• Maggio: 2023
    L M M G V S D
    1234567
    891011121314
    15161718192021
    22232425262728
    293031  
  • Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog e ricevere notifiche di nuovi messaggi per e-mail.

    Unisciti a 1.677 altri iscritti
  • Statistiche del Blog

    • 642.233 hits
  • Traduci

Invecchiare in salute: intervista a Guido Kroemer, vincitore del premio “Lombardia è Ricerca” 2019


OLYMPUS DIGITAL CAMERAGuido Kroemer: è lui il vincitore del premio “Lombardia è Ricerca” di un milione di euro, di cui il 70 per cento verrà investito in ricerca in collaborazione con centri di eccellenza lombardi. Il tema di quest’anno è l’healthy ageing (invecchiamento in salute) e la cerimonia per la consegna del premio avverrà tra pochi giorni, venerdì 8 novembre al Teatro alla Scala di Milano. Ma perché Guido Kroemer? La risposta è nella mole delle sue ricerche scientifiche e delle sue pubblicazioni dedicati ai meccanismi biologici e molecolari che portano all’invecchiamento, con la sequela di conseguenze patologiche che ben sappiamo.

Una costante, quasi una ossessione nei lavori di Kroemer è il “fattore tempo”, tanto da fargli affermare: «Secondo me, il fattore di rischio più importante, sebbene trascurato, di tutte le principali malattie è il tempo. Di conseguenza, la ricerca sull’invecchiamento e la modulazione di questo parametro dovrebbe essere la massima priorità della ricerca biomedica».

A prima vista potrebbe sembrare una tautologia. Come potremmo infatti contrastare il fattore tempo? Imbarcandoci su una macchina del tempo a ritroso negli anni, per ringiovanire? In realtà, leggendo i lavori scientifici di Kroemer si comprende che egli intende riferirsi non tanto al fattore tempo in quanto entità fisica, ma bensì a ciò che lo scorrere del tempo produce sul nostro organismo, sui componenti delle nostre cellule. L’atro fenomeno a cui Kroemer ha dedicato e dedica la sua attenzione di scienziato nel campo biomolecolare dell’invecchiamento, è l’autofagia.

Orologi biologici e invecchiamento

Prendiamo un paio dei lavori scientifici più recenti che recano anche la sua firma. Il primo si intitola “Decelerazione dell’invecchiamento e degli orologi biologici mediante l’autofagia”. Ed ecco che otteniamo già un primo chiarimento. Non si sta parlando di eliminare il fattore tempo. Come mai si potrebbe? Ma bensì di “decelerare”, rallentare gli orologi biologici e, di conseguenza, l’invecchiamento. Ecco un secondo chiarimento. Che è sotto gli occhi di tutti.

C’è un tempo “esterno”  (i giorni, i mesi e gli anni che passano) e c’è un tempo “interno” (quello delle nostre cellule e dei nostri orologi biologici). Gli orologi biologici che ognuno di noi porta dentro di sé e che scandiscono il tempo, ma soprattutto la modalità della nostra vita, non battono tutti allo stesso modo. Avete presente quando diciamo: “Come sei invecchiato bene” oppure “Com’è invecchiato male?”. Il tempo non scorre in modo uguale per tutti. C’è un tempo fisico e c’è un tempo biologico. C’è soprattutto una età biologica che non è uguale per ciascuno di noi. I fattori che ci fanno invecchiare sono tanto esterni quanto interni e dipendono, come sappiamo, dalla genetica, ma pure dall’epigenetica (sani stili di vita, corretta nutrizione, movimento adeguato all’età, giuste ore di sonno, astenersi da  sostanze tossiche, gestione dello stress, spazi per il rilassamento e la meditazione, ambienti ecologicamente sani). Sull’autofagia, abbiate un attimo di pazienza, e ci faremo rispondere dallo stesso Guido Kroemer.

In questo lavoro a firma di Kroemer e del biochimico e biologo molecolare spagnolo Carlos Lopez-Otín (Departamento de Bioquímica y Biología Molecular, Facultad de Medicine, Instituto Universitario de Oncología del Principado de Asturias, Universidad de Oviedo, Oviedo, Spagna) si dice: «L’invecchiamento è il fattore di rischio più importante per la maggior parte delle patologie umane. Proponiamo il concetto che l’avanzamento dei tratti distintivi dell’invecchiamento è dettato da diversi distinti orologi biologici che possono essere rallentati dall’induzione dell’autofagia. Questa “dilatazione del tempo” ritarda la manifestazione dipendente dal tempo di più malattie».

Troppi carboidrati fanno male 

Il secondo recente lavoro a firma di Kroemer e di altri ricercatori (ne diamo gli estremi in bibliografia di questa pagina) è dedicato ai rapporti tra nutrizione e invecchiamento: “Carbotossicità: effetti nocivi dei carboidrati”. Anche qui troviamo un chiarimento, già dal titolo, sul fatto che ci possono essere un invecchiamento precoce e uno invece ritardato anche in funzione ci ciò che mangiamo. Del carburante, tossico o sano, che introduciamo nel nostro organismo e, di conseguenza, nelle nostre cellule.

Non dimentichiamo mai che cibi e bevande, alla fin fine, sono composti chimici che introduciamo nel nostro corpo. E in questo lavoro, in sintesi, si dice: «La nutrizione moderna è spesso caratterizzata dall’assunzione eccessiva di diversi tipi di carboidrati che vanno dai polisaccaridi digeribili agli zuccheri raffinati che mediano collettivamente effetti nocivi sulla salute umana, un fenomeno che chiamiamo “carbotossicità”. Prove epidemiologiche e sperimentali combinate con studi clinici di intervento sottolinea l’impatto negativo dell’assunzione eccessiva di carboidrati, nonché gli effetti benefici della riduzione dei carboidrati nella dieta. Discutiamo i meccanismi molecolari, cellulari e neuroendocrini che collegano l’assunzione esagerata di carboidrati alla malattia e l’invecchiamento accelerato mentre delineiamo strategie dietetiche e farmacologiche per combattere la carbotossicità».

Ma ora è venuto il momento di lasciare la parola a Guido Kroemer.

Professor Kroemer, come spiegherebbe il fenomeno dell’autofagia a chi non ne sa nulla? Perché è così importante?

Il nostro organismo è composto da cellule. Ogni cellula è come una città con le sue infrastrutture. Ovviamente si devono collezionare le spazzature per il loro riciclaggio. Ma perché una città possa sopravvivere a lungo termine, da una parte si devono distruggere le case e le strade vecchie, dall’altra occorre ricavarne gli elementi utili e utilizzarli per costruire degli edifici e delle vie nuovi. L’autofagia permette la demolizione selettiva delle strutture cellulari disfunzionali o condannate, per il loro riciclaggio e ricostruzione posteriori. È un meccanismo di mantenimento e anche di ringiovanimento cellulare.

Cosa significa nella pratica quotidiana attenersi a una “restrizione calorica”? Quali patologie ne risentono positivamente? In quali età è indicata? Quali pregi e difetti avete riscontrato?

La restrizione calorica consiste nella riduzione delle calorie assunte, senza malnutrizione, cioè senza privazione di micro-nutrimenti essenziali (vitamine e oligo-elementi). È stata studiata soprattutto negli animali di laboratorio, in particolate nel  topo. Si sa che la restrizione calorica e una strategia per aumentare la longevità del topo e per ritardare l’avvenimento della maggior parte delle patologie, il cancro, i problemi cardiovascolari, le malattie neuro-degenerative, tra le altre.

Per l’essere umano sappiamo che l’obesità accelera l’invecchiamento e di conseguenza precipita la manifestazione delle malattie oncologiche, cardiovascolari e degenerative. È una evidenza epidemiologica. Però in quanto alle raccomandazioni dietetiche, la mia prima parola è “cautela”. Sono biologo molecolare e cellulare. Lavoro con animali di laboratorio. Non ho fatto nessun esperimento sugli umani, ossia uno studio clinico. Posso dare soltanto dei consigli di “buon senso”. È ovvio che si deve evitare l’obesità, soprattutto l’assunzione di troppi carboidrati (zucchero, pane, pasta, patate) e di cibi industriali ultra-processati e ricchi in acidi grassi trans, che inibiscono l’autofagia, quel fenomeno di ringiovanimento cellulare che studio. Al contrario dobbiamo favorire i comportamenti che possano indurre l’autofagia: un regime equilibrato senza eccessi calorici, variato, senza zucchero aggiunto, senza dolci, ma fare invece uso di verdura, legumi e frutta. Una buona abitudine sarebbe aumentare il tempo fra i pasti, saltare la colazione, magari anche il pranzo, evitare gli snack e le merendine, praticare una attività fisica moderata è frequente di almeno 30 minuti al giorno, non fumare. E diciamo addio allo stereotipo della nonna che rimpinza i nipoti… Per eccellere nel campo della salute e della longevità non si deve eccedere.

Tutto ciò è utile per la prevenzione, ma non si applica alle malattie già conclamate. Il malato deve seguire i consiglio del suo medico invece di auto-medicarsi e di seguire delle diete miracolose trovate su internet. Ogni caso è differente e ci sono delle condizioni in cui la restrizione calorica può essere pericolosa.

Che ruolo hanno i mitocondri sul nostro stato di salute e sui processi di invecchiamento?

I mitocondri sono gli organelli che producono l’energia cellulare. Funzionano come delle centrali termoelettriche e la loro efficacia si riduce con il tempo, con un effetto diretto sul nostro rendimento fisico. Perlopiù i mitocondri vecchi hanno la tendenza a disintegrarsi, inquinando l’ambiente cellulare e causando delle reazioni infiammatorie e perfino la morte cellulare, contribuendo al declino degli organi. I mitocondri devono riciclarsi mediante l’autofagia per mantenere la loro funzione e per evitare la loro decomposizione.

A che punto siamo con le conoscenze epigenetiche? Che percentuale alla genetica e quanto all’epigenetica nella salute e nella malattia?

Certo, esistono delle malattie geneticamente trasmesse dai genitori alla loro discendenza, le malattie genetiche acquistate attraverso delle mutazione precoci, le predisposizioni ereditarie che aumentano il rischio di ammalarsi… Ma nella stragrande maggioranza dei casi, la salute si mantiene o si perde in funzione dell’ambiente in cui viviamo, in funzione della nostra igiene di vita.

Se oggi possiamo “rallentare” l’invecchiamento, qualcuno sostiene che arriveremo a “invertire”, se non “azzerare”, l’orologio biologico dell’invecchiamento: lei che ne pensa?

Nella letteratura scientifica ci sono dei casi rapportati d’inversione del processo del invecchiamento mediante l’eliminazione delle cellule senescenti o la riprogrammazione delle cellule verso uno stato staminale. Ma non sappiamo ancora si questi procedimenti altamente sperimentali, sviluppati dal topo, potranno applicarsi nell’uomo. Per me, la speculazione sull’annientamento dell’invecchiamento rimane fantascienza.Healthy_Ageing _NEUROBIOBLOG.jpg

Un commento sul premio “Lombardia è Ricerca” che sta per ricevere

Sono molto contento, anzi lusingato di ricevere questo premio, forse quello più importante in Italia, perlomeno dal punto di vista economico. È un premio che ricompensa il lavoro sull’invecchiamento in salute – healthy ageing. E precisamente questo è il campo che mi affascina di più.

Chi è Guido Kroemer

Nato in Germania, di nazionalità austriaca e spagnola, Guido Kroemer è professore alla Facoltà di Medicina dell’Università di Paris Descartes, direttore del team di ricerca “Apoptosis, Cancer and Immunity” del French Medical Research Council (INSERM) e direttore del “Metabolomics and Cell Biology platforms of the Gustave Roussy Comprehensive Cancer Center”.

Due domande al prof. Peter Schwartz direttore del Centro per lo Studio e la cura delle aritmie cardiache di origine genetica dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano e dal 2017 uno dei 15 top scientists italiani che compongono la Giuria del Premio “Lombardia è ricerca” di Regione Lombardia. 

Professor Schwartz, cosa significa “invecchiare in salute”? A che punto siamo con la ricerca sull’aging?

Per me vuol dire che nonostante il passare degli anni le cose cui si deve rinunciare sono poche e, se mai, più dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
La ricerca è un processo in divenire e le scoperte di Kromer stanno aprendo molte porte.

Quali ritiene siano i maggiori meriti scientifici di Kroemer, che avete premiato quest’anno?

Il suo merito maggiore è l’aver compreso, e dimostrato, che un processo fondamentale per rallentare l’invecchiamento come l’accelerazione dell’autofagia (l’auto-distruzione cellulare che accelera il ricambio) può essere attivata mediante riduzione dell’intake alimentare, soprattutto di carboidrati. L’importanza dell’autofagia, e le sue basi genetiche, avevano già portato al premio Nobel il ricercatore giapponese Yoshinori Ōsumi nel 2016

Giornata della Ricerca 2019 dedicata a Umberto Veronesi – Programma del premio “Lombardia è Ricerca”

Motivazione del premio internazionale “Lombardia è ricerca” 2019 a Guido Kroemer

Lavori citati

Lopez-Otín, C., Kroemer, G. Decelerating ageing and biological clocks by autophagy. Nat Rev Mol Cell Biol 20, 385–386 (2019) doi:10.1038/s41580-019-0149-8

Kroemer G, López-Otín C, Madeo F, de Cabo R. Carbotoxicity-Noxious Effects of Carbohydrates.Cell. 2018 Oct 18;175(3):605-614. doi: 10.1016/j.cell.2018.07.044.

L’obesità toglie il respiro


ObesitàRespiroL’obesità porta con sé conseguenze multiple, su diversi organi e apparati.  Sono ben note le difficoltà e le vere e proprie patologie respiratorie da cui sono interessate le persone affette da sovrappeso e obesità. Ma quali sono le vere cause?

Un nuovo studio pubblicato in forma preliminare dall’European Respiratory Journal  mostra per la prima volta che disturbi respiratori come l’asma e in generale le malattie respiratorie ostruttive potrebbero avere una correlazione con la presenza di tessuto adiposo trovato nei polmoni di persone in sovrappeso e obese. Tale quantità di grasso aumenta a seconda dell’indice di massa corporea.

Un commento allo studio dice: “L’aumento del contenuto di grassi sembra alterare la normale struttura del tratto respiratorio e causare infiammazione nei polmoni, il che può spiegare l’aumento del rischio di asma nelle persone in sovrappeso o obese. La relazione potrebbe essere spiegata dalla pressione diretta del sovrappeso sui polmoni o da un generale aumento dell’infiammazione in sovrappeso. L’eccesso di grasso nelle pareti delle vie aeree rende difficile la respirazione e favorisce l’infiammazione, che limita il flusso d’aria nei polmoni e almeno in parte spiega un aumento dei sintomi dell’asma”.

Occorrono ulteriori studi per capire se la perdita di peso può portare a un miglioramento di tali condizioni, ma ancora una volta va rilevato il ruolo dell’infiammazione, innescata dal tessuto adiposo, nel determinare o aggravare anche tali malattie respiratorie.

Il commento del pneumologo Paolo Fanari 

«In effetti esistevano già dati sulla maggior presenza di iperreattività bronchiale e conseguente asma in correlazione con l’indice di massa corporea (BMI) elevato dei pazienti», commenta il pneumologo Paolo Fanari, direttore dell’Unità operativa di pneumologia e riabilitazione pneumologica dell’Auxologico di Piancavallo. «Questo dato si aggiunge ad altri relativi all’infiammazione presente a livello bronchiale. Da parte nostra all’inizio della nostra attività a Piancavallo avevamo testato la reattività bronchiale con metacolina ad un gruppo di soggetti obesi senza riuscire purtroppo a raccogliere abbastanza dati che in effetti andavano verso la stessa direzione».

Fatty Airways: Implications for Obstructive Disease. John G. Elliot, Graham M. Donovan, Kimberley C.W. Wang, Francis H.Y. Green, Alan L. James, Peter B. Noble. European Respiratory Journal 2019; DOI: 10.1183/13993003.00857-2019

Perché le diete non funzionano? L’effetto iatrogeno della restrizione cognitiva


PesoLe Scienze di questo mese pubblica un articolo dal titolo significativo: “Le verità confuse sulla perdita di peso”. Ne sono autrici Susan B. Roberts e Sai Krupa Das entrambe del Jean Mayer USDA Human Nutrition Research Center on Aging alla Tufts University (Medford/Somerville, Usa). Il fatto che sovrappeso e obesità siano così, e sempre più, diffusi nel mondo, tanto da parlarsi di “globesità”, la dice lunga sul fatto che nessuno sia ancora stato in grado di attuare metodiche in grado di contenere, se non di ridurre, il fenomeno in modo significativo. Annotando quanto le diete alla moda, reality televisivi e forza di volontà alla fine non abbiano lasciato il segno, le due ricercatrici statunitensi spiegano che il loro ventennale lavoro è per la maggior parte consistito nello sfidare “dogmi comuni” aprendo “porte per nuovi approcci”.  In questa ottica, aperta a nuove proposte e nuovi approcci, ospitiamo questo contributo della psicologa Anne Galles  della Open School Studi Cognitivi di Milano. 

Un individuo segue una dieta dimagrante non appena esercita un controllo di ordine cognitivo sul proprio comportamento alimentare con l’obiettivo di dimagrire o di non ingrassare. L’individuo si nutre quindi con una modalità riflessiva. Si fida di credenze che definiscono le condotte alimentari maggiormente adatte al suo progetto di dimagrimento. Tali credenze riguardano le quantità di alimenti da consumare, la loro composizione, gli abbinamenti autorizzati, i metodi di cottura e di condimento, gli orari e le modalità di consumo.

 

Alcuni dati a supporto della condanna categorica delle diete dimagranti

L’inefficacia e la iatrogenicità delle diete dimagranti dovrebbero portare a una tutela della popolazione, all’abbandono definitivo di tali pratiche da parte dei medici – o per lo meno alla loro sospensione – nell’attesa di avere dati integrativi. Converrebbe quindi orientarsi verso altri metodi per trattare i problemi ponderali (Apfeldorfer & Zermati, 2007). Per illustrare questa sentenza perentoria, gli autori citano lo studio di Stunkard e McLaren-Hume, già nel lontano 1959, che dimostra che soltanto il 5% delle persone che seguono una dieta dimagrante riesce a perdere peso senza poi riprenderlo (Apfeldorfer & Zermati, 2001). I dati più recenti non sono maggiormente incoraggianti (Zermati & Apfeldorfer, 2010): la metanalisi di Anderson (2001) relativa a ventinove trattamenti dimagranti dimostra che la perdita di peso di soggetti il cui peso medio è di cento chili, non supera i tre chili a cinque anni dall’inizio della dieta; lo studio di Phelan (2003) coinvolge 2400 soggetti e conclude che il 94% delle persone che hanno perso peso l’hanno riacquistato interamente dopo due anni.

Come spiegare quindi il paradossale e sfrenato entusiasmo per i trattamenti dimagranti? Le diete sono inefficaci nella gestione dei problemi ponderali eppure non sono mai state così popolari: lo spostamento dei canoni sociali verso un fisico snello ha generato un aumento della prevalenza delle diete e questo ha fatto sì che il pattern alimentare “normale” per la donna nord-americana sia proprio essere a dieta (Polivy & Herman, 1987)

 

Cos’è una dieta dimagrante?

Per capire cosa intendiamo con il termine dieta dobbiamo prima definire cos’è un comportamento alimentare normale o fisiologico. Esso è caratterizzato da tre criteri (Apfeldorfer & Zermati, 2007):

– Il comportamento alimentare è un comportamento controllato: le teorie della regolazione fisiologica fanno dipendere il comportamento alimentare da circuiti omeostatici la cui funzione è assicurare la stabilità di alcuni valori biologici (massa grassa, nutrimenti e micronutrienti). Nel caso della massa grassa, l’omeostasi si traduce concretamente in un peso stabile o set point. Ogni scarto rispetto al set point si esprime in un fabbisogno che provocherà la ricerca e l’assimilazione degli alimenti che porteranno l’energia o dei nutrimenti che colmeranno il fabbisogno.

– Il comportamento alimentare è un comportamento motivato: le informazioni sulla variazione delle riserve energetiche raggiungono il cervello tramite la variazione delle concentrazioni di leptina e di glucosio nel sangue. Tali informazioni giungono alla coscienza sotto forma di sensazioni alimentari: la comparsa, la diminuzione e la scomparsa del fabbisogno energetico prenderanno successivamente la forma di sensazioni di fame, di appagamento e di sazietà. Le informazioni relative ai fabbisogni di micronutrienti si traducono in appetiti specifici: la loro comparsa e la loro scomparsa attivano aree emotive del cervello e l’atto di colmare il fabbisogno si esprime attraverso la soddisfazione.

– Il comportamento alimentare è un comportamento sensato ovvero gli alimenti e le modalità per consumarli sono supportati da rappresentazioni mentali legate alla cultura o alla storia di vita che contribuiscono al sentimento di sicurezza nel quale si dovrebbe collocare l’atto alimentare.

Come possiamo quindi definire una dieta? Dal suo carattere ipocalorico? Dal fatto che precluda alcuni alimenti vietati? Dalla frustrazione generata? Queste caratteristiche appaiono parziali e non esaustive. Secondo gli autori, un individuo segue una dieta dimagrante non appena esercita un controllo di ordine cognitivo sul proprio comportamento alimentare con l’obiettivo di dimagrire o di non ingrassare. L’individuo si nutre quindi con una modalità riflessiva. Si fida di credenze che definiscono le condotte alimentari maggiormente adatte al suo progetto di dimagrimento. Tali credenze riguardano le quantità di alimenti da consumare, la loro composizione, gli abbinamenti autorizzati, i metodi di cottura e di condimento, gli orari e le modalità di consumo.

Assistiamo quindi a uno spostamento da una teoria psicogena del sovrappeso, ormai superata, verso un ruolo preponderante delle conseguenze degli sforzi per dimagrire: le caratteristiche psicologiche delle persone in sovrappeso non sarebbero dei tratti personologici ma sarebbero dovute al fatto che questi individui tentano di rimanere al di sotto al proprio peso forma o set point lottando costantemente contro i meccanismi di regolazione biologica. Questo fenomeno farebbe nascere negli individui stati mentali paragonabili a quelli delle persone in stato di deprivazione alimentare come l’iperfocalizzazione sul cibo, la difficoltà di concentrazione, l’irritabilità e l’iperemotività.

 

La teoria della restrizione cognitiva per spiegare l’inefficacia delle diete

I dati sull’inefficacia delle diete si spiegano quindi come la sconfitta ineluttabile di un controllo cognitivo del comportamento alimentare nel medio e lungo termine. Si parla di restrizione cognitiva per indicare non uno bensì due stati che si alternano a un ritmo variabile:

uno stato di ipercontrollo durante il quale l’individuo inibisce le proprie sensazioni alimentari e padroneggia il proprio comportamento alimentare;

uno stato di disinibizione e perdita di controllo sotto forma di compulsioni e abbuffate.

La sperimentazione storica di Herman e Mack (1975) illustra questo fenomeno: viene offerto ai soggetti dell’esperimento un pasto a base di gelato, senza nessuna limitazione quantitativa; in base ai gruppi sperimentali, questo pasto è preceduto da nessuno, uno oppure due milk-shake (è il cosiddetto preload). I risultati mostrano che, dopo aver assimilato due milk-shake, le persone avendo una regolazione alimentare soddisfacente (unrestrained eaters) mangiano meno gelato durante il pasto successivo; al contrario, e con un preload equivalente (ovvero due milk-shake), le persone in stato di restrizione cognitiva (restrained eaters) mangiano successivamente una maggiore quantità di gelato: questo fenomeno di contro regolazione alimentare si spiegherebbe grazie all’effetto di trasgressione del divieto (abstinence violation effect) che si traduce nel seguente pensiero: “ho già sgarrato quindi non serve più a nulla controllarmi”.

Gli stessi risultati emergono quando si manipola la variabile di percezione dell’abbondanza delle porzioni di cibo (Polivy, Herman, & Deo, 2010): quando la fetta di pizza mangiata in fase di preload appare più grande, i restrained eaters tendono a mangiare, in una seconda fase dell’esperimento, una maggiore quantità di biscotti rispetto agli unrestrained eaters.

Anche la deprivazione pregressa di cioccolato per una settimana induce i restrained eaters a mangiare una maggiore quantità di cioccolato, rispetto agli altri gruppi di controllo, una volta che l’alimento è di nuovo disponibile (Polivy, Coleman, & Herman, 2005).

La restrizione cognitiva appare quindi come un meccanismo che modifica l’espressione di una fame fisiologica. L’individuo in stato di restrizione cognitiva non prova sensazioni nitide di fame o di sazietà e si colloca in una zona di indifferenza biologica (Herman, Polivy, Lank, & Heatherton, 1987). Diventa quindi ipersensibile ai fattori esterni, emotivi e sociali e mangia in base all’ambiente o alle sue credenze.

A livello clinico, la restrizione cognitiva è descritta come un passaggio da un tentativo di controllo mentale verso un controllo sempre più emotivo del comportamento alimentare. Secondo Apfeldorfer e Zermati (2007) questo passaggio avviene in quattro fasi:

fase 1: le sensazioni alimentari sono percepite ma deliberatamente ignorate. Vengono adottate alcune regole dietetiche (non mangiare tra i pasti, fare tre pasti al giorno, evitare alcuni alimenti, ecc.). Per seguire queste regole l’individuo deve ignorare le proprie sensazioni alimentari ed elaborare alcune strategie (ad esempio, non trovarsi in presenza di alimenti non autorizzati);

fase 2: le sensazioni alimentari sono percepite ma non possono più essere rispettate. Il comportamento dell’individuo è progressivamente dominato da schemi di pensiero dicotomici del tipo “se mangio un alimento vietato, devo mangiarne tanto perché non potrò più mangiarlo in futuro” oppure “se mangio tanti alimenti autorizzati mi passerà la voglia di mangiare quelli vietati”. Questi schemi inducono emozioni centrate sulla paura di aver fame, sulla paura che manchi il cibo, sulla colpa e sulla frustrazione. Sono quindi le credenze e le emozioni che controllano il comportamento alimentare a discapito delle sensazioni fisiologiche;

fase 3: le sensazioni alimentari non sono più percepite. L’individuo non prova né fame, né sazietà né appetiti specifici. A questo punto il controllo cognitivo diventa l’unico controllo possibile del comportamento alimentare;

fase 4: il comportamento alimentare è in balia delle emozioni. L’individuo non riesce più a controllare volontariamente il suo comportamento alimentare sul lungo termine. Alterna periodi di controllo mentale a periodi di controllo emotivo che possono tradursi in pasti esageratamente abbondanti, compulsioni a mangiare o vere e proprie abbuffate. Una minore resistenza fisica e mentale, degli eventi di vita oppure la semplice trasgressione di un divieto alimentare può scatenare una perdita di controllo.

La restrizione cognitiva si può inoltre manifestare con quattro gradi di gravità: leggera (so di aver fame ma non devo mangiare), moderata (so di non aver più fame ma non riesco a fermarmi), severa (non so più se ho ancora fame oppure se ho mangiato abbastanza), terminale (mangio senza aver fame e non riesco più a controllare nulla).

 

Quali implicazioni terapeutiche? 

Il semplice fatto di seguire una dieta dimagrante oppure un programma di alimentazione “equilibrata” sia su richiesta medica sia in modo spontaneo induce l’individuo ad abbandonare un’alimentazione intuitiva a favore di un’alimentazione riflessiva, fondata su delle credenze. Questo tipo di comportamento alimentare corrisponde a una restrizione cognitiva o “controllo mentale dell’alimentazione”. Il livello di restrizione cognitiva può variare da una semplice sconnessione dalle proprie sensazioni alimentari a veri e propri disturbi del comportamento alimentare. La restrizione cognitiva deve quindi essere considerata alla meglio come un fattore di rischio per i disturbi del comportamento alimentare e alla peggio come un disturbo del comportamento alimentare in sé. Di fronte a un paziente in stato di restrizione cognitiva, il primo obiettivo sarà di aiutarlo a ritrovare un comportamento alimentare guidato dai suoi sistemi di regolazione fisiologica e dalle sue preferenze alimentari. Una psicoterapia a orientamento cognitivo consentirà di lavorare sui processi di pensiero disfunzionali che portano a ignorare le proprie sensazioni di fame e sazietà e a mangiare in base a dei criteri esterni. Il fatto di mangiare seguendo invece i propri criteri interni dovrebbe consentire alle persone di recuperare un peso forma che dipende a sua volta dalla propria eredità genetica, dal proprio stile di vita e dalla propria storia alimentare e ponderale. Questo set point è, oggettivamente, il peso auspicato, anche se non corrisponde alle tabelle del peso ideale o ai criteri di moda. Il lavoro sul comportamento alimentare per abbandonare lo stato di restrizione cognitiva deve spesso essere accompagnato da un lavoro psicoterapeutico per identificare risposte non alimentari a problemi di natura non alimentare (emotivi, relazionali) e per accettare e convivere con il proprio set point (Apfeldorfer & Zermati, 2001).

 

(Ripreso con autorizzazione dell’autrice da State of Mind )

Enzo Soresi: “Grazie ad un verme, siamo diventati Homo Sapiens”


file1370265425_20_longevitàVenerdi 20 settembre ho partecipato  al congresso della Fondazione Veronesi a Venezia, il tema era la longevità e gli spunti che ne ho tratto sono stati molteplici ed interessanti sia per uso personale che nell’interesse dei miei pazienti. Piena conferma, ahimé, da parte di molti ricercatori, della restrizione calorica (almeno 30 % di in meno di cibo) per ridurre le malattie ed aumentare la sopravvivenza. Due studi fondamentali, uno sui topi ed uno sulle scimmie, hanno confermato questa triste verità. In un mondo occidentale ricco di obesi e persone in sovrappeso, in cui le città d’arte sono diventate uno squallido mangificio,  la scienza ci dice  che meno si mangia (entro certi limiti) e più e meglio  si campa. Non solo, il segreto per evitare di ammalarsi è diventare vegetariano mangiando cibi di qualità. Questa osservazione deriva da uno studio randomizzato sulle scimmie in cui il gruppo che si nutriva di cibi vegetali naturali si ammalava meno di quello nutrito con cibi industriali, sempre vegetali.

Estremamente stimolante è stata , abbandonando il tema del cibo, la relazione del prof. Seth Grant, neuroscienziato dell’Università di Edimburgo, che ha spiegato l’importanza delle sinapsi nella evoluzione del cervello precisando che nel contatto sinaptico si possono liberare fino a 1000 tipi di sostanze proteiche che sono esattamente uguali a quelle liberate dalla prima cellula  in contatto con l’ambiente qualche milione di anni fa. Ha precisato poi che la nascita del sistema nervoso la si deve ad un doppio colpo di fortuna , analoga a quella di vincere per due volte consecutive ad una lotteria. Infatti, un nostro antenato, denominato PICAIA (un piccolo verme), nel suo processo evolutivo ha raddoppiato per due volte il suo genoma e questo ha fatto nascere le strutture nervose. Il prof Grant è fondatore del  programma G2C, un consorzio internazionale di ricerca e formazione per lo studio delle malattie cerebrali, in quanto le sue scoperte  hanno confermato l’importanza delle sinapsi  in queste patologie e la relazione fra geni, comportamento e malattie cerebrali.

Il prof. David Sweatt, neurobiologo dell’Università dell’Alabama, ha spiegato l’importanza della metilazione e della acetilazione nei meccanismi di formazione della memoria a breve e lungo termine confermando l’importanza della alimentazione nell’invecchiamento del cervello. Già qualche tempo fa su questo blog avevo spiegato l’importanza dei metili nella stabilizzazione del DNA.  Sweatt ha ricordato che le cellule neuronali, a differenza delle altre cellule, non si deteriorano con il passare degli anni mentre quella che si riduce progressivamente è la produzione di dopamina così importante per l’attività motoria ed il tono dell’umore. A questo proposito, sempre su questo blog, vi ho spiegato l’importanza della molecola adenosina metionina , scoperta da un italiano negli anni ’50, nel favorire la liberazione di questa sostanza in grado di stimolare la liberazione di dopamina ed ottimizzare la sensibilità all’insulina.

Grande rilievo  infine è stato dato dal prof.  Giovanni Scapagnini agli isocianati, contenuti in grande quantità nei mirtilli e nei lamponi, che per la loro caratteristica di idrosolubilità attraversano la barriera ematoencefalica sviluppando una importante protezione sul micro-circolo vascolare cerebrale ed in generale su tutto l’apparato cardiovascolare.

Logica conclusione di questo congresso:  stamane colazione con latte di soia, pane integrale  ed una tazza di yogurt magro con mirtilli (post di Enzo Soresi).

Più sale-meno sale. Più grassi-meno grassi. Paradossi della medicina


SaleSaluteDopo avere passato anni ad addestrare i miei pazienti ad usare il sale con parsimonia perché aumenta la pressione arteriosa e favorisce malattie cardiovascolari, ecco un intervento del prof. Mantovani, eminente immunologo e direttore scientifico dell’ospedale Humanitas, che mette punto, fermo restando che l’abuso crea  problemi cardiovascolari, l’importanza del sale nella difesa dell’organismo e sul suo ruolo nello sviluppo di malattie. Due diversi studi pubblicati su Nature hanno riportato la scoperta di un sensore molecolare posto nelle cellule della immunità in grado di percepire la concentrazione di sale e di innescare una risposta immunitaria che porta alla differenziazione di un sottotipo di linfociti T in grado di attivarsi in funzione degli agenti patogeni che  attaccano il nostro organismo. Questo particolare tipo di cellule, definite TH 17, in particolare combattono i batteri extracellulari quali lo streptococco e lo stafilococco. Questa osservazione confermerebbe l’importanza del sale nello sviluppo del sistema immunitario, ma nello stesso tempo aprirebbe l’ipotesi allo sviluppo di malattie autoimmuni che fa eccesso di sale. Come clinico concluderei invitando ad attuare con gli esami del sangue di routine anche il controllo del quadro elettrolitico che evidenzia i livelli ematici di sodio, cloro e potassio.

L’altro paradosso sicuramente più complicato da interpretare è quello che il sovrappeso, addirittura ai limiti della obesità,  in pazienti anziani ed anche portatori di malattie croniche rappresenterebbe un fattore di prevenzione in quanto è stata dimostrata   una minore mortalità di questo gruppo rispetto a coetanei normopeso ed in perfetta salute. Questa affermazione deriva da uno  studio inequivocabile effettuato da biostatistici del Centers for disease control di Atlanta pubblicato su Jama. Chi è in sovrappeso con un indice di massa corporea  (BMI) fra 25 e 30  ha una diminuzione del rischio di morte del 6 % rispetto a chi è normopeso, mentre chi è obeso ha un rischio morte superiore del 18 %. Le ipotesi per spiegare questa contraddizione sono molteplici ma forse la più logica  potrebbe essere quella  che molte di queste persone sono seguite più attentamente dai medici ed assumono farmaci salvavita come ipotensivi ed antiaggreganti con maggiore frequenza.

Mentre dormi il tuo corpo ti cura


RitmiCircadianiOKQuanto è importante il sonno. Quanto è fondamentale dormire bene. Lo dico da anni, e lo ribadisco ogni volta che una nuova ricerca lo conferma. Tanto da essermi inventato uno slogan: mentre dormi il tuo corpo lavora. Dovrebbe stamparselo su un cartello e rileggerselo ogni persona convinta che il sonno sia una perdita di tempo, che le ore di sonno si possono giocare a piacere, dedicandosi al altro – divertimenti, lavoro o semplicemente tv.

L’equivoco nasce dall’errata percezione che la nostra vita organica sia solo e unicamente legata alla veglia, allo stato cosciente, alla vigilanza. In realtà il nostro corpo non si esprime solo e unicamente nella veglia e nello stato vigile, svolge e sviluppa molte altre funzioni in altri stati di coscienza, naturali o indotti che siano, tra questi il sonno. Basterebbe riflettere su questo: vi fareste eseguire un intervento chirurgico importante e prolungato senza anestesia? Tutte le funzioni vitali del nostro corpo avvengono indipendentemente dalla nostra consapevolezza e dalla nostra volontà. Il nostro corpo ha una necessità naturale di seguire ritmi biologici regolati da milioni di anni, ad esempio dall’alternarsi luce-buio. Ritmi circadiani alterati dall’avvento della modernità, della luce artificiale e dalla possibilità di stare svegli 24 ore su 24.

Dormire le giuste ore di sonno e, soprattutto, un sonno di buona qualità, influisce su tutti gli aspetti vitali del nostro corpo. Dagli ormoni, ai geni, all’equilibrio psicofisiologico. Chi dorme poco e male, alla lunga si ammala. Chi è affetto da obesità rischia di dormire male, patendo di apnee notturne, ed entrando in un circolo vizioso in cui il dormire poco e male rafforza i meccanismi metabolici che sostengono l’obesità.

Molti studi stanno indagando i rapporti tra sonno e obesità, tra sonno e livelli di insulina e leptina, l’ormone della sazietà. Non è infatti un caso che chi si corica tardi, verso mezzanotte senta lo stimolo di mettersi a mangiare qualcosa: gli “spuntini di mezzanotte”. E se si cede a questa tentazione, alla lunga si alterano i ritmi circadiani di fame-sazietà, i livelli di insulina, con rischio di obesità e diabete. Lo sviluppo di diabete e obesità avviene per una serie di ragioni, si parla infatti di cause multifattoriali. Ma siccome contano i geni ma pure l’epigenetica, l’ambiente, gli stili di vita e, tra questi, il sonno è un  fattore che si rivela sempre più importante. E’ una delle ragioni per cui i lavoratori notturni, alla lunga, sono maggiormente a rischio di andare incontro a malattie metaboliche e cardiovascolari.

Il sonno non è solo importante, è terapeutico. Non c’è bisogno della scienza per sapere come ci sentiamo dopo una giusta e buona dormita. Il sonno è salutare. Su tutto il nostro metabolismo. Come mostrano studi recenti, la prova di nesso causale tra sonno e metabolismo è stato rilevato da studi di deprivazione del sonno, in volontari sani, in laboratori del sonno o nei loro normali ambienti.

Le ricerche sul sonno più recenti, svolte presso il Surrey Sleep Research Centre diretto da Derk-Jan Dijk (University of Surrey, Regno Unito) mostrano che una settimana di sonno ridotto è sufficiente per alterare l’attività di centinaia di geni umani. La ricerca ha monitorato l’attività di tutti i geni del genoma umano, e ha scoperto che il sonno insufficiente (meno di 6 ore a notte) influenza l’attività di oltre 700 dei nostri geni. Tra questi, vi sono geni  deputati a controllare l’infiammazione, l’immunità, e la risposta allo stress.

“La carenza di sonno – commentano i ricercatori inglesi – porta a una serie di conseguenze significative sulla salute, tra cui obesità, malattie cardiache e deficit cognitivo. Ma fino ad ora non erano scientificamente chiari come gli schemi di espressione genica vengano modificati dal sonno insufficiente. Questi modelli di ‘espressione genica’ possono fornire importanti indicazioni sui potenziali meccanismi molecolari che collegano il sonno e la salute generale”.

“Questa ricerca – dice  Derk-Jan Dijk – ci ha aiutato a comprendere gli effetti della mancanza di sonno sull’espressione genica. Ora che abbiamo identificato questi effetti,  si possono utilizzare queste informazioni per approfondire i legami tra l’espressione genica e la salute generale”.

Colin Smith, professore di genomica funzionale presso l’Università del Surrey, ha aggiunto: “L’interesse attuale del sonno DerkSurreyOKe dei ritmi circadiani come determinanti di salute e malattia è un settore vitale della ricerca. Combinando la nostra esperienza nel sonno e  la ‘genomica’ (lo studio della serie completa dei nostri geni), stiamo iniziando a fare scoperte che hanno un impatto sulla nostra comprensione e sul trattamento delle cattive condizioni di salute derivanti dalla mancanza di sonno.

Alla luce di tutto ciò, aggiungo un secondo slogan, a quello iniziale: mentre dormi il tuo corpo ti cura. E’ sufficiente per concedersi una buona e sana dormita?

Fonti:

LACK OF SLEEP ALTERS HUMAN GENE ACTIVITY

SURREY SLEEP RESEARCH CENTRE  

Robertson MD, Russell-Jones D, Umpleby AM, Dijk DJ., “Effects of three weeks of mild sleep restriction implemented in the home environment on multiple metabolic andendocrine markers in healthy young men”, Metabolism. 2013 Feb;62(2):204-11.

Nella foto: Derk-Jan Dijk, professore e ricercatore di fisiologia del sonno della University of Surrey.