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Sei velcro o teflon? Come reagisci allo stress può essere predittivo del tuo stato di salute tra 10 anni


DavidAlmeida

A seconda che i problemi quotidiani, e stress conseguente, ti restino attaccati addosso come il “velcro”, oppure ti scivolino via come se tu fossi fatto di “teflon”, le ricerche più recenti sul comportamento umano, stanno stabilendo di cosa è più probabile ti ammalerai da qui a dieci anni. I tipi “velcro” e “teflon”sono un’efficace sintesi di David M. Almeida del Department of Human Development and Family Studies, Pennsylvania University. 

Lo studio, pubblicato sull’ultimo numero di “Annals of Behavioral Medicine” (Affective Reactivity to Daily Stressors and Long-Term Risk of Reporting a Chronic Physical Health Condition) indica che le modalità con le quali persone rispondono a fattori stressogeni nella loro vita quotidiana è predittivo di future malattie croniche.

Lo studio nazionale MIDUS (Midlife in the United States) intendeva indagare se una accresciuta reattività emotiva a fattori di stress quotidiano potesse essere associato al rischio a lungo termine di riportare una condizione cronica di alterazione della salute fisica. E’ stato preso in esame un campione di 435 adulti che, a metà degli anni 1990 e di nuovo 10 anni dopo, ha riferito fattori di stress quotidiani, la reattività a questi fattori di stress, e lo stato di salute fisica. 

 L’ipotesi di lavoro che l’accresciuta reattività affettiva si accompagnasse a una risposta fisiologica e, nel lungo termine, a una maggiore probabilità di manifestare una malattia cronica, ha trovato una evidenza nei risultati del campione preso in esame. 

Commento nostro: l’evidenza riguardo la correlazione tra risposta allo stress, stress cronico e malattie anche serie, nota da sempre a livello empirico, sta trovando continue conferme anche sul piano scientifico. La notizia buona, dato che ci troviamo nell’ambito della medicina predittiva, dunque della prevenzione, è che si può apprendere la regolazione emotiva e, soprattutto, gli esseri umani possono imparare tecniche di rilassamento e di meditazione adeguate alla vita occidentale. Questo è uno dei motivi, ad esempio, per cui la mindfulness sta avendo sempre più seguito, sia per i risultati pratici che per le conferme cliniche.

Mindfulness: alla ricerca della consapevolezza. Intervista allo psichiatra Alberto Chiesa


Mindfulness, un termine la cui eco risuona  sempre più nelle orecchie di psicologi e psichiatri. Ma anche del pubblico in generale. Chiunque abbia a che fare con temi relativi alla psicoterapia e alla salute mentale, non può non essersi imbattuto in quell’autentico fenomeno emergente e crescente dei nostri tempi che è la mindfulness.

Forse all’inizio avrà avuto un atteggiamento di sufficienza. Verso qualcosa che magari appariva in odore di new age, o dell’ennesima corrente di psicoterapia alla moda. Forse non ne avrà ben compreso la collocazione. Tra pratica soggettiva e applicazioni terapeutiche. Tra la meditazione per acquisire presenza e consapevolezza, e possibilità di applicazioni cliniche per ambiti di sofferenza che vanno dai più comuni disturbi psicoaffettivi, alla depressione, ma pure al dolore cronico o, addirittura, ai disturbi mentali gravi ospedalizzati.

Se poi aggiungiamo un ventaglio di possibilità di ricerca psicologica, supportate da neuroimaging e correlati neuropsicologici, l’ipotetico scettico verso la mindfluness si chiede cosa di perda a non occuparsene. La risposta non potrebbe essere più semplice e diretta: un professionista della salute mentale, sia esso psicologo che psichiatra, non può oggi non prendere in considerazione la mindfulness. E lo stesso discorso vale per educatori, insegnanti, assistenti sociali. Persone comunque interessate a come si possa portare aiuto e sostegno a se stessi e la prossimo.

Una domanda che sorge spontanea, in un’epoca di profonda crisi personale e sociale come l’attuale, è la seguente: se cominciassimo ad insegnare mindfulness nelle scuole, non ne trarrebbero beneficio le generazioni prossime e future?

I programmi di terapia basta sulla consapevolezza o MBCT (mindfulness-based cognitive therapy) raccolgono sempre più consensi, contributi, ricerche, pubblicazioni. Proprio in queste settimane è uscito, a cura dello psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Didonna, l’edizione italiana di un testo collettaneo già considerato un classico e punto di riferimento formativo, destinato a fare storia: Manuale clinico di mindfluness (Franco Angeli, nella collana diretta da Paolo Moderato).

Quarantassette autori, tra i più qualificati studiosi e praticanti della mindfulness, affrontano temi come la gestione della sofferenza nel mondo moderno, la neurobiologia della mindfluness, nonché una serie di problematiche psicologico-psichiatriche trattate con la mindfulness. Tra i quali, il rischio suicidario, il disturbo ossessivo-compulsivo, i disturbi alimentari, il disturbo borderline di personalità, lo stress e le sue conseguenze. E inoltre, ad esempio, definizioni e origini della mindfulness, la fenomenologia della mindfluness, interventi basati sulla mindfulness in oncologia.

Certo, volendo esercitare un po’ di senso critico, in questa fase di entusiasmo per la pratica mediata dalla meditazione buddhista, pare che dalla mindfulness possa trarre vantaggio ogni aspetto problematico della nostra vita psicoaffettiva. Ma è proprio così?

Mindfulness: ricchezza di dati scientifici e confusione

“Soprattutto in campo internazionale – scrive nella presentazione del “Manuale” Paolo Moderato -, ma recentemente anche in Italia, la letteratura scientifica e divulgativa che parla di mindfulness e di meditazione sta esplodendo creando ricchezza, ma anche confusione. Allo stesso modo, si moltiplicano i contesti in cui vengono offerte formazioni e occasioni di pratica. Ogni volta che si assiste a fenomeni di diffusione così rapidi ed esplosivi è importante che il singolo individuo si costruisca una visione critica personale, entrando direttamente nel merito della questione”.

Tempi inquieti portano con sé anche intuizioni e nuove soluzioni da adottare. Mindfluness ha  origini millenarie, nella meditazione buddhista. E applicazioni, sviluppi moderni in grado di aiutarci nel rapporto con noi stessi, i nostri simili e il mondo circostante. In modo più sano, sereno e consapevole. Forse il domani non sarà così tetro e privo di promesse, se gran parte della popolazione farà propri i principi educativi e i metodi applicativi che la mindfulness ci sta aiutando a scoprire e comprendere.

Uno dei principi base, su cui addestrasi è, tra l’altro: “noi non siamo i nostri pensieri”. Soprattutto quando sono fissi e negativi. Ruminanti e ossessivi. E la promessa della mindfulness è: possiamo liberarcene. Anzi, possiamo “liberarci”. Dalle pastoie di una vita fatta di ansie e angosce per raggiungere traguardi illusori. Conflitti e aggressività di rapporti malati. E una delle qualità mentali emergenti nella pratica della mindfulness è la compassione, in senso buddhista. Verso noi stessi, i nostri simili e ogni manifestazione vivente.

Cosa avrebbero da dare medici, scienziati, educatori, gente comune, politici, se praticassero regolarmente la mindfulness? E soprattutto se lo facessero psichiatri e psicologi, professionisti della salute mentale, oltre ai loro pazienti? Si genererebbe una condivisione di stati di coscienza adatti al benessere e alla guarigione, individuali e collettivi, oltre alla secolare condivisione di metodi e terminologia scientifici?

Il sogno e il desiderio di molti praticanti della meditazione del passato, che la sapienza orientale potesse incontrare ed essere d’aiuto alla scienza occidentale, in particolare quella che si occupa dei rapporti mente-corpo, si sono dunque realizzati con l’avvento dell’era della mindfulness?

Proprio per costruirci una visione personale ed entrare in modo più diretto nelle problematiche affrontate e sollevate dalla mindfulness, abbiamo rivolto alcuni di questi interrogativi allo psichiatra Alberto Chiesa. In un articolo pubblicato il mese scorso dalla rivista Mindfulness, Chiesa ha sollevato una questione centrale: se esista o meno, soprattutto tra gli addetti ai lavori, una condivisione del concetto di consapevolezza.

Se dovesse spiegare a un profano cos’è e su quali principi agisce la mindfulness?

Spiegare con precisione cosa sia la mindfulness è una questione particolarmente ardua per diverse ragioni. Innanzitutto perché il concetto originario di mindfulness è nato in Oriente oltre 2500 anni fa, quindi in una cultura e in un epoca storica molto diverse dalle nostre. In secondo luogo, perché nei secoli tale concetto è stato soggetto a numerosi arricchimenti e revisioni da parte della moltitudine di studiosi e praticanti che se ne sono occupati. Infine, va notato che il termine mindfulness è utilizzato soprattutto per indicare una particolare esperienza che si trova al di là della mente concettuale frequentemente enfatizzata nella cultura occidentale. È tipico dello Zen, una delle tradizioni di mindfulness più largamente diffuse sia in oriente che in occidente, sottolineare che quando si parla di mindfulness non bisogna fare confusione tra la luna e il dito che si usa per indicarla, cioè tra la mindfulness in se stessa e le parole che si usano per definirla.

Tenendo a mente tali considerazioni, posso provare a definire la mindfulness in parole semplici come l’atto di prestare attenzione allo scorrere dell’esperienza del momento presente, momento dopo momento, e in maniera non giudicante. Si tratta, in altre parole, del cercare di essere maggiormente presenti alle proprie sensazioni, così come ai propri pensieri ed emozioni, momento dopo momento, senza cercare di manipolarli, ma piuttosto permettendo loro semplicemente di essere e di seguire il loro corso naturale. Via via che questa capacità di essere presenti alle proprie sensazioni, pensieri ed emozioni, e alle continue relazioni che vi sono tra di essi, aumenta, il praticante sperimenta solitamente in maniera sempre più vivida come la mente concettuale e giudicante in cui solitamente siamo immersi (quella, per intenderci, in cui ci troviamo quando pianifichiamo, rimuginiamo, sogniamo) sia solo una rappresentazione, spesso molto inaccurata, della realtà che ci circonda, e non la realtà stessa, e di come esista uno stato in cui possiamo essere pienamente coscienti del fatto che non percepiamo mai il mondo “così com’è” ma continuamente filtrato dalle nostre rappresentazioni mentali.

A cosa è attribuibile questa crescente attenzione di interesse, clinico e scientifico, verso la mindfulness?

Ci sono tante ragioni che possono spiegare perché tanto la comunità clinica quanto quella scientifica si stiano occupando sempre più di mindfulness e lo stiano facendo proprio in questo periodo storico. Molto probabilmente questa improvvisa esplosione, infatti, non è casuale. Come sottolinea Kabat-Zinn, il fondatore del primo programma di mindfulness esplicitamente utilizzato per scopi clinici (la Mindfulness based Stress Reduction o MBSR), in diversi dei suoi scritti, è curioso notare il fatto che in un mondo che va sempre più veloce, che rende necessaria una sempre maggiore specializzazione a discapito della visione d’insieme, che vede nella produttività il cardine su cui reggersi, pratiche quali la mindfulness che invitano a rallentare, a prendere maggiore contatto con l’esperienza del momento presente e a notare la profonda interconnessione che lega le diverse aree del sapere e della vita suscitano sempre maggiore interesse. Probabilmente proprio perché il mondo sembra andare sempre più nella direzione opposta alla consapevolezza e sembra non tenere più conto dei ritmi insiti nella natura e nell’uomo stesso, l’utilizzo di pratiche volte a sviluppare la consapevolezza e a riappropriarsi del proprio spazio e dei propri ritmi appare quanto mai necessario. Altrimenti potrebbe arrivare il giorno in cui possiamo avere tutto ciò che vogliamo, ma non avere più né il tempo né la capacità di goderne.

Se a questo si aggiunge il fatto che la mindfulness sta attualmente colmando uno spazio precedentemente non contemplato dalla medicina tradizionale, quello dei pazienti per cui le cure non potrebbero, a detta dei medici, fare più nulla, ed il fatto che sta permettendo agli scienziati di tutto il mondo di investigare con crescente raffinatezza le più elevate funzioni cognitive dell’essere umano, inaccessibili nella maggior parte dei soggetti che non hanno un adeguato allenamento alla meditazione, si può ben comprendere come la diffusione della mindfulness possa essere non soltanto un fatto casuale, ma forse quasi inevitabile.

A dispetto del numero crescente di studi, applicazioni e pubblicazioni sulla mindfulness, nel suo lavoro lei lamenta la mancanza di una definizione univoca e condivisa di consapevolezza: a suo parere sarà mai possibile arrivarci?

È indubbio che gli studi sperimentali volti a valutare l’efficacia di interventi basati sulla mindfulness quali la già citata MBSR e la Mindfulness-based Cognitive Therapy, un approccio meditativo di gruppo che fonde i principi dell’MBSR con alcuni principi della terapia cognitivo-comportamentale, per una crescente varietà di condizioni mediche e psicologiche che spaziano dal dolore cronico allo stress da lavoro, dalla depressione ai disturbi d’ansia, siano cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi tre decenni. L’utilizzo di design metodologici sempre più dettagliati sta permettendo inoltre di mostrare con sempre maggiore certezza come gli effetti legati alla pratica della mindfulness non siano legati solo a fattori “placebo” o aspecifici, come l’aspettattiva di un beneficio, il supporto del gruppo e l’attenzione da parte di una figura di riferimento, ma siano in buona parte legati alla pratica personale di meditazione e all’incremento della propria capacità di essere maggiormente presenti alle proprie sensazioni, pensieri ed emozioni in maniera non giudicante.

Sebbene tali risultati siano certamente utili e incoraggianti, non si può negare che la difficoltà di traslare nella cultura scientifica occidentale un concetto nato in una cultura così lontana da quella moderna abbia creato molta confusione sia tra i clinici che i ricercatori. A tal fine tanto nella mia recente pubblicazione quanto in una precedente pubblicazione dove mettevo a confronto i principali interventi oggi etichettati come “interventi basati sulla mindfulness” ho cercato di mostrare quanto grandi siano tanto la confusione che permea la ricerca scientifica che si occupa di mindfulness quanto le modalità con cui la mindfulness viene praticata e insegnata in diversi approcci che vengono tutti definiti come “pratiche di mindfulness”.

Come è già stato dimostrato in molti altri campi attualmente di grande interesse, come quelli della creatività, della saggezza e dell’intelligenza emotiva, ritengo che sarà molto improbabile raggiungere una definizione univoca di mindfulness che sia condivisa da tutta la comunità clinica e scientifica che se ne occupa. Tuttavia, a mio giudizio, questo non dovrebbe far demordere le persone attivamente coinvolte in questo campo.

Sebbene l’ideale di raggiungere una definizione di mindfulness accettata univocamente rimarrà con ogni probabilità un ideale, non dobbiamo dimenticare che gli ideali sono ideali proprio perché non possono essere raggiunti. Tuttavia è lo sforzo impiegato nel cercare di raggiungerli che costituisce il progresso scientifico.

Pertanto, per quanto le moderne definizioni di mindfulness e i questionari psicometrici volti a misurarla quantitativamente possano apparire, ad uno sguardo attento, molto limitati, essi dovrebbero essere visti come un primo ma estremamente importante passo nel comprendere e trattare la mindfulness in una modalità che sia comprensibile nel contesto delle moderne strutture teoriche psicologiche occidentali.

Com’è giunto alla mindfulness?

Principalmente attraverso due vie distinte. Se mi limito al solo lato professionale, posso affermare di essere giunto alla mindfulness attraverso un lungo percorso di riconoscimento dei pregi ma anche di alcuni limiti della moderna psichiatria e psicologia nel venire incontro alle esigenze di molti individui affetti da disturbi psicologici che diventano pertanto ad alto rischio di cronicizzazione.

Parlando a livello più strettamente personale, ho iniziato ad avvicinarmi al mondo della meditazione e della mindfulness sin da quando, nei primi anni della facoltà di medicina, mi sono reso conto di quanto l’individuo in cerca di cure mediche e psicologiche non è solo una “macchina” che deve essere “riparata”, come alcuni modelli medici e psicologici riduzionisti tipici dei decenni passati hanno spesso enfatizzato.

Piuttosto gli individui affetti dalle più svariate forme di disagio fisico o psicologico, così come i professionisti della salute che se ne occupano, sono persone che vivono di speranze, di rappresentazioni che, consciamente o meno, modulano il proprio disagio o benessere attraverso le idee che se ne fanno e che, soprattutto, hanno bisogno di trovare un senso a quanto avviene in loro stessi e nel mondo che li circonda, e penso che il coltivare la mindfulness sia un eccellente modo per prendere contatto con il fluire di esperienze continuamente mutevoli che costituisce il nucleo essenziale dell’esperienza umana.

Come psichiatra e psicoterapeuta, a suo modo di vedere e in base alla sua esperienza, quali sono le migliori applicazioni cliniche?

Come ho già sottolineato in precedenza, gli interventi basati sulla mindfulness si stanno dimostrando efficaci, sia come approccio a sé stante che come trattamento aggiuntivo ad altre forme di terapia più convenzionali, per un’enorme varietà di condizioni mediche e psicologiche. Limitandomi alla mia esperienza come psichiatra e psicoterapeuta, nonché come istruttore di mindfulness e come ricercatore nel campo della mindfulness, le migliori applicazioni cliniche della mindfulness in campo psicologico riguardano innanzitutto la prevenzione delle ricadute e il trattamento di sintomi lievi e moderati in pazienti che soffrono di depressione maggiore, e il trattamento di numerosi disturbi d’ansia come il disturbo d’attacchi di panico, il disturbo d’ansia generalizzata e la fobia sociale.

Ritengo altresì che non si debba sottovalutare l’efficacia delle pratiche di mindfulness, in particolare dell’MBSR, nel campo della riduzione dello stress, un “effetto collaterale” della società moderna sempre più veloce, complessa e competitiva, e nella prevenzione del burn-out nelle figure professionali più a rischio di tale fenomeno come i professionisti della salute.

Secondo lei la mindfulness sarebbe la tanto agognata applicazione psicoterapeutica “perfetta”, nel senso di verificabile in base ai risultati ottenuti e ai correlati psicologici e neurobiologici, con gli strumenti della medicina basata sulle evidenze?

Se devo essere onesto, sono sempre restio nell’utilizzare termini come “perfetto” o “ideale” quando mantengo la mia veste di ricercatore. Certo non posso negare che, soprattutto nell’ultimo decennio, le ricerche volte a valutare gli effetti clinici e i meccanismi psicologici, neuropsicologici e neurobiologici che sottendono le pratiche di mindfulness hanno incontrato in misura sempre maggiore gli standard della medicina basata sulle evidenze.

Tuttavia, bisogna sottolineare che molte questioni critiche, come la pluralità di definizioni di mindfulness attualmente utilizzate, le significative differenze nelle modalità con cui diversi interventi basati sulla mindfulness insegnano e concettualizzano la mindfulness, senza dimenticare le importanti differenze a livello culturale e personale che esistono tra i partecipanti inclusi negli studi che valutano meditatori esperti con anni di esperienza e quelli inclusi nella maggioranza degli studi attualmente disponibili focalizzati sugli effetti della mindfulness nel breve termine, rendono difficile far supporre che la mindfulness sia la tanto agognata applicazione psicoterapeutica “perfetta”.

D’altro canto non si può negare che l’unione della capacità di descrivere in tempo reale e con estrema precisione i propri stati emotivi, fisici e cognitivi sviluppabile attraverso la pratica di lungo termine della mindfulness, e dello sviluppo di tecnologie sempre più avanzate, come si sta osservando, ad esempio, nel campo del neuro-imaging che sarà in grado in futuro di dare informazioni sempre più dettagliate sul funzionamento cerebrale a livello microscopico, potrà certamente costituire un grande passo in avanti nella possibilità di comprendere con esattezza cosa avviene nel cervello di chi pratica la mindfulness e degli influssi che tutto questo può avere sul sistema mente-corpo.

In sintesi, forse la mindfulness non può essere per ora l’agognata applicazione terapeutica perfetta, nel senso di verificabilità secondo i principi della medicina basata sulle evidenze ma ci si sta attivamente impegnando affinché possa diventare sempre più un prezioso strumento di comprensione del sistema mente-corpo investigabile secondo il paradigma scientifico moderno.

Chi è Alberto Chiesa

Medico, psichiatra, psicoterapeuta, istruttore di interventi basati sulla mindfulness (Mindfulness based Stress Reduction, MBSR e Mindfulness based Cognitive Therapy, MBCT).  Docente  presso  la  “Scuola  di  Psicoterapia  APC-SPC (Associaione di Psicologia Cognitiva – Scuola di Psicoterapia Cognitiva)”.  Dottorando  di ricerca in psicofarmacologia clinica presso l’università di Messina. Membro della European Clinical Neuropsychopharmacology association  (ECNP).  Autore di oltre 50  pubblicazioni  scientifiche,  molte  delle  quali  sul tema  della  mindfulness, e  del  libro Gli  interventi  basati  sulla  mindfulness:  cosa  sono, come agiscono, quando utilizzarli (Giovanni Fioriti Editore, 2011). Da anni pratica la meditazione Vipassana e Zen. Dal 2010 conduce gruppi di mindfulness, in particolar modo di MBCT per pazienti affetti da disturbi d’ansia e dell’umore e di MBSR per operatori della salute.

Riferimenti: 

Alberto Chiesa, The Difficulty of Defining Mindfulness: Current Thought and Critical Issues, Mindfulness, Volume 3/2012

Epigenetica, ambiente e malattie. Intervista ad Andrea Fuso


Ci sono voluti più settant’anni  per far diventare di moda il termine “epigenetica” da quando, alla fine degli anni  trenta del secolo scorso, il biologo, genetista e paleontologo inglese Conrad Hal Waddington ne introdusse il termine. Scienza giovane e di grande fascino, l’epigenetica indaga quella parte della genetica che interessa l’espressione genica, altrimenti detta fenotipo. In termini molto semplici, il gene si esprime in un modo o in un altro, in salute o in malattia, in rapporto a molteplici fattori, che comprendono tutte le interazioni che il nostro organismo ha con l’ambiente interno ed esterno. L’ambiente esterno include i nostri stili di vita, l’alimentazione, le sostanze con cui veniamo a contatto, il tipo di attività lavorativa svolta e relativi rischi professionali, lo stress cronico, ad esempio.

I cambiamenti epigenetici non comportano variazioni nella sequenza di DNA ma, piuttosto, modificazioni negli istoni (proteine di base che si legano al DNA) che compongono la cromatina, e nella metilazione del DNA (appunto una modificazione epigenetica del DNA). Vale a dire, nel caso della cromatina, di uno dei regolatori principali dell’espressione genica, centrale nella fisiologia cellulare e implicata in molte malattie, compreso il cancro. Essendo l’epigenetica un processo secondo il quale, ad esempio, i fattori ambientali agirebbero nel medio-lungo termine sull’espressione genica, senza modificare la sequenza genetica sottostante, ciò spalancherebbe prospettive enormi nell’eterno problema relativo all’interazione ereditarietà e ambiente.

Quanto contino non tanto i nostri geni, ma bensì, dunque, l’espressione dei nostri geni, in funzione delle molteplici stimolazioni, modificazioni e alterazioni indotte dall’ambiente. Quanto conti inoltre, ad esempio, la modifica dei nostri stili di vita, l’alimentazione, l’attività fisica, una terapia piuttosto che un’altra, nel modificare l’espressione genica. Ecco perché sempre più spesso, anche nella divulgazione più popolare, capiti di imbattersi nell’epigenetica in rapporto alle diete, all’invecchiamento, all’obesità, alle malattie mentali. Spesso il termine, o meglio in concetto, viene però impiegato a sproposito. Come a voler spiegare ogni meccanismo della nostra vita organica e di relazione all’ambiente – comprendente pure il rapporto con i nostri simili e i nostri comportamenti.

L’epigenetica assume, in questi casi, anche una sorta di valenza “positiva” e “liberatoria” rispetto al determinismo e alla “condanna” della genetica. In buona sostanza, dal messaggio che ne deriverebbe: non possiamo intervenire sui nostri geni (o almeno non del tutto e non ancora), ma sull’espressione genica, sì. Un anno fa Time ha dedicato al tema la copertina e un servizio, con titolo significativo: Why Your DNA Isn’t Your Destiny. Il messaggio è chiaro: il DNA non è il tuo destino, quindi puoi fare qualcosa per cambiare il tuo destino.

Ed ecco che l’epigenetica si è conquistata la ribalta in molteplici palcoscenici, compresi quelli dei guru della salute a buon mercato e tendenzialmente new age. Di pari passo sempre più lavori scientifici stanno uscendo sui rapporti tra epigenetica e malattie. Un poderoso Handbook of Epigenetics è uscito due anni fa a cura del biologo molecolare Trygve O. Tollefsbol (Comprehensive Diabetes Center, University of Alabama at Birmingham) e un nuovo volume, “Epigenetics in Human Disease” (Academic Press Elsevier), del medesimo curatore, sta per uscire proprio in questi giorni.

Abbiamo rivolto alcune domande ad Andrea Fuso, autore del ventiseiesimo capitolo (Aging and Disease: The Epigenetic Bridge) dei ventisette che compongono il volume.

Cosa aggiunge l’epigenetica alla conoscenza che già abbiamo riguardo il ruolo dei geni nella nostra vita?

L’epigenetica aggiunge un grado di complessità. E la percezione che ciò che è scritto nei nostri geni non sia immutabile, nel corso della nostra vita, ma possa essere soggetto a modulazioni dinamiche. Siamo abituati a pensare alle differenze fra individui solo sulla base delle differenze del patrimonio genetico. Invece anche le modificazioni epigenetiche, che regolano l’espressione di tale patrimonio, contribuiscono in maniera fondamentale alla definizione del fenotipo. Questa capacità implica la conoscenza del fatto che due individui con un corredo genetico identico possano sviluppare fenotipi differenti grazie alle differenze del loro “epigenoma”; in questo senso sono esemplari gli studi condotti su gemelli monozigoti che dimostrano la presenza di una deriva epigenetica fra soggetti con lo stesso genotipo. Le modificazioni epigenetiche permettono di  modulare l’espressione di un gene, e quindi della proteina da questo codificata, di vari ordini di grandezza: da una regolazione di tipo tutto-o-nulla fino a modulazioni “fini”.

A mio avviso, bisognerebbe fare attenzione a non seguire la “moda” dell’epigenetica solo per motivi di opportunità, cioè parlare di epigenetica in un progetto o una pubblicazione scientifica solo per cavalcare l’onda dell’interesse che esiste oggi intorno a questo aspetto della ricerca biomedica. E forse bisognerebbe anche definire meglio quali debbano essere considerate come modificazioni epigenetiche (oltre alla metilazione del DNA e le modificazioni istoniche, per citare le principali) perché capita di vedere indicati come epigenetici dei pathways che in realtà con l’epigenetica hanno poco a che fare.

Che indicazioni può darci l’epigenetica riguardo lo sviluppo delle malattie? E riguardo il mantenimento o ripristino dello stato di salute?

Oggi sappiamo che alcune malattie hanno una base epigenetica, e per molte altre si stanno accumulando evidenze in tal senso. All’inizio degli anni 2000 solo 3 patologie erano considerate come indiscutibilmente legate all’epigenetica: la sindrome di Rett, la sindrome dell’X fragile e la sindrome ICF. Quello che è diventato evidente negli ultimi 10 anni è che la maggior parte delle malattie multifattoriali e caratterizzate da eziologia non-mendeliana sono o potrebbero essere indotte da alterazioni dell’epigenoma. Fra queste, sono in primo piano i tumori, le sindromi neurodegenerative e, in generale, le malattie associate all’invecchiamento.

Dobbiamo pensare che l’epigenoma (l’insieme delle modificazioni epigenetiche di un organismo) viene stabilito alla fine dello sviluppo embrionale e poi mantenuto, a fronte di alcune regolazioni, durante tutta la vita dell’individuo. Nel corso della vita adulta, l’epigenoma può essere soggetto a modificazioni “non normali” che causano cambiamenti nello stato di attivazione di un gene. Per prendere l’esempio dei tumori, l’ipometilazione di un oncogene o l’ipermetilazione di un gene oncosoppressore danno luogo all’attivazione del primo e al silenziamento del secondo, creando un disequilibrio che può tradursi nell’insorgenza tumorale.

Un aspetto interessante delle modificazioni epigenetiche è che, al contrario delle mutazioni genetiche, non coinvolgono la sequenza nucleotidica del DNA e sono, per loro natura, reversibili. Questo vuol dire che sono anche potenzialmente trattabili attraverso i cosiddetti “farmaci epigenetici”, come già accade proprio per alcuni tumori. In virtù di questo, conoscere meglio le modificazioni epigenetiche e poter capire che determinati stimoli sono in grado di alterarle può diventare il primo passo verso una sorta di prevenzione.

Che rapporti ci sono tra epigenetica e stili di vita?

Esiste un rapporto molto più stretto ed esteso di quanto si potrebbe pensare. Dobbiamo abituarci a considerare le modificazioni epigenetiche come dei veri e propri “mediatori” di un gran numero di stimoli ambientali. L’ambiente in cui viviamo può infatti provocare cambiamenti nel nostro organismo attraverso vari fattori: nutrizione, stile di vita, esercizio fisico, esposizione ad inquinanti, stress di diversa natura. Per moltissimi di questi fattori è stata dimostrato che i meccanismi attraverso cui provocano dei cambiamenti sull’organismo passano tramite modificazioni epigenetiche. In molti casi si sta evidenziando che tale effetto è espletato anche in presenza di esposizioni “moderate”.

Nel caso di alcuni inquinanti, ad esempio, si sta scoprendo che dosi al di sotto di quelle che sono considerate tossiche sulla base delle precedenti conoscenze (cioè dosi che non provocano l’insorgenza di patologie gravi ed evidenti nel medio-breve periodo) sono in realtà in grado di provocare cambiamenti epigenetici responsabili dell’insorgenza di patologie nel lungo termine. Un discorso analogo si può fare per squilibri nutrizionali moderati, in presenza di deficit o sovradosaggi di nutrienti insufficienti a generare patologie ad essi associate che però causano alterazioni delle modificazioni epigenetiche.

L’esempio secondo me più eclatante viene però da studi condotti sugli effetti di stress comportamentali: si è dimostrato che far crescere animali da laboratorio in condizioni di “arricchimento ambientale” (la semplice presenza di oggetti e giochi nella gabbia) provoca l’attivazione di un gene, il BDNF, responsabile della maturazione neuronale e questo proprio tramite l’alterazione di meccanismi epigenetici. Trovo personalmente stupefacente che una differenza ambientale apparentemente così banale, e comunque in assenza di qualsiasi contatto con agenti chimico-fisici esterni, possa provocare una tale conseguenza.

L’epigenetica potrà indirizzare le terapie in modo più mirato ed efficace?

A mio avviso, più che indirizzare le terapie in modo più mirato, potrà dare vita a nuove forme di terapia. Il concetto di indirizzare le terapie mi sembra richiami alla mente più che altro una certa idea di “personalizzazione” della terapia sulla base del genotipo individuale. Nel caso dell’epigenetica, non so se si può parlare di “epigenotipo”, per il semplice fatto, sopra spiegato, che dobbiamo considerare l’epigenoma di un individuo come un carattere dinamico. Se esiste un epigenotipo individuale, magari legato ai diversi momenti della vita, ancora non lo sappiamo.

Mi sento invece abbastanza sicuro del fatto che presto l’uso di farmaci epigenetici si allargherà ad altri ambiti della medicina e della prevenzione. E in questa ottica mi sembrano di grande rilevanza gli studi volti a trovare delle correlazioni fra la nutrizione, lo stile di vita e l’epigenetica, perché configurano interventi, sia preventivi sia terapeutici, che non richiedono necessariamente l’assunzione di farmaci esogeni o di sintesi.

In quali settori delle neuroscienze vede un’utilità maggiore dell’epigenetica?

Al momento mi sembra che i settori più promettenti siano quelli relativi alle patologie psichiatriche, alle malattie neurodegenerative associate all’invecchiamento e alle patologie neurologiche dello sviluppo.

Per quanto riguarda queste ultime, oltre alle già citate sindromi di Rett e dell’X fragile, c’è da aggiungere la possibilità che l’epigenetica giochi un ruolo fondamentale nell’autismo; inoltre, stanno emergendo dati interessanti che collegherebbero deficit nutrizionali durante la gravidanza all’insorgenza  di forme di ritardo mentale più o meno accentuato. Ad esempio è noto che il deficit di folato durante la gravidanza causa difetti di sviluppo del tubo neurale con gravi conseguenze sullo stato del feto; le nuove scoperte in campo epigenetico stressano la possibilità che pur senza arrivare a deficit veri e propri, scostamenti dal range ottimale di folato possano essere alla base di alterazioni dello sviluppo neuronale.

Anche per quanto riguarda le patologie psichiatriche, prima fra tutte la schizofrenia, si stanno accumulando evidenze che indicano una causa nelle alterazioni epigenetiche cui alcuni soggetti vanno incontro nel periodo perinatale e della prima infanzia. Tali alterazioni, modificando l’espressione di geni chiave della maturazione neuronale, possono causare disturbi psichiatrici che diventano evidenti in età più adulta.

Infine, esistono dati già molto significativi che associano patologie neurodegenerative tipiche dell’invecchiamento, quali l’Alzheimer e il Parkinson, a cause epigenetiche. Per queste patologia sono già stati individuati alcuni geni target che mostrano una deriva epigenetica nei soggetti malati. Anche in questi casi si sta facendo strada la teoria che alcune modificazioni epigenetiche avvengano nelle primissime fasi della vita, rimanendo “dormienti” fino a che l’attivazione di pathways molecolari legati all’invecchiamento o l’esposizione ad altri fattori scatenanti non ne induce la manifestazione dando origine alla patologia.

Cosa si aspetta nel prossimo futuro dagli studi e ricerche in epigenetica?

Le ricerche nel campo dell’epigenetica stanno facendo degli enormi passi in avanti in questi ultimi anni, grazie anche al rinnovato interesse che si è creato intorno a queste tematiche da quando si è cominciato a capire che le modificazioni epigenetiche possono avere un ruolo in molte patologie. Pertanto mi aspetto innanzitutto che si crei un circolo virtuoso in questo senso, con le nuove scoperte che facciano da volano a sviluppare nuove ricerche. L’avanzamento tecnico permetterà inoltre di studiare sempre più in dettaglio le modificazioni epigenetiche e magari di identificarne di nuove (ad esempio sta emergendo il ruolo dell’idrossimetilazione del DNA (fino a poco fa praticamente sconosciuta).

Mi auguro che le ricerche vadano di pari passo in due sensi: quello delle analisi cosiddette “genome-wide”, in cui si studiano le differenze su un grandissimo numero di siti, e quello delle analisi sequenza-specifiche, in cui si studia nel dettaglio il pattern epigenetico di un gene e i suoi cambiamenti. Se così non avvenisse, la grossa spinta che hanno oggi le analisi su larga scala rischierebbe di rimanere sterile in quanto identificare un sito di modulazione epigenetica associato ad un gene non è sufficiente a dare informazioni funzionali.

Infine, mi aspetto che, grazie ai chiarimenti sul ruolo dell’epigenetica nelle patologie, venga considerato e studiato l’utilizzo di terapie (farmacologiche, nutrizionali o perfino “comportamentali”) mirate a ristabilire o mantenere il pattern epigenetico non-patogenico.

Chi è Andrea Fuso

Ricercatore a contratto presso La Sapienza Università di Roma, Andrea Fuso conduce la sua attività di ricerca con il dipartimento di Psicologia, sezione di Neuroscienze e il dipartimento di Chirurgia “P. Valdoni”.

E’ laureato Scienze biologiche alla Sapienza Università di Roma nel 1997 ed ha acquisito il dottorato in Enzimologia all’Università degli studi de L’Aquila nel 2001. E’ docente in corsi post-laurea presso la Sapienza Università di Roma. E’
autore di oltre 30 articoli scientifici pubblicati in riviste internazionali.

Il suo principale interesse di ricerca è incentrato sullo studio del cosiddetto “one-carbon metabolism”, o ciclo dell’omocisteina, sul ruolo della S-adenosilmetionina e sulle reazioni di metilazione, con particolare interesse per i meccanismi di metilazione del DNA in relazione alla regolazione dell’espressione genica. Nel campo delle scienze di base, studia le dinamiche dei pattern di metilazione/demetilazione del DNA ed il ruolo della metilazione “non-CpG”. A livello applicativo, studia principalmente il ruolo dell’epigenetica, della nutrizione e del ciclo dell’omocisteina nelle forme di Alzheimer sporadico (LOAD: Late Onset Alzheimer’s Disease) ed i meccanismi di metilazione del DNA nel differenziamento muscolare. Altre aree di interesse della sua ricerca riguardano il ruolo del ciclo dell’omocisteina e delle reazioni di metilazione in modelli sperimentali di sindrome di Rett, autismo, neurosviluppo e cancro.

Medicina integrata, narcisismo e altre questioni umane: intervista alla psichiatra Antonella Ciaramella


Sempre più studi su come associare la medicina accademica a quella che un tempo veniva definita “alternativa”, mentre oggi si preferisce parlare di “complementare” o “integrata”. Sempre meno detrattori di approcci alla malattia che prevedano sostanze di sintesi, ma pure terapie “dolci”, fitoterapiche, trattamenti fisici o di medicina tradizionale, stili di vita salutari, per non parlare del cibo come medicina.

Insomma, si va avverando ciò che un medico, pioniere di tale approccio nel nostro paese, Luigi Oreste Speciani, sosteneva qualche decennio fa: “Non esiste una medicina ufficiale e una alternativa. Esiste una sola medicina: quella che fa stare bene”.

Ed ecco convegni internazionali, riviste di taglio scientifico che regolarmente pubblicano studi in questo settore. Per non parlare dell’editoria, soprattutto divulgativa, sempre più cospicua. E di manifestazioni, fiere, esposizioni, produzioni industriali che hanno visto incrementare negli anni il proprio profitto. C’è infatti, indubbiamente, anche un aspetto commerciale. L’esigenza di comprendere quanto sia veramente efficace e valida la medicina integrata, e quando di moda o illusione. Come sempre, il problema non è tanto della medicina intergrata in sé, quanto di chi se ne fa promotore, utilizzatore presso i propri pazienti. In qualsiasi campo della medicina è fondamentale rivolgersi ai professionisti giusti. A maggior ragione in un campo “selvaggio” come quello della medicina integrata.

Abbiamo rivolto alcune domande sul tema ad un medico, la psichiatra e psicoterapeuta Antonella Ciaramella, già docente universitaria, tra l’altro, di medicina psicosomatica e del dolore, esperta di ipnosi medica, che a Pisa dirige, con lo psicologo Stefano Rossi, un centro di medicina integrata.

L’Istituto Gift (Gestalt Institute for Therapy), questo il nome del centro pisano di medicina integrata, i cui responsabili sono Stefano Rossi (psicologo, psicoterapeuta della Gestalt) e Antonella Ciaramella (medico, psichiatra, psicoterapeuta ad orientamento psicosomatico), vede nel proprio organico due medici, otto psicologi, un osteopata, un tecnico della riabilitazione, un musicoterapeuta, accomunati dalla stessa prospettiva di approccio alla persona sofferente.

Antonella Ciaramella organizza infine una giornata di studio sul narcisismo: le abbiamo chiesto, in coda all’intervista sulla medicina integrata, di parlarci anche di questo.

Perché ritiene utile e valido l’impiego della medicina integrata?

Nonostante le sempre più sofisticate tecniche di imaging, i complessi test sierici di valutazione del sistema endocrino-immunitario, i nuovi interventi terapeutici, si evidenzia ancora una certa discrepanza tra risorse e costi degli interventi sanitari tradizionali ed efficacia degli stessi. Così in tempi recenti l’ambito medico si arricchisce di nuove conoscenze ed è soggetto a continue trasformazioni. L’approccio clinico al paziente, fino a poco tempo fa centrato unicamente sulla Evidence based medicine (cioè basata sulle evidenze ricavate da studi clinici controllati), cambia prospettiva divenendo una medicina centrata sulla persona in cui le aspettative dei medici includono la soggettività di risposta ad un trattamento convenzionale in una prospettiva cosiddetta biopsicosociale o “integrata”.

Il medico, con questa prospettiva, inizia a valutare in maniera significativa le differenze soggettive di una manifestazione clinica e, in condizioni di patologia cronica, l’influenza delle risposte psicologiche e di adattamento comportamentale (coping) ai trattamenti medici.

In che modo la medicina integrata, e in particolare il centro che lei dirige con Stefano Rossi, affronta le problematiche dei pazienti?

La medicina integrata complementare promuove la guarigione ed il benessere mediante l’applicazione di programmi di assistenza sanitaria in cui il paziente viene trattato come una persona completa e rispettato come individuo. Nell’ottica della medicina integrata complementare il raggiungimento dello stato ottimale di salute ha come presupposto il potenziamento delle risorse individuali (empowerment).

In collegamento con laboratori specializzati del Sistema Sanitario Nazionale le persone che afferiscono all’Istituto Gift vengono incluse in percorsi personalizzati di tipo diagnostico (esami di laboratorio, radiologici, neurofisiologici, valutazioni psicofisiche) e di riabilitazione. Il tutor che segue il soggetto in tutto l’iter diagnostico-terapeutico rappresenta il “coaching per l’empowerment” individuale.

Le malattie croniche scarsamente controllate dai comuni trattamenti (es. diabete, ipertensione, patologie gastrointestinali, dolore cronico, patologie oncologiche etc) ma anche le malattie psicosomatiche (es. ulcera gastrica, asma, colite ulcerosa, eczemi, fibromialgia, dermatiti, allergie, etc.), le sindromi funzionali (tic, acufeni, colon irritabile, sindromi motorie disfunzionali etc.) ed i disusturbi psicopatologici e di personalità sono i principali motivi di accesso all’Istituto.

Colloqui psicoeducazionali, musicoterapia, tecniche di meditazione, psicoterapia, mirror therapy, riabilitazione mediante tecniche di bioginnastica, psicomotricità, shiatzu, trattamenti medici ed ipnosi sono gli interventi terapeutici che possono essere applicati individualmente o in gruppo.

Si rimprovera all’approccio della medicina integrata di essere “costosa” (trattamenti, prodotti, specialisti, sedute ecc.), non alla portata di tutte le tasche. In definitiva: la medicina integrata è soltanto per chi se la può permettere, oppure vede la possibilità di impiego e utilizzo anche, ad esempio, nelle strutture pubbliche?

Obiezione assolutamente legittima! Tuttavia vorrei dire che i pazienti che seguiamo non sono più ricchi di altri, ma investono in maniera diversa le proprie risorse economiche. Essi  hanno un background culturale diverso rispetto a coloro che continuano a rivolgersi alla medicina tradizionale. Quando parlo di cultura,  non voglio dire migliore o peggiore, voglio dire diversa.

Niente da togliere alla medicina tradizionale, che è importante ed essenziale, ma quando si parla di integrazione si parla di prendere in considerazioni variabili che possono influenzare il nostro stato di salute e che normalmente sono considerate marginali nella medicina tradizionale. Ad esempio si  pensi alla comunicazione di una diagnosi di cancro! Non da molto tempo lo psicologo è entrato a far parte dell’équipe in un reparto di oncologia. Anche il Ssn prevede dei ticket e, specie in alcune condizioni, gli accessi dei pazienti alle strutture pubbliche sono numerose, con un certo costo totale, senza trovare risoluzione. Un punto di vista diverso, anche culturale, può permettere di affrontare la malattia in un altro modo.

Quindi, quando mi si dice se la medicina integrata è alla portata di tutti, rispondo che è alla portata di chi lo vuole. 

Vorrei aggiungere che la regione Toscana è una delle più sensibili al problema e l’umanizzazione fa parte dei valori descritti nel piano sanitario regionale 2008-2010.

 Riferimenti bibliografici

Jozien Bensing. Bridging The gap. The separate worlds of evidence-based medicine and patient-centered medicine. Patient Education and Counseling 39 (2000) 17–25

Butterworth SW. Influencing patient adherence to treatment guidelines. J Manag, Care Pharm. 2008 Jul;14(6 Suppl B):21-4.

Seminario di studio sul disturbo narcisistico

Il 24 marzo a Pisa, l’Istituto Gift (Gestalt Institute for Therapy) promuoverà un convegno dal titolo: “Il disturbo Narcisistico. Evoluzione della diagnosi e modelli di intervento in psicoterapia” il cui scopo è quello di far incontrare esperti nella comune ricerca di quel confine tra normalità e patologia legata al concetto di disturbo narcisistico.

Parteciperanno relatori di fama nazionale ed internazionale come Antonio Puleggio, psicologo,  autore del libro “Identità di sabbia. Disturbi evolutivi nell’epoca del narcisismo”. Paolo Migone psichiatra, condirettore della rivista “Psicoterapia e scienze umane”. Arianna Luperini, psicologa, membro della Società psicoanalitica italiana. Sandra Vannoni presidente dell’Ordine degli psicologi della Toscana. Pietro Pietrini, neuroscienziato e ordinario all’Università di Pisa, membro dell’editorial board di “NeuroImage, Experimental Biology and Medicine”.

Insieme ai propri ospiti, i due responsabili dell’Istituto Gift, Stefano Rossi, psicologo didatta della Fondazione Italiana Gestalt e Antonella Ciaramella, psichiatra, membro della Icpm (International College of Psychosomatic Medicine) e della Società italiana di ipnosi (Sii) cercheranno di dimostrare l’appropriatezza dell’esclusione, così come prospettata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm V), di tale quadro clinico dai disturbi mentali.

 Ci illustra scopi, contenuti e finalità del convegno che terrete sul narcisismo?

Nella nostra attività psicoterapeutica ci troviamo a confrontarci quotidianamente con un problema di sofferenza legata al disturbo narcisistico.

La progressiva evanescenza dei contatti reali e dei valori sociali condivisi, la riduzione della capacità empatica di mettersi “nei panni dell’altro” hanno creato il presupposto per rendere normale ciò che fino ad ora veniva considerato patologico: il disturbo narcisistico.

Nel libro “The narcissism epidemic: living in the age of entitlement” JM Twenge e WK Campbell (2010) esaminano l’ampia ed inarrestabile diffusione nella nostra cultura del narcisismo tanto che per tale motivo verrà eliminato nella prossima edizione del “The Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Dsm V)”.

Questi due autori annoverano tra le difficoltà discriminative di narcisismo fisiologico e patologico: a) la discrepanza tra l’alta frequenza nella diagnosi di disturbo narcisistico di personalità in ambito clinico e la scarsa prevalenza riscontrata in studi epidemiologici; b) l’ attenzione, nella attuale classificazione del Dsm IV, rivolta a schemi esterni di funzionamento interpersonale e sociale a discapito della complessità interna e della sofferenza individuale; c) la bassa validità discriminante del costrutto; d) la scarsa stabilità nel tempo del disturbo, criterio necessario per identificare un disturbo di personalità (comportamento maladattivo persistente).

Ha ancora senso dunque parlare di disturbo narcisistico? Questo quadro clinico è ormai diluito in una normalità che ha incorporato i modi narcisistici di essere nel mondo?

 Per quanto riguarda i contenuti,  al convegno parteciperanno relatori con diverso background scientifico.

I modelli culturali narcisitici e le sue influenze sulle relazioni significative verranno trattati nella relazione introduttiva di A. Puleggio psicoterapeuta sistemico relazionale. Gli aspetti narcisistici della professione dello psicoterapeuta verranno esaminati da S. Vannoni (presidente dell’albo della regione Toscana degli psicologi). Il narcisismo fisiologico nel normale decorso dello sviluppo sessuale sarà discusso dalla psicoanalista A. Luperini. La storia del concetto di narcisismo verrà illustrata da P.Migone, psichiatra, psicoteraputa. Le basi neurobiologiche della psicopatologia del disturbo narcisistico verranno illustrate da P. Pietrini professore ordinario Medicina e chirurgia di Pisa. L’evoluzione della diagnosi, i criteri diagnostici e gli strumenti di valutazione verranno illustrati dalla sottoscritta. Le tecniche psicoterapeutiche nel trattamento del disturbo narcisistico verranno illustrate da M. Menditto, presidente della fondazione Italiana di Gestalt.

Per quanto concerne le finalità del convegno, è la disamina del concetto di narcisismo fisiologico e patologico, fornendone una migliore identificazione. Il convegno, inoltre, è preliminare al relativo corso di approfondimento teorico esperenziale in cui verranno esposti alcuni modelli di intervento psicoterapeutico.

Il mito narra che Narciso era un giovane di rara bellezza e amato dalle ninfe, ma le ricambiava con cinica indifferenza. La dea Nemesi lo punì per la sua insensibilità e durezza d’animo. Lo fece innamorare della sua immagine riflessa in un lago: per abbracciarla, Narciso si tuffò e annegò. Sul lago crebbe un fiore col capo chino, che da lui prese il nome (Ovidio, Metamorphoseon libri XV).

La nostra cultura è strutturata sul bisogno di successo, visibilità, in cui l’immagine e l’apparenza rappresentano i valori più importanti. Il bisogno di piacere e di farsi amare non è mai soddisfatto. E così come Narciso, gli esseri umani dell’era contemporanea sono insensibili e diprezzano chi li richambia in ammirazione ed amore in quanto mai appagati. A livello culturale il Narciso può essere inteso come una “perdita di valori umani”. Viene a mancare l’interesse per l’ambiente, per la qualità della vita, per i propri simili.

Una società che sacrifica l’ambiente naturale al profitto e al potere rivela la sua insensibilità, per le esigenze umane. La cultura del narcisismo lascia gli individui, a livello profondo, con un senso di vuoto, incertezza, insoddisfazione cronica, latente depressione (il fiore con il capo chino).

Il disturbo narcisistico è dal 1980 (Dsm o Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) definito come un disturbo di personalità le cui caratteristiche principali sono: a) grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), b) necessità di ammirazione, c) mancanza di empatia.

Parliamo di soggetti che generalmente si rivolgono ad uno psicoterapeuta per la profonda sofferenza individuale che non è mai apparente. La progressiva evanescenza dei contatti reali e dei valori sociali condivisi, la riduzione della capacità empatica di mettersi “nei panni dell’altro”, hanno creato il presupposto per rendere normale ciò che fino ad ora veniva considerato patologico: il disturbo narcisistico. Le caratteristiche comportamentali dei soggetti con questo disturbo rendono difficile il confine con la normalità dell’individuo contemporaneo, tanto che nella nuova classificazione del Dsm non verrà più classificato come tale.

Ha ancora senso dunque parlare di disturbo narcisistico? Questo quadro clinico è ormai diluito in una normalità che ha incorporato i modi narcisistici di essere nel mondo? E se i paradigmi del quadro clinico, come quelli della società, sembrano essere reciprocamente mutati, come si è modificato il relativo fare terapeutico?

Interstress: intervista ad Andrea Gaggioli


Una nuova categoria di psicologi sta avanzando nell’approccio alle problematiche psichiche dei nostri tempi. Sono gli psicologi digitali. Hanno messo da parte lettini e poltroncine degli analisti classici, per sfruttare le nuove tecnologie informatiche. Usano tablet, smartphone, pc. Sviluppano assieme agli informatici programmi di realtà virtuale, applicazioni per i vari strumenti digitali di cui facciamo uso e che ci seguono fedelmente ogni giorno. E’ l’altra faccia della medaglia delle nuove tecnologie. Gli stessi mezzi da cui ci facciamo stressare, inseguire, raggiungere ad ogni ora del giorno e della notte, possono essere utilizzati per alleviare lo stress.  Uno di questi psicologi di nuova generazione, votato a utilizzare sul versante positivo le nuove tecnologie, è Andrea Gaggioli. Gaggioli si sta ad esempio occupando del progetto Interstress.

 In cosa consiste il progetto Interstress?

 Le persone spesso non si rendono conto dei sintomi dello stress e intervengono troppo tardi per porvi rimedio. Questo perché non è facile decodificare il “linguaggio del corpo”. Per rispondere a questo bisogno, stiamo sviluppando il progetto Interstress. Si tratta di un progetto finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del Settimo programma quadro della ricerca, che si pone l’obiettivo di sviluppare e testare tecnologie avanzate per la valutazione e la gestione dello stress psicologico, mediante l’uso di biosensori indossabili, smartphone e strumenti tipici dell’analisi comportamentale. Il team internazionale è costituito da psicologi, ingegneri e informatici esperti nell’analisi dei biosegnali.

In cosa consiste e quali funzioni avrà la app? Quando si renderà disponibile?

La “suite” di applicazioni mobili Interstress sarà fruibile su smartphone e tablet (prima su piattaforma Android, quindi su iOS – iPhone/iPad) e sarà caratterizzata da due funzionalità principali: detezione automatica delle situazioni di stress psicologico in situazioni di vita quotidiana (es. in mobilità, sul lavoro, ecc) attraverso sensori wireless indossabili che misurano il battito cardiaco e la respirazione (simili a quelli già in commercio per il fitness); sistema di allerta e supporto motivazionale per migliorare la capacità della persona di gestire efficacemente i sintomi dello stress. I principali benefici sono: la possibilità di monitorare in modo non invasivo lo stress e prevenire i rischi ad esso correlati; valutazione obiettiva dello stress in situazioni di vita quotidiana grazie a biosensori che consentono di misurare i correlati fisiologici dello stress; “personal digital trainer” per aiutare la persona a diventare maggiormente consapevole delle situazioni stressogene e sviluppare adeguate abilità per fronteggiarle. Le app sono in una fase avanzate di prototipazione e l’avvio dei test di laboratorio è previsto per marzo 2012, mentre la prima release pubblica del prototipo è prevista per fine settembre 2012, in occasione del convegno internazionale Cybertherapy 2012, sulle applicazioni delle nuove tecnologie nella terapia, che si svolgerà a Brussels.

Andrea Gaggioli, coordinatore del progetto Interstress, è ricercatore presso l’Istituto Auxologico Italiano, dove fa parte del team di ricerca di Giuseppe Riva, e presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, dove svolge anche attività di docente. Il suo principale interesse di ricerca riguarda la Tecnologia Positiva, ovvero lo studio delle applicazioni delle tecnologie emergenti al benessere psicologico.

Info:

www.interstress.eu 

www.positivetechnology.info 

Filmato full hd sul progetto Interstress

Dormi che ti passa. Il sonno regola le emozioni


Come vi svegliate dopo una buona notte di sonno? Calmi, riposati, sereni, positivi? Bene, oggi c’è la dimostrazione sperimentale del fatto che una bella dormita, accompagnata da altrettante buone fasi Rem (quelle in cui si sogna, mediamente 3 o 4 in un sonno di 8 ore, con cadenze di 90 minuti) diminuisca l’attività dell’amigdala. Situata al centro del cervello, nel lobo temporale, l’amigdala controlla l’intensità e la risposta emozionale. Nell’osservazione quotidiana, è facile constatare come il sonno si leghi al nostro stato emotivo. Ed altrettanto è stato constatato in ambito clinico, relativamente ai disturbi dell’umore. In particolare nella depressione, nell’ansia e nello stress.

Gli stati d’ansia influenzano negativamente la buona qualità del sonno, e viceversa. In questi casi si innesca un circolo vizioso così che non dormendo bene si è nervosi e ansiosi durante il giorno, e successivamente insonni, o mal dormienti, durante la notte. L’altro legame molto stretto tra stati affettivi, sonno e sogni, è verificato da tempo nella depressione. Non è tuttora ben chiaro, ad esempio, perché la deprivazione controllata del sonno, in ambiente medico, sia efficace negli stati depressivi. Ciò che viene da supporre è proprio questo legame tra la fase Rem (detta anche “sonno paradosso”), l’amigdala e, probabilmente, il riattivarsi e consolidarsi, attraverso l’ippocampo, di emozioni negative durante il sonno.

In sostanza, il sonno sarebbe terapeutico in transitori stati d’ansia e di nervosismo, per smaltire le tensioni della giornata. Ma se invece ci troviamo di fronte a conclamati e protratti disturbi dell’umore, come la depressione, le cose vanno diversamente. Molti depressi, ad esempio, lamentano regolarmente stanchezza, apatia, sonnolenza, e dormirebbero di continuo. Senza però trarne beneficio. Anzi. Che il sonno non sia uno stato, ma invece più simile a un comportamento è opinione sempre più diffusa tra gli scienziati del sonno.

La ricerca condotta e pubblicata di recente dal team del neuroscienziato Matthew Walker, direttore dello Sleep and Neuroimaging Laboratory dell’Università di California, Berkeley, mostra come il cervello delle persone che hanno potuto godere di una buona notte di sonno sia meno reattivo, sul piano emozionale, di quello di altrettanti volontari tenuti svegli per l’intero periodo notturno.  L’attività del cervello dei soggetti dormienti e non dormienti è stata registrata attraverso scansione con risonanza magnetica funzionale (fMRI). In pratica ai due campioni di soggetti venivano mostrate immagini emotivamente cariche, osservando e registrando come reagisse la loro amigdala. I soggetti che avevano beneficiato del sonno mostravano una intensità emotiva alle immagini inferiore, anche alla ripetizione dell’esperimento dopo 12 ore, rispetto a coloro che erano stati svegli.

Nel lavoro pubblicato da Current Biology Matthew Walker e collaboratori ritengono di aver dimostrato come il sonno Rem contribuisca a una “dissipazione” di carica emozionale da parte dell’amigdala, in risposta a precedenti esperienze emozionali (della giornata o di periodi precedenti). Tutto ciò si tradurrebbe in una minore emotività soggettiva, il giorno successivo. Torna quindi la vecchia idea di sonno e sogno come pulizia, “resettaggio” e “messa a punto” del cervello e delle funzioni neuronali.

Il sonno e il sogno, di buona qualità, avrebbero dunque anche il ruolo di sopprimere, temporaneamente, il ruolo dei neurotrasmettitori adrenergici centrali, comunemente implicati – dicono gli autori di questo lavoro – nell’eccitazione e nello stress, assieme all’attivazione di amigdala e ippocampo. Reti neurali che codificano e memorizzano  le esperienze salienti (consolidamento della memoria attraverso le emozioni, ad esempio) , avendo quindi anche il ruolo di potenziarle e depotenziarle sul piano dell’intensità emotiva.

Vedi anche: Sonno ed emozioni. Intervista a Carolina Lombardi