. Tra l’altro, notazione sulla città in cui vivo, Vigevano è il luogo in cui fu  incarcerato il brigante all’origine della contesa tra la Calabria e il museo Lombroso di Torino, per la restituzione del suo povero cranio (oggetto di studi “criminologici” di Lombroso, che alla conformazione delle teste, erede delle frenologia, era particolarmente attento).

Ora la Fondazione Corriere della Sera pubblica un corposo volumozzo, dall’estestica vintage, in cui vengono raccolti gli Scritti di Cesare Lombroso per il “Corriere” (1884-1908), a cura di Damiano Palano. Nella raccolta non possono mancare gli scritti di Lombro sui fenomeni ipnotici e spiritici. In particolare, nel capitolo “Eusapia Paladino e lo spiritismo” (pubblicato originariamente ne La Lettura, 1907), tratta dei fenomeni della celeberrima medium di Minervino Murge Eusapia Palladino (con due “elle”, per correttezza). Lombroso cerca di argomentare e controbattere verso “coloro che troppo ingenuamente mi chiamano ingenuo”. In un altro scritto contenuto in questo volume “Sui fenomeni spiritici e la loro interpretazione” (La Lettura, 1906), Lombroso non manca di dedicare un paragrafo anche ai possibili trucchi utilizzati dai medium.

Ma nel complesso, proprio lui che si dice refrattario allo spiritismo, tanto che, più volte invitato a farlo da colleghi ricercatori, si sottrae a lungo dal partecipare a riunioni spiritiche, alla fine si comprende, tra le righe di questi e altri scritti, che subisce il fascino di un modo misterioso, ovattato e insolito. In un tempo in cui non esistevano tv, internet e tutte le tecnologie del Davenportfantastico di oggi. Per smentire chi accusa di trucchi i medium, e agli indagatori dei fenomeni spiritici di esseri dei boccaloni, Lombroso dice, a conclusione del suddetto scritto: “La Società di studi psichici di Milano rinchiude i suoi medi completamente denudati fino al collo in un sacco di lana che impedisce ogni movimento degli arti. Cosa volete di più?”.

Qualcuno avrebbe dovuto replicare a Cesare Lombroso: vi erano illusionisti, come Houdini (non a caso antesignano dei critici del paranormale) e soparttuto i fratelli Davenport, che da legati come salami facevano di tutto. Inoltre, in quale sacco stavano i compari dei medium? Anche perché, ci sono sacchi “fisici” e sacchi “mentali”. Quelli che ognuno di noi, si crea da sé. E che Lombroso patisse una sorta di “tanatofilia”, lo si evince anche dalla collezione di crani e pezzi di corpi, umani e animali, di cui fa mostra il museo a lui dedicato a Torino. Una scienza triste, come lo erano quei tempi. In cammino verso la scienza, con tutto un retaggio di credenze irrazionali e di occultismo, al seguito.

Vedi anche:

A volte ritornano (medium). Neewsweek “Talking to the Dead: The Science of Necromancy”

Dynamo, il ragazzo che volle farsi mago. Motivazioni psicologiche della magia

Mente, cervello & pelle: la sindrome di Morgellons. Intervista alla psicodermatologa Anna Graziella Burroni


AnnaGraziellaBurroniEcco un’altra parte del nostro corpo che ha dirette connessioni col nostro cervello: la pelle. E, in particolare, con la nostra psiche. Tanto che si è sentita la necessità di creare una disciplina nella disciplina: la psicodermatologia o dermatologia psicosomatica. Questo perché la pelle non è un semplice rivestimento del nostro corpo. Bensì nasce dalla stessa matrice del nostro sistema nervoso, l’ectoderma, e con esso mantiene sempre stretti rapporti di parentela. Con la psiche ha da sempre dialoghi più o meno inconsci. Metafore che sottolineano questo stretto rapporto. “Era verde di rabbia”. “Aveva la pelle fredda e sudaticcia dall’ansia”. “E’ questione di pelle”. “Non sto più nella pelle”.

La pelle è l’organo più esterno del nostro corpo. Secondo i dermatologi, il vero specchio della nostra anima. E sulla pelle spesso si concretizzano i problemi del nostro sistema nervoso. Dei tormenti che ci portiamo dentro. Che, appunto, devono trovare uno “sfogo” all’esterno. Da studi in campo psicologico e psichiatrico, non ci sarebbe disturbo o malattia della mente che non si manifesti anche con qualche alterazione a livello dermico. Dallo stress cronico, fino alle più serie malattie mentali. E’ come se la sofferenza interiore non avesse parole per esprimersi e, nel farlo, scegliesse il linguaggio della pelle. Fino a trovare espressioni insolite e strane, come la “sindrome di Morgellons”.

Descritta per la prima volta nel diciassettesimo secolo, quando Sir Thomas Browne, uno scrittore e medico inglese , definì “Morgellons” una condizione in cui apparivano strane e improvvise eruzioni pilifere sulla schiena dei bambini. Negli anni più recenti la Morgellons è diventata la cattiva coscienza della nostra era tecnologica. La cui causa è sempre da ricercarsi all’esterno di noi stessi. Nelle tossiche e inquinanti scie chimiche disperse nei cieli dagli aerei. Se non addirittura per intervento di malintenzionati Ufo e alieni. L’uso della rete e lo scambio internazionale di informazioni, in tempo reale, ha fatto il resto. Tanto da far scrivere ai medici, sulle riviste scientifiche di dermatologia psicosomatica, che la Morgellons è estremamente contagioso: si trasmette attraverso i media. E si manifesta con la sensazione di insetti che camminano sotto la pelle. Dermatiti pruriginose e lesioni da cui fuoriescono strani filamenti. Che di solito i pazienti raccolgono in barattoli o scatolette da portare con sé quando si fanno vedere da un dermatologo. Una testimonianza fisica, da analisi di laboratorio, di una sofferenza tutta interiore. Che deve trovare parole, espressioni, in un’era tecnologica, razionale, che però non sempre riesce a rispondere alle pressioni dell’irrazionale.

E forse non è un caso che la Morgellons, come idea di malattia autodiagnosticata, si diffonda in concomitanza storico-sociale con la diffusione di massa dei tatuaggi. La pelle, l’involucro più esterno del nostro corpo, l’interfaccia tra interno ed esterno, che non è mai superficie neutra. Deve comunicare sempre qualcosa. Con i capelli, la barba, il trucco, le ferite autoinferte, i tatuaggi, le malattie e le pseudomalattie dermatologiche, come la Morgellons. La pelle è la mappa della nostra psiche.

«A me la Morgellons ha sempre affascinato», racconta Anna Graziella Burroni, docente di psicodermatologia all’Università di Genova e presidente della Società italiana di dermatologia psicosomatica,  «e ne ho parlato in diversi congressi. E’ molto attuale per noi che ci occupiamo di questi argomenti. C’è un bellissimo lavoro, recentissimo, in cui l’hanno studiata con strumenti modernissimi, i microscopi confocali, senza però arrivare a nessuna certezza. A nessun dato che possa confermare trattarsi di una vera malattia dermatologica. Ma bensì il vecchio delirio di parassitosi che, passato di moda, è stato soppiantato da questo. Fino a quando non si arriverà  a qualcosa di concreto, per la formazione che ho, devo necessariamente vederla nell’ottica di una patologia legata ad un aspetto psichiatrico di delirio».

E quando un dermatologo si trova di fronte una persona che lamenta la Morgellons, che fa?

«Mi è capitato il caso di una giovane donna», risponde Burroni, «con tutto il quadro tipico: fibromialgia, turbe del sonno, cadute di capelli, abbassamenti della vista. Il Morgellons non ha soltanto l’aspetto cutaneo: sono stati descritti fino a settantaquattro sintomi. In realtà le sue lesioni cutanee erano da grattamento e la solita scatolina che questi pazienti portano come prova dei “filamenti” usciti dal loro corpo, in realtà erano soltanto crosticine cutanee. Interpreto tutto ciò come la manifestazione di una grande sofferenza. Perché quando un paziente viene da me e porta un sintomo, mi vuole comunicare qualche cosa. E quindi, anche se il mio atteggiamento nei confronti della Morgellons è scettico, è assolutamente concreto verso la sofferenza della persona. Di conseguenza adotto una tecnica di grande ascolto per comprendere cosa può non andare nella vita di questa persona, tanto da portarla a sviluppare questo tipo di patologia. E l’aiuto che posso dare come psicodermatologa, partendo dalla cura della sintomatologia più esterna, per arrivare a curare le ragioni più profonde, anche col supporto di colleghi psichiatri e psicoterapeuti, ma sempre nel  momento maturato dal paziente».

Per saperne di più:  

Söderfeldt Y, Groß D, Information, consent and treatment of patients with morgellons disease: an ethical perspective, Am J Clin Dermatol. 2014 Apr.

Middelveen MJ, Mayne PJ, Kahn DG, Stricker RB, Characterization and evolution of dermal filaments from patients with Morgellons disease,Clin Cosmet Investig Dermatol, 2013.

Massimo Polidoro, Rivelazioni. Il libro dei segreti e dei complotti, Piemme, 2014. Capitolo “Malattie misteriose”.

Valerio Droga, Mente e corpo, cos’è la Psicodermatologia? Intervista ad Anna Graziella Burroni, presidente Sidep.

Pierangelo Garzia, introduzione a: Anna Zanardi, Psicosomatica della pelle, Tecniche Nuove, 2005. 

 

 

Si fa presto a dire placebo


RobertJütte_01Quando si tratta di medicine complementari capita si parli anche di effetto placebo. Chi dice “è tutto placebo” dell’omeopatia o dell’agopuntura, connotando negativamente, se non con disprezzo, il fenomeno. Chi dice “ma guarda che pure gli animali vengono curati con l’omeopatia e non si può certo dire che siano influenzabili dall’effetto placebo come noi”. Chi si limita a constatare che il fenomeno esiste ed ha a che fare con la suggestione. Trattando il fenomeno con sufficienza – somministrare un farmaco o un trattamento fasulli facendo credere che siano efficaci – alla stregua di un gioco di prestigio. Un inganno, però a scopo benefico.

In realtà il fenomeno è molto più complesso, ramificato e interconnesso con tutta una serie di dinamiche. Non ancora del tutto chiarite. Entrano in gioco fattori psicosomatici, l’ambiente culturale e religioso, le attese, le aspettative e le speranze verso chi ci assiste, ci cura e ci somministra medicine e trattamenti. Addirittura, tra i molteplici fattori, l’aspetto e l’arredamento in cui veniamo curati, i colori, gli odori, i profumi. Il colore e l’aspetto dei medicinali. E, naturalmente, il rapporto medico-paziente. La fiducia, l’empatia e il rispetto che riponiamo in quanti ci curano. Non solo medici, ma terapeuti in generale. Che poi sono coloro che, avendo recuperato un rapporto globale con i pazienti, spesso sopperisco alle mancanze relazionali dei medici. Magari trincerati dietro le loro scrivanie, i loro apparati tecnici. Senza il minimo contatto fisico col paziente. Dimenticando che la cura è prima di tutto relazione, accoglienza dell’altro sofferente, in senso globale. Durante l’incontro di studio sul placebo, di cui parliamo più avanti, è infatti riemerso il concetto di “trattare il paziente, non la malattia”.

Dall’etimologia della parola, derivata da un proverbio, che all’origine significava “portare qualcosa di piacevole”, il termine venne coniato dal medico e farmacologo inglese Alexander Sutherland nel 1763 e in seguito introdotto nel linguaggio sanitario dal medico scozzese William Cullen nel 1772. All’origine con placebo  non si intendeva una sostanza inerte, ma, ad esempio, un basso dosaggio di medicamento considerato, dal punto di vista medico, inefficace.

“Nel tardo 18° secolo – dice Robert Jütte – il termine ‘placebo’ entrò a far parte del gergo medico. In contrasto con l’opinione prevalente che indica il medico e farmacologo scozzese William Cullen (1710-1790) come colui che nel 1772 avrebbe introdotto  l’espressione nel linguaggio medico, il credito deve essere dato ad un altro medico inglese, Alexander Sutherland (nato prima del 1730 – morto dopo 1773). La ragione principale della  gestione del placebo alla fine del 18° secolo nella pratica medica è stata motivata dal soddisfare la domanda del paziente e le sue aspettative. Un altro motivo era l’ostinazione del paziente: la motivazione alla base di tali prescrizioni consisteva nel prescrivere farmaci inerti per soddisfare la mente del paziente, e non con il fine di fornire alcun diretto effetto curativo”.

Ad indagare i molteplici e ramificati aspetti dell’effetto placebo – dopo interi trattati e convegni sul tema – ci ha di nuovo provato, a maggio delle scorso anno, un gruppo di studiosi riuniti a Villa La Collina, sulle rive del Lago di Como. Due giorni intensi di confronto tra ricercatori, soprattutto tedeschi, su sollecitazione di Robert Jütte, storico della medicina, in particolare dell’omeopatia e dell’effetto placebo. Tra i relatori del workshop anche un veterinario, per la prima volta ad un convegno sul placebo. Come è emerso dal confronto e dalle ricerche presentate, anche gli animali risentono positivamente o negativamente (esiste anche il contrario: l’effetto nocebo) dal rapporto con il loro curante, oltre che con il loro compagno umano. Chiunque abbia un cane o un gatto sa quanto l’effetto empatico scatti con la parola, la carezza o anche semplicemente lo sguardo indirizzati all’animale domestico. L’omeopatia veterinaria, peraltro, esiste fin dagli inizi del 1800, anche se scarseggiano le pubblicazioni cliniche al riguardo.

Temi e confronti di questo incontro sono ora raccolti nell’ultimo numero di Complementary Therapies in Medicine, in cui emerge come sia necessario andare oltre l’idea lineare di malattia, guardandola invece nella sua prospettiva multifattoriale. In cui l’effetto placebo rientrerebbe nei processi di autoguarigione insiti in ognuno di noi. Di conseguenza viene ribaltata la posizione del placebo: da fatto marginale, si pone come questione centrale della medicina. Dentro questa semplice definizione, vi stanno invece una molteplicità di fattori, un intreccio vasto e variegato tra i poli medico e paziente, salute e malattia, mente e mondo esterno. Un effetto che ha a che fare con la risposta naturale dell’organismo, con ciò che ne sollecita o ne induce la risposta naturale, piuttosto che provocarla.

“Attualmente circa 2000 pubblicazioni hanno a che fare con la risposta al placebo – spiega Paul Enck, Università di Tubinga, Germania – e 150 con la risposta nocebo. Sembra vi sia una certa omogeneità della risposta in condizioni cliniche: tra il 30 e il 40% di tutte le condizioni sembrano mostrare qualche risposta placebo”.

Non è facile definire il placebo, come non lo è farlo per l’empatia, un elemento basilare nel rapporto fiduciario di cura. Per la ricerca, diventa perciò importante mettere a punto un questionario che elenchi gli elementi peculiari di ciò che definiamo empatia. Ognuno di noi chiede vi sia professionalità, competenza tecnico-scientifica, ma, allo stesso tempo,  che vi sia con il curante un “rapporto umano”. Ogni volta che veniamo trattati in modo freddo e distaccato in un ambiente adibito a ricevere e curare le persone – non soltanto dal medico, ma anche da infermieri, segretari o tecnici – ne risentiamo sul piano psicologico. Pure l’accoglienza fa parte della cura. Anzi, ne è un prerequisito fondante.

Infine, se vogliamo, come hanno scritto due studiosi del fenomeno “fino a tempi recenti, la storia delle cure mediche è essenzialmente la storia dell’effetto placebo” (Shapiro A.K., Shapiro E., The placebo: is it much ado about nothing?,
Harrington A., Ed., The placebo effect: an interdisciplinary exploration, 1997, Harvard University Press).ComplementaryMedicineT

Nella foto:  Robert Jütte

Fonti:  Complementary Therapies in Medicine, The Placebo Effect and its Ramifications for Clinical Practice and Research: An Expert Workshop, Lake Como, Italy, 4-6 May 2012, Volume 21, Issue 2, April 2013, Pages 94–97

Intervista audio a Robert Jütte sul placebo (in tedesco)

Vedi anche:  Placebome: si chiariscono gli aspetti genetici e neurofisiologici dell’effetto placebo

Il complotto dell’apocalisse


GoogleMayaOKVenerdì, 21 dicembre 2012 – The End per l’apocalisse, bye bye fine del mondo. La pacchia è finita. Nelle ultime settimane non ce l’ho fatta a tenere testa a tutto quanto appariva su giornali, fumetti, tv, libri, Rete, man mano che la data designata si avvicinava. Diciamo che mi è pure montata la noia. Ho iniziato a parlarne, ormai, più di un anno fa come di una “sindrome dell’apocalisse”. Ne ho discusso gli aspetti psicologici, antropologici, culturali.  Ho aggiunto quelli affaristici, di marketing.

Questa storia dell’apocalisse Maya verrà illustrata nei corsi universitari e nei master. Ne faranno tesi di laurea e ricerche. Su come una idea balzana abbia potuto influenzare così tanto e così a lungo a livello planetario. Le paure fanno e faranno sempre vendere. Soprattutto se ammantate di mistero. Questa è la lezione.

Ma la pacchia ora è finita. Non è finito il mondo, ma è finita la goduria per tutti coloro che ci hanno marciato sulla fine del mondo 21 dicembre 2012. Le trombe del giudizio universale non hanno suonato. Casomai risuonano in tutto il globo le pernacchie verso tutti i cultori e promotori della fine imminente. I cavalieri dell’apocalisse non sono arrivati. E’ arrivata una bella giornata di sole e ora passeranno decenni e decenni prima che qualcun altro si inventi un’altra panzana apocalittica di tale portata. Semmai sarà ancora possibile. Dato che la Rete lascia tracce imperiture e le generazioni a venire saranno autorizzate a farci grosse e grasse risate, sull’apocalisse Maya.

L’esperimento collettivo comunque è riuscito. Ora sarà la volta dei complottisti. Ci racconteranno, con dovizia di particolari, che si tratta di un esperimento messo in piedi dai servizi segreti, dagli illuminati, dal gruppo Bildelberg, dal Vaticano, dai massoni, dagli extraterrestri, dalle banche, da tutto ciò che potete supporre e immaginare di turpe e oscuro, per condizionare la mente e i comportamenti della gente a livello globale. E saranno altri libri, altri articoli, altri dibattiti tv, altri documentari, altre vuote e insulse chiacchiere. Questa volta sul “complotto dell’apocalisse”. Questa volta sull’ “esperimento apocalisse”. Fidatevi, questo accadrà. Davvero.