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Chi ti credi di essere?


newL’anno nuovo del settimanale britannico di divulgazione scientifica New Scientist si apre con una eterna domanda: chi ti credi di essere? Molti di noi tendono a sopravvalutarsi, sia in senso mentale che, soprattutto, riguardo l’attrattiva fisica. Perché aumenta l’autostima e ci fa stare bene. Si chiama superiorità illusoria. Per non incorrere in cocenti delusioni, meglio imparare ad essere più umili. Un buon proposito per il nuovo anno. Anche perché, come dice la psicologa americana Simine Vazire, esperta nello studio della personalità e della conoscenza di se stessi, l’attrattiva fisica, una qualità su cui molti di noi si preoccupano, è molto difficile da auto-giudicare. “La nostra precisione non è pari a zero, ma ci va vicino”, dice Vazire. Ma che c’è di male nel coltivare la superiorità illusoria? Stavolta ci fa luce lo psicologo Zlatan Krizan dello Iowa State University. Krizan fa notare che “per avanzare nella vita e nella società, dobbiamo fare scelte su dove investire i nostri sforzi, e su quali esiti mettere in gioco la nostra autostima. L’imprecisa conoscenza di sé ci porta a fare scelte sbagliate, contribuisce ad entrare in conflitto con gli altri, e, infine, ci rende carenti nei nostri sforzi”. Insomma anche per il nuovo anno rimane imperativo: conosci te stesso e conoscerai il mondo.

Il cervello innocente: intervista a Giuseppe Sartori


Viviamo in piena neurocultura secondo alcuni, neuromania per altri. Ci sono neuroscienziati e neurofilosofi. I secondi cercano di spiegare ai primi le conseguenze, soprattutto etiche, delle loro scoperte. Facciamo qualche esempio. Se le tecniche di visualizzazione cerebrale consentono di scovare alterazioni nel cervello di un criminale, ciò potrà influenzare il nostro giudizio sulla sua responsabilità e, di conseguenza, la pena che gli commineremo? Il dibattito è aperto, e già oggi vi sono procedimenti in tal senso. Le perizie a carico di neurologi, psichiatri o psicologi clinici si avvalgono della competenza professionale e sui mezzi che il periodo storico rende disponibili. Se in futuro le tecniche diagnostiche (e non semplicemente i test proiettivi, ad esempio) consentiranno di valutare modificazioni o alterazioni neuronali, anche minime, addirittura molecolari, dovremo tenerne conto nel giudizio sul comportamento di un criminale?

Lombroso partiva dalle caratteristiche fisiche dell’uomo delinquente, la criminologia successiva dagli aspetti psicologici e, oggi, addirittura da quelli neurobiologici. Altro elemento, a lungo dibattuto, è quello a carico dell’accertamento strumentale della testimonianza veritiera o fasulla. Esistono, o potranno esistere procedure di lie-detection (anche attraverso l’imaging cerebrale e non solo la registrazione dei parametri fisiologici) in grado di accertare se un teste mente o dice la verità? E, di nuovo, perché insistiamo a non riconoscere validità alle  moderne tecniche di lie-detection, il cui margine d’errore può essere inferiore al trenta per cento, quando una diagnosi crimolologica vecchio stile può sbagliare per oltre il cinquanta?

Anche prendendo in esame il solo campo neurogiuridico, ulteriore neologismo col prefisso “neuro”, è evidente che la massa di conoscenze, dati e scoperte mediati dalle neuroscienze è talmente vasta, intrecciata e complessa, da rendersi indispensabili strumenti di analisi critica, riflessione e, soprattutto, sintesi. Le neuroscienze ci prospettano una immagine di noi stessi che, per certi versi, si discosta, a volte in maniera radicale, da quelle ricavate dalla storia del pensiero precedente.

Dunque potremo un giorno sostenere, come il titolo di un recente saggio (Il delitto del cervello, Codice Edizioni), che è il cervello ad essere “colpevole” di un delitto o di un crimine? Se noi siamo il nostro cervello, una alterazione anche minima della biochimica cerebrale, non può essere alla base di un comportamento criminale? Insomma è sotto accusa il nostro cervello o la nostra personalità? Dove sta il confine? Enormi ed infiniti quesiti che il panorama aperto dalle neuroscienze ci fa solo intravedere. Abbiamo cercato di chiarirci le idee con Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia clinica presso l’Università di Padova e direttore del Master in Psicopatologia e neuropsicologia forense.

Proprio in questi giorni, si sta svolgendo a Padova, anche su iniziativa di Sartori, un convegno internazionale di neuroetica sul tema “Le neuroscienze tra spiegazione della vita e cura della mente”.

La sintesi grossolana di questa conversazione con Sartori, che dà anche il titolo a questo post, sembra comunque essere che il cervello è “sempre” innocente. Scoprite perché.

Professor Sartori vedo dal programma che affronterà il caso della cosiddetta “mano aliena”: di cosa si tratta?

Io come altri ci occupiamo di libero arbitrio. Da neuropsicologo lo affronto dal punto di vista di come lo studio delle patologie neurologiche può farci capire come noi prendiamo decisioni volontarie. Partendo dalla patologia, deduciamo, inferiamo il funzionamento normale della mente e come si produce l’azione volontaria. Ad esempio se ora preme un pulsante, lei ha un senso di proprietà della mano che preme ed è un tutt’uno con il senso della mano che preme, la finalità della mano che schiaccia, la finalità di premere il bottone e voler iniziare l’atto. Cioè è un’unica cosa. In realtà la sindrome della mano aliena dimostra che le cose sono scorporate. Nel senso che il soggetto con mano aliena che, ad esempio, potrebbe colpirsi la faccia, ha la sensazione che la mano sia sua, che l’azione sia finalizzata, cioè tirarsi delle sberle, ma non è lui a volersi tirare delle sberle. Praticamente la mano non obbedisce alla sua volontà.

Quali aree cerebrali sono interessate nella sindrome della mano aliena?

È poco studiata ed è considerata una condizione instabile, nel senso che non rimane a lungo immutata. Trattandosi di azioni volontarie, è riconducibile alla funzionalità del lobo frontale. Tutti i disordini dell’incapacità di iniziare un comportamento, sono riconducibili ad alterazioni del lobo frontale. Uno dei relatori del nostro convegno, Dylan Jones,  ha studiato approfonditamente le attività cerebrali legate alle azioni volontarie. E’ riuscito in particolare prevedere in base a una particolare attività del cervello, riferita all’area del lobo frontale, ancor prima che la persona ne sia direttamente consapevole, se è in procinto di muovere la mano destra o sinistra. Il lobo frontale contiene l’informazione che andrò a muovere la mano destra ancor prima che a me sembri di aver deciso di muovere la mano destra.

Nel recente Il delitto del cervello viene fuori questo paradosso che recita “Non sono stato io, ma il mio cervello”: è probabile che qualcuno prima o poi tenti di scagionarsi da un delitto in questo modo? 

Quel libro è il migliore che c’è in circolazione su questi temi, ma un concetto del genere non è assolutamente sostenibile. La posizione che sta portando avanti il gruppo di cui faccio parte è che le questioni di responsabilità sono svincolate da quelle relative al cervello. Dal punto di vista scientifico esiste la possibilità teorica di ricostruire il nesso di causa che determina ogni nostra azione. Ci avviciniamo sempre di più al lavoro di Dylan Jones, però dal punto di vista della responsabilità è una questione che ha a che fare con l’aspetto cognitivo e non col cervello. Le faccio un esempio. Se un soggetto è pedofilo, cioè agisce con azioni di natura sessuale nei confronti di un minore, può essere o non essere responsabile indipendentemente dal suo cervello. Ad esempio, vi sono delle pedofilie acquisite a causa di lesioni nella regione dell’ipotalamo, per tumori nella zona ipotalamica, che possono interferire con i nuclei dell’ipotalamo coinvolti nell’orientamento sessuale, dando origine a questo comportamento. Però dal punto di vista della questione se la pedofilia sia acquisita o congenita, è piuttosto irrilevante. Ciò che conta è la capacità di fare diversamente. I test sulla responsabilità sono di tipo psicolegale, non di tipo neurologico. Test di tipo psicolegale significa che si vada ad accertare la seguente questione: il soggetto è in grado di fare diversamente, se solo avesse voluto? Questo è il discrimine.

E la risposta finale qual è? Se parto dal concetto che una lesione o una alterazione del cervello potrebbe essere alla base di un comportamento criminale, posso dimostrare sia che un soggetto è innocente quanto colpevole, dal punto di vista della responsabilità personale.

Dipende. Prendiamo il caso Stevanin, privo di mezzo lobo frontale a causa di un incidente. Stevanin strangolava le sue vittime, durante incontri di sesso estremo. Qualcuno potrebbe dire: “la sua lesione gli provoca l’incapacità di fermarsi”. E’ un ragionamento logico, ma non è questa la dimostrazione. La domanda da porsi a monte è: “se lui vuole, può fermarsi quando vuole?”. I periti hanno risposto affermativamente, perché questi giochetti li faceva anche con la sua fidanzata e se voleva si fermava. Tant’è vero che non l’ha uccisa. Quindi che questo soggetto avesse o non avesse il cervello danneggiato nel lobo frontale, rispetto al crimine commesso è un fatto secondario. La questione del cervello è più che altro legata alla simulazione della malattia mentale. Prendiamo il caso di Breivik, il colpevole della strage di Oslo. Un gruppo di periti sostiene che non è imputabile perché schizofrenico, un altro gruppo invece che è imputabile perché non ha nulla. Breivik stesso non vuole essere considerato malato di mente. Si trova, eventualmente, nella condizione in cui nasconde, dissimula una sua psicopatologia. Nella condizione processuale il soggetto tende sempre a trasformare un po’ la sua psicopatologia, nella direzione che gli conviene. Breivik nella direzione di negarla, qualcun altro nella direzione di farla emergere. Studiare il cervello ci può aiutare a sapere se una psicopatologia è reale oppure no. Esistono tecniche, come la “voxel based morphometry” (VBM, una tecnica di neurorimaging che misura variazioni molto fini), che ci consentono di capire se Breivik ha un cervello schizofrenico, oppure no. In questo senso le neuroscienze aiutano.

In pratica, di un soggetto accusato di un crimine, va valutato tutto il percorso di vita, non soltanto gli aspetti neuropsicologici di quel determinato momento.

Il criterio per decidere se la sua azione è stata libera e volontaria, quindi responsabile, oppure se la sua azione è avvenuta al di fuori della sua volontà, quindi non è responsabile, non è un criterio di tipo neurologico, ma bensì di tipo cognitivo.  Prendiamo il caso di un paziente con ballismo, una patologia neurologica che provoca movimenti improvvisi e incontrollabili. Se un paziente del genere impugnando un coltello uccide per errore la moglie, è responsabile del suo movimento che ha determinato la morte? La risposta è no. Perché non è lui che l’ha voluto, ma è la malattia che si è sostituita alla sua volontà nel determinare il movimento. Facciamo un ragionamento per assurdo: immaginiamo che a causa del singhiozzo si possa uccidere. Una persona che ha il singhiozzo e a causa di esso uccide, è responsabile? La risposta è no. Perché, quella persona se anche avesse voluto non avrebbe potuto non singhiozzare. Il criterio della “mental insanity” è unicamente cognitivo, rispetto alla responsabilità.

E se quella persona ha una sindrome premestruale?

Qui entriamo nella zone grigie, perché sono esempi “né carne né pesce”. Quando i giuristi discutono lo fanno usando sempre degli esempi estremi, come quelli che ho appena fatto.

Ne Il delitto del cervello c’è un intero capitolo dedicato al caso dello psicopatico. E si cita l’assunto di quel giurista americano secondo cui, pur riconoscendo la psicopatologia del soggetto che ha commesso un crimine e ritenendo che ciò non costituisca attenuante, lo condanna in quanto “è necessario che la legge mantenga le sue promesse”. Ora se da una parte le neuroscienze sostengono che noi siamo il nostro cervello e i processi cognitivi sono un prodotto del cervello, come faccio a distinguere se ciò che commetto è frutto della “cognizione” oppure di una “disfunzione” del cervello? Non è la stessa cosa?

No, non lo è. Il criterio in base al quale lo decido è fenomenologico, riguarda i sintomi, non il cervello.

Mi sta dicendo che c’è un momento in cui il soggetto può decidere se compiere una certa azione oppure no. Il famoso libero arbitrio: pur alterato da qualcosa, mi rendo conto che sto per fare qualcosa di male, e decido di farlo comunque.

Esattamente. E questo è un criterio di tipo cognitivo, non neurologico. Lo psicopatico è perfettamente consapevole del fatto che sta facendo qualcosa di male. E lo fa comunque.

In base ai suoi studi, alle sue riflessioni e al confronto con i colleghi, come definirebbe oggi il libero arbitrio?

In realtà più che i filosofi e gli scienziati, sono i giuristi che in centinaia d’anni hanno seghettato minuziosamente il libero arbitrio. Perché i giuristi introduco delle sfumature particolari, ad esempio su concetto di “dolo eventuale”. Il dolo eventuale è un reato per cui, facendo un esempio, una persona passa con il rosso ed uccide un’altra persona. Cosa significa? La persona che non ha rispettato il rosso non voleva in realtà uccidere. Non aveva l’intenzione di uccidere, però passando col rosso la persona sa che si espone ad un rischio e decide liberamente di assumersi il rischio. Questa è una sfumatura ulteriore del libero arbitrio. Questo per dire che il libero arbitrio lo hanno analizzato molto meglio i giuristi che gli scienziati. Perché è una approssimazione progressiva di un sistema giudiziario che da centinaia d’anni, quotidianamente, si trova ad affrontare tutte le cose possibili ed immaginabili dell’agire umano. Di tutti i tipi di reato che rendono conto di un aspetto che prima non era previsto, e così via.

Tornando al semaforo rosso, si potrebbe fare l’esempio della nave da crociera che va a sbattere contro lo scoglio per una bravata: so di rischiare, ma lo faccio comunque. A rischio dei passeggeri , del mezzo e dell’ambiente.

Certo, e qui è ancora più grave. Perché se passo col semaforo rosso so che metto repentaglio, al massimo, la vita di tre o quattro persone, nel caso della nave so che rischio la vita di centinaia di persone.

Nel corso del convegno vengo anche discusse le tanto citate ricerche di Benjamin Libet, sull’attività cerebrale che anticiperebbe la volontà di agire. Vi sono state molte valutazioni di tali ricerche, e soprattutto delle conclusioni tratte: lei cosa ne pensa?

Ho lavorato con dei colleghi sulle questioni sollevate dalle ricerche di Libet, il quale dimostra che la nostra azione attiva e consapevole viene preceduta da una attività cerebrale che esiste e ci predispone all’atto prima che ne diveniamo consapevoli. E’ certamente un dato di partenza molto interessante. Nel nostro campo, riguarda un gamma di comportamenti delittuosi molto limitata: il cosiddetto “reato d’impeto”. L’agire d’impulso. Certamente non riguarda comportamenti pianificati come decidere dove andare in vacanza la prossima estate. Riguarda azioni elementari, ma dal punto di vista processuale conta anche quello. Perché c’è tutta una gamma di reati, chiamati “reazioni a corto circuito”, per cui ad esempio la moglie dice al marito che l’amante è più bravo di lui, e questo non capisce più nulla e l’uccide.

Oppure le aggressioni urbane per futili motivi: l’urtarsi sul mezzo pubblico, la lite per strada, il parcheggio.

Precisamente. Sono tutte situazioni in cui il colpevole del crimine poi dice: “mi sono trovato col coltello in mano e non so perché”.

Com’è dunque il rapporto tra neuroscienziati e giuristi?

Ci sono due filoni. C’è un filone estremista che dice: le neuroscienze stanno dimostrando che il libero arbitrio non esiste, quindi bisogna ripensare l’intero sistema della responsabilità e della punizione. C’è invece una corrente più cauta, a cui penso di appartenere, secondo cui le neuroscienze contribuiscono ad introdurre un po’ più di oggettività in un mondo in cui le tecniche argomentative, e non oggettive, la facevano da padrone. Perché più che neuroscienze o non neuroscienze, nel campo giudiziario c’è la differenza tra “evidence based” e “non evidence based”. Prenda il caso di Garlasco. Cosa dice il Pm? Dice qualcosa di intuitivo: “Stasi mente perché sostiene di essere andato dall’ingresso alla defunta immediatamente. Ma siccome lì c’erano delle chiazze di sangue e le sue scarpe non sono sporche di sangue, racconta balle”. Questa è una intuizione che si basa sull’assunto che uno cammini in linea retta. I periti hanno fatto un vero e proprio esperimento in cui hanno chiesto a trenta persone di compiere un certo tragitto su un piano macchiato. Ebbene: le persone non pestavano le macchie, stanno attente a non pestare le macchie di sangue. Ecco che la ricerca empirica ci dice qualcosa di diverso rispetto alla nostra intuizione, che è fallace. Questo è un bell’esempio di scienza nel processo. Dunque le neuroscienze contribuiscono a spostare l’asse dalla cultura filosofica-argomentativa alla cultura della verifica empirica.

Però diventa sempre più complesso condurre in porto un processo.

Certamente. Un altro bell’esempio è quello della testimonianza. Dico: “lo riconosco”. Ma la scienza dimostra che il riconoscimento è molto fallace e dipende da molti fattori.

Quindi le neuroscienze sono ben viste nei tribunali? E cosa vede nel prossimo futuro?

Sono la novità del momento e vedo un aumento esponenziale del loro contributo a livello legale e giuridico. Siamo soltanto all’inizio. Un altro esempio di applicazione è poter decidere se una persona simula oppure no la malattia mentale. Siamo all’intuizione rispetto al fatto di avere delle basi scientifiche per affermare che una persona simula o non simula la malattia mentale.

Cosa abbiamo a disposizione oggi oltre alla classica testistica di personalità?

Abbiamo anche una testistica  neuropsicologica molto accurata sull’identificazione del simulatore. Soprattutto abbiamo la logica della cosiddetta correlazione anatomo-clinica. Cioè andando a vedere il cervello di Breivik possiamo capire se ha un cervello da schizofrenico o da normale. C’è tutto un pattern di attivazione e di morfologia che coinvolge il lobo frontale piuttosto distintivo del paziente schizofrenico.

 Vuole dire che il base al neuroimaging possiamo dire se una persona è schizofrenica oppure no?

No. In base al sintomo, possiamo dire se quel cervello è congruente con quel sintomo.

Ma solo dall’immagine radiologica non possiamo dire se un cervello è schizofrenico oppure no.

Certo che no. Ma questo vale per qualsiasi sindrome neurologia. Se io vedo una lesione nell’area di Broca, non posso dire che quel soggetto è un afasico di Broca. Perché potrebbe non esserlo. Posso sostenere invece che quelli con una lesione nell’area di Broca tendono a sviluppare un quadro clinico che è simile a quella che conosciamo come afasia di Broca.

Cosa si aspetta da questo convegno?

E’ ormai arrivato alla quarta edizione e ogni volta cerchiamo di affrontare temi diversi. Quest’anno ad esempio affrontiamo anche l’argomento della psicoterapia che cambia il cervello. Perché funziona la psicoterapia quando funziona? Quando funziona i cosiddetti “responder” cambiano il cervello come lo cambiano a seguito di una farmacoterapia. Ovviamente rimane un grosso mistero come le due cose agiscano in modo più o meno simile nel cervello.

Come facciamo a stabilire se il cervello è cambiato a seguito della psicoterapia o, tanto per dire, del tempo che passa e delle circostanze di vita che si modificano?

Perché ci sono ormai modelli sperimentali appositi per verificarlo.

E le caratteristiche dei “responder” sono definibili?

Non tanto. Sono ricerche che vengono condotte su sintomatologie che vengono provocate, col metodo di “symptom provocation approach”. Patologie che possono essere provocate sono ad esempio la fobia. Se lei è fobico verso il ragno, mettendole davanti un ragno le induco una reazione fobica. Patologie che non possono essere provocate sono le allucinazioni. Non posso dire ad uno schizofrenico: “al mio via fatti venire un’allucinazione”. L’allucinazione viene per i fatti suoi. In sostanza, quello che si sa rispetto alle caratteristiche dei responder è su patologie che possono essere provocate. Quindi, disturbi ossessivo-compulsivi, fobie, reazioni ansiose.

Però, tornando alla questione della psicoterapia efficace o meno, pare che non sia tanto la tecnica quanto la figura dello psicoterapeuta a fare la differenza.

Vale a dire che è una questione relativa alla relazione, più che alla tecnica adottata. Entriamo in un ambito un po’ complesso. Riguarda la quantità di effetto placebo presente nella psicoterapia.

Quindi chi cambia il cervello andando dallo sciamano o in pellegrinaggio in un luogo sacro, anziché dallo psicoterapeuta?

Beh certo, il cambiamento non è mica specifico al discorso della psicoterapia. Se lei guarda le ultime ricerca nell’ambito della depressione, le ultime metanalisi dimostrano che il novanta per cento del beneficio dell’antidepressivo viene duplicato dall’effetto placebo. Per cui quanto di effetto specifico antidepressivo vi sia nel farmaco, è molto poco. Lo stessa cosa per quanto riguarda la psicoterapia.

Perché ritiene le ricerche di Dylan Jones così interessanti?

Perché utilizza le cosiddette tecniche di “mind reading” , cioè di decodificazione dello stato mentale sulla base dell’attività cerebrale. In pratica, dimmi come funziona il tuo cervello e ti dirò ciò che pensi. Si tratta di un altro filone in crescita. Vi sono tecniche molto sofisticate in tal senso oggi.

Ultima domanda: diceva che questo settore, le applicazioni giudiziarie delle neuroscienze, è in crescita esponenziale. Ma dove si formano gli specialisti in questo settore?

Un po’ alla volta si formeranno. Rientrano all’interno di professioni classiche come la psichiatria forense, la psicologia e la neuropsicologia forense. Ci sono poi avvocati che utilizzano queste tecniche per costruire teorie giuridiche, strategie processuali. Ma è un’altra questione. A Padova, da quest’anno, è stato introdotto il primo corso di psicologia del giudizio e della decisione alla facoltà di  giurisprudenza, a cura del professor Rino Rumiati. Vengono insegnati ai giuristi i meccanismi della mente e del cervello nell’ambito giudiziario. Un po’ alle volte le cose stanno cambiando.

* All’indirizzo www.fondazionebassetti.org è possibile seguire i lavori del convegno in diretta streaming.

Il volo del diavolo


Ho finito di leggere il libro di Simone Goldstein ed Anna Condorelli, due  psicoterapeuti che da anni si occupano di pazienti affetti da neoplasie e li aiutano ad affrontare il difficile percorso delle cure , notoriamente aggressive , che questi pazienti devono affrontare. Il loro intervento è basato sul ridare un senso alla relazione con se stessi e con la malattia evitando di farli manipolare dal terapeuta. Ho collaborato anni fa con Goldstein aprrezzandone l’ intelligenza ed il carisma del suo intervento e recentemente l’ho reincontrato in un convegno a Schio dove ho presentato il mio libro  Il cervello anarchico.

Il loro libro è una ristampa e la sua lettura mi ha messo in difficoltà proprio in relazione al mio comportamento di terapeuta che per anni ha affrontato la difficile tematica del tumore polmonare cercando di proteggere il malato dalla conoscenza della sua malattia e della sua prognosi infausta, quod vitam , aiutato in questo dai parenti che tenacemente si sono sempre opposti a chè il malato conoscesse la propria diagnosi. Proprio su questa manipolazione i due autori sono convinti , in base alla loro esperienza , che è molto meglio per il paziente conoscere la verità in quanto questa conoscenza consentirebbe di attivare quelle risorse e quella speranza che altrimenti non verrebbero  espresse. Il tema è assai complesso ed io rimango dell’ idea che di fronte ad una malattia mortale , a breve termine , sia difficile per il malato tollerarne la conoscenza anche se , in realtà , tutto il procedere terapautico e sintomatico sono da soli espressione di un percorso inequivocabile. Scrivono gli autori : come ben documentato dagli studi sull’effetto  “placebo”, in certe occasioni è una determinata modalità tecnica – comunicativa a fornire potenza e credibilità alla sostanza presentata come farmaco. L’impatto terapeutico , allora , viene prodotto dalla forma che assume la relazione , la quale , per essere efficace , deve assolutamente manifestarsi come espressione congrua di un sistema di convinzioni condivise tra i partecipanti. Queste convinzioni dicono più o meno così : ” quello che sta succedendo in questa interazione produce salute “.

La speranza , scrivono ancora gli autori , in sostanza è la rappresentazione di uno svolgimento positivo per se , futuro , che si alimenta della consapevolezza dei processi attuali e dell’ attenzione alle proprie risorse. Nella speranza non c’è una sottovalutazione del rischio , al contrario c’ è una grande considerazione di questo : la persona ammalata grave che manifesta speranza sa che può perdere la partita , ma non gioca a vincere in un senso solo , sa che questa è una delle possibilità , e non l’ unica. Al contrario di una persona che vive nell’ illusione, la persona che vive nella speranza , accetta la propria situazione e si rende disponile al cambiamento , a lasciare che l’esperienza scorra e che si modifichi , e a considerare le diverse manifestazioni dell’ esistenza come segnali che indichino la  strada  da seguire.           

 Una persona ammalata che non nutre speranza non ha accettato la condizione in cui si trova e ciò   la porta a perdere la gestione dei propri processi . Come può un individuo accettare la propria condizione se quello che fanno attorno a lui , dai familiari ai medici agli amici è tentare di togliergli la possibilità di farsi responsabile di sè , innanzitutto distorcendo la realtà attraverso una manipolazione macchinosa delle informazioni ? Come vedete cari amici  il ragionamento dei due autori non fa una piega ed io mi cospargo il capo di cenere per i miei 30 anni di manipolazioni a fin di bene vissuti con i miei malati nel desiderio di proteggerli dall’ angoscia di morte che inevitabilmente quel tipo di malattia induce.

Le Zone Blu


Dan Buettner, esploratore e scrittore è un giornalista scientifico che ha realizzato numerose spedizioni globali interattive online.  Il libro, pubblicato dalla National Geographic, riporta le sue ricerche sulla longevità e con il termine  Zone Blu  vengono definite le  zone del globo ove vi è maggiore concentrazione di longevi. Fra le prime classificate è riportata l’isola di Okinawa, seguono la Sardegna, la cittadina di Loma Linda in California e la penisola di Nicoya nel Costa Rica. L’autore sintetizza in 9 punti i segreti di queste popolazioni  e come pneumologo che si occupa di prevenzione e longevità  nei fumatori…mi piace  sintetizzarveli  in questo blog.

Fatta la doverosa premessa che nessuno dei longevi ha mai fumato ecco i 9 punti:

1° camminare a passo relativamente svelto (5 km ora) per 30 minuti almeno 5 volte alla settimana

2° ridurre del 20 % l’apporto nutrizionale a conferma che la restrizione calorica è l’unico marker che sposta la sopravvivenza

3° puntare su una alimentazione ricca di cereali e povera di carni in particolare privilegiare le verdure crude . Mangiare tutti i giorni 25 grammi di frutta in guscio ( ricca di omega 3 ).

4° bere alcoolici con moderazione ma bere almeno un bicchiere di vino rosso al giorno ed in particolare il canonau sardo evidentemente ricco di resveratrolo integratore che  senpre più sta diventando il best seller di questi ultimi anni

5° darsi uno scopo nella vita – consiglio valido a 360 gradi in quanto l’obbiettivo è comunque di svegliarsi al mattino con una motivazione che potrebbe anche semplicemente essere quella di accudire figli o nipoti o il proprio orticello….

6° rallentare il ritmo della propria vita anche semplicemente fermandosi ogni tanto a contemplare la natura , allontanarsi dal rumore e meditare.  La meditazione sembra essere molto importante nel ridurre la infiammazione dei tessuti ed ormai è assodato che l’ infiammazione è la premessa di ogni malattia. Una alternativa alla meditazione, procedura non semplice per noi occidentali figli di Cartesio, potrebbe essere la respirazione secondo il metodo del prof. Buteiko. Esercitatevi 15 minuti due volte al giorno a fare solo 6 atti respiratori profondi al minuto e tutti i vostri parametri biologici rallenteranno. La pressione arteriosa si riduce , la frequenza cardiaca si abbassa e tutto il metabolismo rallenta. Il prof. Parati ha recentemente confermato questi dati in uno studio ad alta quota effettuato su un gruppo di volontari dell’Istituto Auxologico.

7° abbracciate una religione qualsiasi , anche il buddismo e partecipate almeno una volta al mese a riunioni di adepti.

8° occupatevi dei vostri famigliari o anche semplicemente dei vostri amici

9° abbiate un carattere gradevole e state assieme ad un amico o ad un parente  almeno 30 minuti al giorno .

ed in tutto questo pare che la genetica incida solo del 25 %  per non parlare degli eventi stocastici come quello di finire sotto una macchina…auguri cari amici e buon lavoro.

Sono proprio io!


Leggete il seguente profilo di personalità tracciato a suo tempo da Bertram Forer. Si rivolge sia a uomini che a donne. Vi riconoscete? Se sì, potreste entrare a far parte di un club molto esclusivo…

Vuoi che gli altri ti amino e ti ammirino. Hai la tendenza ad essere autocritico. Possiedi un notevole potenziale inutilizzato che non hai sfruttato a tuo favore. Pur avendo alcuni punti deboli, in genere riesci a compensarli. Rigoroso e dotato di autocontrollo fuori, tendi a essere inquieto e insicuro dentro. Talvolta hai seri dubbi sul fatto di aver preso la decisione giusta o fatto la cosa giusta. Preferisci un pizzico di cambiamento e varietà, e ti senti frustrato quando sei ostacolato da restrizioni e limitazioni. Ti vanti di essere un pensatore indipendente, e non accetti le affermazioni degli altri senza prove concrete. Ti è tuttavia sembrato incauto essere troppo schietto nel rivelarti agli altri. A volte sei estroverso, affabile e socievole, mentre in altre occasioni sei introverso, diffidente e riservato. Alcune delle tue aspirazioni tendono ad essere poco realistiche.