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A me gli occhi! Il potere dissociativo dello sguardo


hypnotistDa sempre maghi, mesmeristi e ipnotizzatori hanno usato il potere di fascinazione dello sguardo per modificare lo stato di coscienza del prossimo. Come? Il solo fatto di osservare intensamente negli occhi un nostro simile (o noi stessi allo specchio), in condizioni di scarsa illuminazione o luce soffusa, determina un restringimento della percezione e induce veri e propri sintomi dissociativi, nonché qualcosa di simile alle allucinazioni.

Come suggestionare la mente con lo sguardo

Tutte condizioni della nostra mente che aprono la strada alla possibilità di essere suggestionati, influenzati e manipolati, dato che ci troviamo non in uno stato di completa attenzione e vigilanza, ma bensì in una condizione molto simile al sogno. Dove, appunto, anche le cose più assurde divengono reali. Si potrebbe estendere la considerazione anche a molte situazioni di imbroglio e truffa, condizioni in cui il truffatore, ma pure il ladro, riesca a convogliare l’attenzione del malcapitato operando una modificazione e un restringimento della coscienza vigile.

Giovanni Caputo, psicologo e ricercatore dell’Università di Urbino di cui abbiamo già parlato riguardo una sua ricerca relativa all’uso dello specchio per fare emergere contenuti inconsci,  ha condotto un esperimento su 20 giovani adulti (di cui 15 erano donne) facendoli fissare dritti negli occhi da un partner per 10 minuti. Manipolando l’illuminazione nella stanza, in modo da mantenerla abbastanza luminosa per consentire ai volontari di vedere le caratteristiche del viso del loro partner, ma abbastanza abbassata per attenuare la percezione del colorito.

In sostanza, questo questa condizione interpersonale aveva lo scopo di indurre sintomi dissociativi, con relativo corollario di senso di depersonalizzazione (sensazione come di vivere in un sogno, senso di distacco dal mondo, come se si osservasse la vita da dietro un vetro o in mezzo alla nebbia) e fenomeni simil-allucinatori di carattere temporaneo (vivere o fare cose irreali come in sogno).

L’osservazione fissa e diretta negli occhi per dieci minuti, in condizioni di illuminazione ridotta (le modalità sono descritte nel lavoro scientifico), hanno fatto sperimentare ai partecipanti fenomeni simil-allucinatori in cui vedevano il volto del partner trasformarsi, deformarsi, cambiare tratti sessuali, addirittura assumere aspetti animaleschi e mostruosi. Considerando che la dissociazione è caratterizzata da una interruzione o discontinuità nella normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emozioni, percezioni, rappresentazione del corpo, controllo motorio e comportamento, viene spontaneo considerare come molti riti magici, sciamanici, religiosi, ma pure spettacolari e illusionistici, traggano vantaggio da tali condizioni dissociative indotte per “inserirsi” con suggestioni volute dall’operatore, o dagli operatori, nella mente del prossimo.

«Una possibile spiegazione dei risultati di questo esperimento – commenta Giovanni Caputo – può essere la deprivazione sensoriale  (illuminazione bassa), il fatto di guardare intensamente verso uno stimolo (l’altra faccia) che induce un livello generale di dissociazione. L’apparizione di una faccia strana interrompe momentaneamente lo stato dissociativo provocando una temporanea allucinazione. In altre parole, l’apparizione della faccia strana può essere una forma di rimbalzo a “realtà” che si verifica da un generale stato di dissociazione provocato dalla deprivazione sensoriale».

Sguardo e luci negli spettacoli magici 

A livello empirico, i maghi hanno da sempre giocato sulla scenografia e sulla gestione delle luci, nonché sul catturare l’attenzione su di sé, sul proprio sguardo intenso e sulla gesticolazione, per indurre stati che sono molto simili a quelli descritti da Giovanni Caputo. Aggiungiamoci pure che medium e spiritisti, hanno da sempre realizzato le proprie esperienze in condizioni di scarsa o nulla illuminazione. Con l’attenzione rivolta, hypnotised2.jpgalla catena medianica, al tavolo, o alla tavoletta ouija o al bicchierino che si muove sul tabellone. Giovanni Caputo sottolinea il rapporto stretto tra dissociazione e allucinazione, la quale potrebbe essere una forma di compensazione o di rimbalzo. Inoltre, aggiunge, significati dissociati all’interno del sé potrebbero essere proiettati (attribuiti) sull’altra persona reale al di fuori di sé.

Per approfondire:

Caputo GB, Dissociation and hallucinations in dyads engaged through interpersonal gazing, Psychiatry Res. 2015 Aug 30;228(3):659-63. doi: 10.1016/j.psychres.2015.04.050

Gli specchi, la psiche e l’inconscio

La magia funziona perché la coscienza è imperfetta



CerveloMagicoLa coscienza imperfetta. Le neuroscienze e il significato della vita
. Così si intitola un saggio di tre anni fa, edito da Garzanti, di Arnaldo Benini, già docente di neurochirurgia e neurologia all’Università di Zurigo (oggi ne è professore emerito). E’ uno dei testi importanti per capire le basi cerebrali e percettive della magia. Seppure non sia un testo che si occupi di magia, ma piuttosto dei processi cerebrali e sensoriali attraverso i quali diventiamo coscienti di noi stessi e del mondo circostante. O, viceversa, quali siano le condizioni normali e patologiche che alterano la coscienza.

Il punto cardine della ricerca sulla magia, dal punto di vista psicologico, è del resto comprendere perché la magia funziona ed ha successo dall’origine dell’uomo fino ad oggi. Perché e come agisce sulla nostra mente e sul nostro cervello.

L’impianto spettacolare dei trucchi, messi a punto da secoli per tentativi ed errori dai maghi (veri sperimentatori empirici), la narrazione, la scenografia, il personaggio, i costumi, la misdirection, fanno leva sul fatto che la nostra percezione fa entrare nella coscienza una informazione rilevante alla volta. Viceversa saremmo sovraccarichi di informazioni. Ciò è garantito da un sistema di filtri (cognitivi, sensoriali, emotivi) che il nostro cervello utilizza per selezionare quanto al momento risulta rilevante, da ciò che non lo è, venendo perciò scartato. Quindi, “la cognizione cosciente è il risultato di una selezione”.

Quando il mago attira la nostra attenzione con un colpo improvviso, un movimento, una luce, un oggetto, ecco che fa entrare nella nostra consapevolezza l’informazione che ha deciso/scelto di farci percepire.

«Per quale meccanismo – spiega Benini – un’informazione che viaggia all’interno del cervello riesce a passare la soglia della coscienza a scapito di altre che rimangono incoscienti? Un fattore potrebbe essere l’intensità dello stimolo iniziale, un altro il grado d’elaborazione cui l’informazione è arrivata. Dal punto di vista psicologico quel passaggio è l’attenzione, parte rilevante dell’esperienza. “L’attenzione è la mente che prende possesso di se stessa in forma chiara e intensa. Focalizzazione e concentrazione della coscienza ne sono l’essenza. Essa comporta il ritiro da alcune cose per concentrarsi con efficacia su altre; è la condizione opposta allo stato confuso, intontito e incostante”, scrive, con la consueta incisività, William James. L’attenzione è la selezione fra contenuti potenzialmente coscienti, la spinta della mente ad aprirsi verso l’esterno e verso se stessa».

Di conseguenza, filtra, devia, manipola l’attenzione, e avrai realizzato pienamente il tuo trucco. L’attenzione è un lavoro per il cervello. Tutto ciò che crea scorciatoie, attira e rivolge l’attenzione. Sollevando il cervello da tale impegno cognitivo.

Il mago crea e propone scorciatoie sensoriali al cervello, per fargli accettare fenomeni e situazioni apparentemente Benini_coscienza-imperfettaincomprensibili (o addirittura scambiate per paranormali) che comporterebbero troppo dispendio cognitivo, troppo lavoro cerebrale, per essere risolti, per venirne a capo. Un mentalista come Francesco Pietropaolo, insegna ad esempio che in una riuscita routine di mentalismo ci potrebbero essere anche decine di passaggi e fattori creati ad hoc. Tanti e tali che neppure i colleghi professionisti, a volte, riescono a venirne subito a capo.

Il mago è dunque colui che da una parte si complica la vita ideando, provando e riprovando all’infinito i propri trucchi (l’esercizio porta all’eccellenza). Mentre dall’altra semplifica a vantaggio del nostro cervello, in particolare dei nostri centri del piacere, consentendoci di vivere degli “aha! moment”. Momenti di emozione e stupore, senza tuttavia capire quanto sia realmente accaduto davanti ai nostri occhi ed a tutti i nostri sensi. Meglio di così! Lasciandoti inoltre un insegnamento sul quale meditare: se non capisci, può pure capitarti di rimanere fregato. Insegnamento di profonde implicazioni filosofiche, psicologiche e sociologiche.

Mindfulness: alla ricerca della consapevolezza. Intervista allo psichiatra Alberto Chiesa


Mindfulness, un termine la cui eco risuona  sempre più nelle orecchie di psicologi e psichiatri. Ma anche del pubblico in generale. Chiunque abbia a che fare con temi relativi alla psicoterapia e alla salute mentale, non può non essersi imbattuto in quell’autentico fenomeno emergente e crescente dei nostri tempi che è la mindfulness.

Forse all’inizio avrà avuto un atteggiamento di sufficienza. Verso qualcosa che magari appariva in odore di new age, o dell’ennesima corrente di psicoterapia alla moda. Forse non ne avrà ben compreso la collocazione. Tra pratica soggettiva e applicazioni terapeutiche. Tra la meditazione per acquisire presenza e consapevolezza, e possibilità di applicazioni cliniche per ambiti di sofferenza che vanno dai più comuni disturbi psicoaffettivi, alla depressione, ma pure al dolore cronico o, addirittura, ai disturbi mentali gravi ospedalizzati.

Se poi aggiungiamo un ventaglio di possibilità di ricerca psicologica, supportate da neuroimaging e correlati neuropsicologici, l’ipotetico scettico verso la mindfluness si chiede cosa di perda a non occuparsene. La risposta non potrebbe essere più semplice e diretta: un professionista della salute mentale, sia esso psicologo che psichiatra, non può oggi non prendere in considerazione la mindfulness. E lo stesso discorso vale per educatori, insegnanti, assistenti sociali. Persone comunque interessate a come si possa portare aiuto e sostegno a se stessi e la prossimo.

Una domanda che sorge spontanea, in un’epoca di profonda crisi personale e sociale come l’attuale, è la seguente: se cominciassimo ad insegnare mindfulness nelle scuole, non ne trarrebbero beneficio le generazioni prossime e future?

I programmi di terapia basta sulla consapevolezza o MBCT (mindfulness-based cognitive therapy) raccolgono sempre più consensi, contributi, ricerche, pubblicazioni. Proprio in queste settimane è uscito, a cura dello psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Didonna, l’edizione italiana di un testo collettaneo già considerato un classico e punto di riferimento formativo, destinato a fare storia: Manuale clinico di mindfluness (Franco Angeli, nella collana diretta da Paolo Moderato).

Quarantassette autori, tra i più qualificati studiosi e praticanti della mindfulness, affrontano temi come la gestione della sofferenza nel mondo moderno, la neurobiologia della mindfluness, nonché una serie di problematiche psicologico-psichiatriche trattate con la mindfulness. Tra i quali, il rischio suicidario, il disturbo ossessivo-compulsivo, i disturbi alimentari, il disturbo borderline di personalità, lo stress e le sue conseguenze. E inoltre, ad esempio, definizioni e origini della mindfulness, la fenomenologia della mindfluness, interventi basati sulla mindfulness in oncologia.

Certo, volendo esercitare un po’ di senso critico, in questa fase di entusiasmo per la pratica mediata dalla meditazione buddhista, pare che dalla mindfulness possa trarre vantaggio ogni aspetto problematico della nostra vita psicoaffettiva. Ma è proprio così?

Mindfulness: ricchezza di dati scientifici e confusione

“Soprattutto in campo internazionale – scrive nella presentazione del “Manuale” Paolo Moderato -, ma recentemente anche in Italia, la letteratura scientifica e divulgativa che parla di mindfulness e di meditazione sta esplodendo creando ricchezza, ma anche confusione. Allo stesso modo, si moltiplicano i contesti in cui vengono offerte formazioni e occasioni di pratica. Ogni volta che si assiste a fenomeni di diffusione così rapidi ed esplosivi è importante che il singolo individuo si costruisca una visione critica personale, entrando direttamente nel merito della questione”.

Tempi inquieti portano con sé anche intuizioni e nuove soluzioni da adottare. Mindfluness ha  origini millenarie, nella meditazione buddhista. E applicazioni, sviluppi moderni in grado di aiutarci nel rapporto con noi stessi, i nostri simili e il mondo circostante. In modo più sano, sereno e consapevole. Forse il domani non sarà così tetro e privo di promesse, se gran parte della popolazione farà propri i principi educativi e i metodi applicativi che la mindfulness ci sta aiutando a scoprire e comprendere.

Uno dei principi base, su cui addestrasi è, tra l’altro: “noi non siamo i nostri pensieri”. Soprattutto quando sono fissi e negativi. Ruminanti e ossessivi. E la promessa della mindfulness è: possiamo liberarcene. Anzi, possiamo “liberarci”. Dalle pastoie di una vita fatta di ansie e angosce per raggiungere traguardi illusori. Conflitti e aggressività di rapporti malati. E una delle qualità mentali emergenti nella pratica della mindfulness è la compassione, in senso buddhista. Verso noi stessi, i nostri simili e ogni manifestazione vivente.

Cosa avrebbero da dare medici, scienziati, educatori, gente comune, politici, se praticassero regolarmente la mindfulness? E soprattutto se lo facessero psichiatri e psicologi, professionisti della salute mentale, oltre ai loro pazienti? Si genererebbe una condivisione di stati di coscienza adatti al benessere e alla guarigione, individuali e collettivi, oltre alla secolare condivisione di metodi e terminologia scientifici?

Il sogno e il desiderio di molti praticanti della meditazione del passato, che la sapienza orientale potesse incontrare ed essere d’aiuto alla scienza occidentale, in particolare quella che si occupa dei rapporti mente-corpo, si sono dunque realizzati con l’avvento dell’era della mindfulness?

Proprio per costruirci una visione personale ed entrare in modo più diretto nelle problematiche affrontate e sollevate dalla mindfulness, abbiamo rivolto alcuni di questi interrogativi allo psichiatra Alberto Chiesa. In un articolo pubblicato il mese scorso dalla rivista Mindfulness, Chiesa ha sollevato una questione centrale: se esista o meno, soprattutto tra gli addetti ai lavori, una condivisione del concetto di consapevolezza.

Se dovesse spiegare a un profano cos’è e su quali principi agisce la mindfulness?

Spiegare con precisione cosa sia la mindfulness è una questione particolarmente ardua per diverse ragioni. Innanzitutto perché il concetto originario di mindfulness è nato in Oriente oltre 2500 anni fa, quindi in una cultura e in un epoca storica molto diverse dalle nostre. In secondo luogo, perché nei secoli tale concetto è stato soggetto a numerosi arricchimenti e revisioni da parte della moltitudine di studiosi e praticanti che se ne sono occupati. Infine, va notato che il termine mindfulness è utilizzato soprattutto per indicare una particolare esperienza che si trova al di là della mente concettuale frequentemente enfatizzata nella cultura occidentale. È tipico dello Zen, una delle tradizioni di mindfulness più largamente diffuse sia in oriente che in occidente, sottolineare che quando si parla di mindfulness non bisogna fare confusione tra la luna e il dito che si usa per indicarla, cioè tra la mindfulness in se stessa e le parole che si usano per definirla.

Tenendo a mente tali considerazioni, posso provare a definire la mindfulness in parole semplici come l’atto di prestare attenzione allo scorrere dell’esperienza del momento presente, momento dopo momento, e in maniera non giudicante. Si tratta, in altre parole, del cercare di essere maggiormente presenti alle proprie sensazioni, così come ai propri pensieri ed emozioni, momento dopo momento, senza cercare di manipolarli, ma piuttosto permettendo loro semplicemente di essere e di seguire il loro corso naturale. Via via che questa capacità di essere presenti alle proprie sensazioni, pensieri ed emozioni, e alle continue relazioni che vi sono tra di essi, aumenta, il praticante sperimenta solitamente in maniera sempre più vivida come la mente concettuale e giudicante in cui solitamente siamo immersi (quella, per intenderci, in cui ci troviamo quando pianifichiamo, rimuginiamo, sogniamo) sia solo una rappresentazione, spesso molto inaccurata, della realtà che ci circonda, e non la realtà stessa, e di come esista uno stato in cui possiamo essere pienamente coscienti del fatto che non percepiamo mai il mondo “così com’è” ma continuamente filtrato dalle nostre rappresentazioni mentali.

A cosa è attribuibile questa crescente attenzione di interesse, clinico e scientifico, verso la mindfulness?

Ci sono tante ragioni che possono spiegare perché tanto la comunità clinica quanto quella scientifica si stiano occupando sempre più di mindfulness e lo stiano facendo proprio in questo periodo storico. Molto probabilmente questa improvvisa esplosione, infatti, non è casuale. Come sottolinea Kabat-Zinn, il fondatore del primo programma di mindfulness esplicitamente utilizzato per scopi clinici (la Mindfulness based Stress Reduction o MBSR), in diversi dei suoi scritti, è curioso notare il fatto che in un mondo che va sempre più veloce, che rende necessaria una sempre maggiore specializzazione a discapito della visione d’insieme, che vede nella produttività il cardine su cui reggersi, pratiche quali la mindfulness che invitano a rallentare, a prendere maggiore contatto con l’esperienza del momento presente e a notare la profonda interconnessione che lega le diverse aree del sapere e della vita suscitano sempre maggiore interesse. Probabilmente proprio perché il mondo sembra andare sempre più nella direzione opposta alla consapevolezza e sembra non tenere più conto dei ritmi insiti nella natura e nell’uomo stesso, l’utilizzo di pratiche volte a sviluppare la consapevolezza e a riappropriarsi del proprio spazio e dei propri ritmi appare quanto mai necessario. Altrimenti potrebbe arrivare il giorno in cui possiamo avere tutto ciò che vogliamo, ma non avere più né il tempo né la capacità di goderne.

Se a questo si aggiunge il fatto che la mindfulness sta attualmente colmando uno spazio precedentemente non contemplato dalla medicina tradizionale, quello dei pazienti per cui le cure non potrebbero, a detta dei medici, fare più nulla, ed il fatto che sta permettendo agli scienziati di tutto il mondo di investigare con crescente raffinatezza le più elevate funzioni cognitive dell’essere umano, inaccessibili nella maggior parte dei soggetti che non hanno un adeguato allenamento alla meditazione, si può ben comprendere come la diffusione della mindfulness possa essere non soltanto un fatto casuale, ma forse quasi inevitabile.

A dispetto del numero crescente di studi, applicazioni e pubblicazioni sulla mindfulness, nel suo lavoro lei lamenta la mancanza di una definizione univoca e condivisa di consapevolezza: a suo parere sarà mai possibile arrivarci?

È indubbio che gli studi sperimentali volti a valutare l’efficacia di interventi basati sulla mindfulness quali la già citata MBSR e la Mindfulness-based Cognitive Therapy, un approccio meditativo di gruppo che fonde i principi dell’MBSR con alcuni principi della terapia cognitivo-comportamentale, per una crescente varietà di condizioni mediche e psicologiche che spaziano dal dolore cronico allo stress da lavoro, dalla depressione ai disturbi d’ansia, siano cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi tre decenni. L’utilizzo di design metodologici sempre più dettagliati sta permettendo inoltre di mostrare con sempre maggiore certezza come gli effetti legati alla pratica della mindfulness non siano legati solo a fattori “placebo” o aspecifici, come l’aspettattiva di un beneficio, il supporto del gruppo e l’attenzione da parte di una figura di riferimento, ma siano in buona parte legati alla pratica personale di meditazione e all’incremento della propria capacità di essere maggiormente presenti alle proprie sensazioni, pensieri ed emozioni in maniera non giudicante.

Sebbene tali risultati siano certamente utili e incoraggianti, non si può negare che la difficoltà di traslare nella cultura scientifica occidentale un concetto nato in una cultura così lontana da quella moderna abbia creato molta confusione sia tra i clinici che i ricercatori. A tal fine tanto nella mia recente pubblicazione quanto in una precedente pubblicazione dove mettevo a confronto i principali interventi oggi etichettati come “interventi basati sulla mindfulness” ho cercato di mostrare quanto grandi siano tanto la confusione che permea la ricerca scientifica che si occupa di mindfulness quanto le modalità con cui la mindfulness viene praticata e insegnata in diversi approcci che vengono tutti definiti come “pratiche di mindfulness”.

Come è già stato dimostrato in molti altri campi attualmente di grande interesse, come quelli della creatività, della saggezza e dell’intelligenza emotiva, ritengo che sarà molto improbabile raggiungere una definizione univoca di mindfulness che sia condivisa da tutta la comunità clinica e scientifica che se ne occupa. Tuttavia, a mio giudizio, questo non dovrebbe far demordere le persone attivamente coinvolte in questo campo.

Sebbene l’ideale di raggiungere una definizione di mindfulness accettata univocamente rimarrà con ogni probabilità un ideale, non dobbiamo dimenticare che gli ideali sono ideali proprio perché non possono essere raggiunti. Tuttavia è lo sforzo impiegato nel cercare di raggiungerli che costituisce il progresso scientifico.

Pertanto, per quanto le moderne definizioni di mindfulness e i questionari psicometrici volti a misurarla quantitativamente possano apparire, ad uno sguardo attento, molto limitati, essi dovrebbero essere visti come un primo ma estremamente importante passo nel comprendere e trattare la mindfulness in una modalità che sia comprensibile nel contesto delle moderne strutture teoriche psicologiche occidentali.

Com’è giunto alla mindfulness?

Principalmente attraverso due vie distinte. Se mi limito al solo lato professionale, posso affermare di essere giunto alla mindfulness attraverso un lungo percorso di riconoscimento dei pregi ma anche di alcuni limiti della moderna psichiatria e psicologia nel venire incontro alle esigenze di molti individui affetti da disturbi psicologici che diventano pertanto ad alto rischio di cronicizzazione.

Parlando a livello più strettamente personale, ho iniziato ad avvicinarmi al mondo della meditazione e della mindfulness sin da quando, nei primi anni della facoltà di medicina, mi sono reso conto di quanto l’individuo in cerca di cure mediche e psicologiche non è solo una “macchina” che deve essere “riparata”, come alcuni modelli medici e psicologici riduzionisti tipici dei decenni passati hanno spesso enfatizzato.

Piuttosto gli individui affetti dalle più svariate forme di disagio fisico o psicologico, così come i professionisti della salute che se ne occupano, sono persone che vivono di speranze, di rappresentazioni che, consciamente o meno, modulano il proprio disagio o benessere attraverso le idee che se ne fanno e che, soprattutto, hanno bisogno di trovare un senso a quanto avviene in loro stessi e nel mondo che li circonda, e penso che il coltivare la mindfulness sia un eccellente modo per prendere contatto con il fluire di esperienze continuamente mutevoli che costituisce il nucleo essenziale dell’esperienza umana.

Come psichiatra e psicoterapeuta, a suo modo di vedere e in base alla sua esperienza, quali sono le migliori applicazioni cliniche?

Come ho già sottolineato in precedenza, gli interventi basati sulla mindfulness si stanno dimostrando efficaci, sia come approccio a sé stante che come trattamento aggiuntivo ad altre forme di terapia più convenzionali, per un’enorme varietà di condizioni mediche e psicologiche. Limitandomi alla mia esperienza come psichiatra e psicoterapeuta, nonché come istruttore di mindfulness e come ricercatore nel campo della mindfulness, le migliori applicazioni cliniche della mindfulness in campo psicologico riguardano innanzitutto la prevenzione delle ricadute e il trattamento di sintomi lievi e moderati in pazienti che soffrono di depressione maggiore, e il trattamento di numerosi disturbi d’ansia come il disturbo d’attacchi di panico, il disturbo d’ansia generalizzata e la fobia sociale.

Ritengo altresì che non si debba sottovalutare l’efficacia delle pratiche di mindfulness, in particolare dell’MBSR, nel campo della riduzione dello stress, un “effetto collaterale” della società moderna sempre più veloce, complessa e competitiva, e nella prevenzione del burn-out nelle figure professionali più a rischio di tale fenomeno come i professionisti della salute.

Secondo lei la mindfulness sarebbe la tanto agognata applicazione psicoterapeutica “perfetta”, nel senso di verificabile in base ai risultati ottenuti e ai correlati psicologici e neurobiologici, con gli strumenti della medicina basata sulle evidenze?

Se devo essere onesto, sono sempre restio nell’utilizzare termini come “perfetto” o “ideale” quando mantengo la mia veste di ricercatore. Certo non posso negare che, soprattutto nell’ultimo decennio, le ricerche volte a valutare gli effetti clinici e i meccanismi psicologici, neuropsicologici e neurobiologici che sottendono le pratiche di mindfulness hanno incontrato in misura sempre maggiore gli standard della medicina basata sulle evidenze.

Tuttavia, bisogna sottolineare che molte questioni critiche, come la pluralità di definizioni di mindfulness attualmente utilizzate, le significative differenze nelle modalità con cui diversi interventi basati sulla mindfulness insegnano e concettualizzano la mindfulness, senza dimenticare le importanti differenze a livello culturale e personale che esistono tra i partecipanti inclusi negli studi che valutano meditatori esperti con anni di esperienza e quelli inclusi nella maggioranza degli studi attualmente disponibili focalizzati sugli effetti della mindfulness nel breve termine, rendono difficile far supporre che la mindfulness sia la tanto agognata applicazione psicoterapeutica “perfetta”.

D’altro canto non si può negare che l’unione della capacità di descrivere in tempo reale e con estrema precisione i propri stati emotivi, fisici e cognitivi sviluppabile attraverso la pratica di lungo termine della mindfulness, e dello sviluppo di tecnologie sempre più avanzate, come si sta osservando, ad esempio, nel campo del neuro-imaging che sarà in grado in futuro di dare informazioni sempre più dettagliate sul funzionamento cerebrale a livello microscopico, potrà certamente costituire un grande passo in avanti nella possibilità di comprendere con esattezza cosa avviene nel cervello di chi pratica la mindfulness e degli influssi che tutto questo può avere sul sistema mente-corpo.

In sintesi, forse la mindfulness non può essere per ora l’agognata applicazione terapeutica perfetta, nel senso di verificabilità secondo i principi della medicina basata sulle evidenze ma ci si sta attivamente impegnando affinché possa diventare sempre più un prezioso strumento di comprensione del sistema mente-corpo investigabile secondo il paradigma scientifico moderno.

Chi è Alberto Chiesa

Medico, psichiatra, psicoterapeuta, istruttore di interventi basati sulla mindfulness (Mindfulness based Stress Reduction, MBSR e Mindfulness based Cognitive Therapy, MBCT).  Docente  presso  la  “Scuola  di  Psicoterapia  APC-SPC (Associaione di Psicologia Cognitiva – Scuola di Psicoterapia Cognitiva)”.  Dottorando  di ricerca in psicofarmacologia clinica presso l’università di Messina. Membro della European Clinical Neuropsychopharmacology association  (ECNP).  Autore di oltre 50  pubblicazioni  scientifiche,  molte  delle  quali  sul tema  della  mindfulness, e  del  libro Gli  interventi  basati  sulla  mindfulness:  cosa  sono, come agiscono, quando utilizzarli (Giovanni Fioriti Editore, 2011). Da anni pratica la meditazione Vipassana e Zen. Dal 2010 conduce gruppi di mindfulness, in particolar modo di MBCT per pazienti affetti da disturbi d’ansia e dell’umore e di MBSR per operatori della salute.

Riferimenti: 

Alberto Chiesa, The Difficulty of Defining Mindfulness: Current Thought and Critical Issues, Mindfulness, Volume 3/2012

Come inizia la coscienza


Denton

Perché abbiamo così terrore di perdere coscienza? Per lo stesso motivo per cui ricerchiamo esperienze che modifichino o alterino i nostri stati di coscienza. Da una parte mantenerci coscienti garantisce la nostra sopravvivenza. Dall’altra, modificare i nostri stati di coscienza ci porta a sperimentare qualcosa di piacevole, interessante, sicuramente emozionante. Le emozioni “primordiali” sono quelle che, secondo Derek Denton, in funzione dei recettori interni (enterocettivi), costituirebbero una sorta di prima autoconsapevolezza, sulle quali si edifica successivamente la coscienza nelle varie età della vita. Ciò che chiamiamo coscienza, consapevolezza di sé e degli altri, nonché dell’ambiente interno ed esterno a noi, è indissolubilmente cementato nel nostro sistema nervoso e nei nostri stati organici.

Più che ricercarne l’origine e le dinamiche, come avvenuto da millenni, in estenuanti e inconcludenti diatribe teologiche e filosofiche, dovremmo iniziare a studiare la coscienza nelle nostre funzioni basali e, anche, nel mondo animale – come del resto avviene nel processo di conoscenza di altri aspetti della nostra natura biologica. Che la coscienza abbia più una natura biologica che ultraterrena, è del resto esperienza quotidiana di ognuno di noi. Questa la tesi esposta con dovizia di evidenze sperimentali – anche con l’ausilio del neuroimaging – in questo ricco volume, frutto di anni di studio e scrittura da parte di Derek Denton, autorità internazionale nel campo degli istinti animali, della fisiologia integrativa, oltre che fondatore del più importante centro di ricerca australiano sul cervello (Howard Florey Institute). Se la coscienza è un prodotto dell’evoluzione, portatrice di vantaggi per la nostra sopravvivenza, per comprendere come si è andata costituendo nell’arco di milioni di anni, dobbiamo ricercarla negli animali, prima che negli umani. E possiamo farlo studiando ciò che forma l’impalcatura degli stati di coscienza, già nel mondo animale, persino negli invertebrati: le emozioni “primordiali”, quanto cioè porta l’organismo a soddisfare bisogni fondamentali come fame, sete, sonno, orgasmo e le altre funzioni fisiologiche fondamentali. Il compito che Derek Denton si è posto, è quello di guidarci attraverso una filogenesi della coscienza. Come in ogni viaggio riuscito, e soprattutto in questo, al termine della lettura ne sapremo molto di più: su di noi, in quanto umani, e sul nostro sé, immerso nella natura biologica. Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza di Derek Denton, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 368 (euro 40,00)