Ho finito di leggere il libro di Simone Goldstein ed Anna Condorelli, due psicoterapeuti che da anni si occupano di pazienti affetti da neoplasie e li aiutano ad affrontare il difficile percorso delle cure , notoriamente aggressive , che questi pazienti devono affrontare. Il loro intervento è basato sul ridare un senso alla relazione con se stessi e con la malattia evitando di farli manipolare dal terapeuta. Ho collaborato anni fa con Goldstein aprrezzandone l’ intelligenza ed il carisma del suo intervento e recentemente l’ho reincontrato in un convegno a Schio dove ho presentato il mio libro Il cervello anarchico.
Il loro libro è una ristampa e la sua lettura mi ha messo in difficoltà proprio in relazione al mio comportamento di terapeuta che per anni ha affrontato la difficile tematica del tumore polmonare cercando di proteggere il malato dalla conoscenza della sua malattia e della sua prognosi infausta, quod vitam , aiutato in questo dai parenti che tenacemente si sono sempre opposti a chè il malato conoscesse la propria diagnosi. Proprio su questa manipolazione i due autori sono convinti , in base alla loro esperienza , che è molto meglio per il paziente conoscere la verità in quanto questa conoscenza consentirebbe di attivare quelle risorse e quella speranza che altrimenti non verrebbero espresse. Il tema è assai complesso ed io rimango dell’ idea che di fronte ad una malattia mortale , a breve termine , sia difficile per il malato tollerarne la conoscenza anche se , in realtà , tutto il procedere terapautico e sintomatico sono da soli espressione di un percorso inequivocabile. Scrivono gli autori : come ben documentato dagli studi sull’effetto “placebo”, in certe occasioni è una determinata modalità tecnica – comunicativa a fornire potenza e credibilità alla sostanza presentata come farmaco. L’impatto terapeutico , allora , viene prodotto dalla forma che assume la relazione , la quale , per essere efficace , deve assolutamente manifestarsi come espressione congrua di un sistema di convinzioni condivise tra i partecipanti. Queste convinzioni dicono più o meno così : ” quello che sta succedendo in questa interazione produce salute “.
La speranza , scrivono ancora gli autori , in sostanza è la rappresentazione di uno svolgimento positivo per se , futuro , che si alimenta della consapevolezza dei processi attuali e dell’ attenzione alle proprie risorse. Nella speranza non c’è una sottovalutazione del rischio , al contrario c’ è una grande considerazione di questo : la persona ammalata grave che manifesta speranza sa che può perdere la partita , ma non gioca a vincere in un senso solo , sa che questa è una delle possibilità , e non l’ unica. Al contrario di una persona che vive nell’ illusione, la persona che vive nella speranza , accetta la propria situazione e si rende disponile al cambiamento , a lasciare che l’esperienza scorra e che si modifichi , e a considerare le diverse manifestazioni dell’ esistenza come segnali che indichino la strada da seguire.
Una persona ammalata che non nutre speranza non ha accettato la condizione in cui si trova e ciò la porta a perdere la gestione dei propri processi . Come può un individuo accettare la propria condizione se quello che fanno attorno a lui , dai familiari ai medici agli amici è tentare di togliergli la possibilità di farsi responsabile di sè , innanzitutto distorcendo la realtà attraverso una manipolazione macchinosa delle informazioni ? Come vedete cari amici il ragionamento dei due autori non fa una piega ed io mi cospargo il capo di cenere per i miei 30 anni di manipolazioni a fin di bene vissuti con i miei malati nel desiderio di proteggerli dall’ angoscia di morte che inevitabilmente quel tipo di malattia induce.
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Non so bene perché,caro Enzo,ma le parole che scrivi come “volo del diavolo”mi fanno venire in mente una pagina di Aldo Gargani in “Sguardo e Destino”.
…..scopriamo che noi non siamo il soggetto,noi risaliamo ad esso e poi non lo conosciamo,risaliamo senza fine le tracce che esso lascia dietro di sé e scopriamo che noi non siamo il soggetto,risaliamo indietro senza fine e non facciamo altro che confermare lo stato dell’ENIGMA.
….noi viviamo la nostalgia della nostra esistenza,precisamente la grande nostalgia del pericolo che siamo sempre stati per noi stessi, che è il pericolo interno,più forte di qualsiasi pericolo esterno.”
Ti ringrazio per avermi fatto conoscere questo libro circa 20 anni fa.
Caro Filippo recuperando queste parole di Gargani ( che profondità quel libro ) hai centrato il bersaglio del senso della ” relazione ” come affrontata dai due autori del ” Volo del diavolo ” . Il vero grande pericolo per la nostra salute infatti nasce dalla scorretta relazione impostata dentro di noi nel rapporto con noi stessi e con gli altri e da cui siamo incapaci di uscire come fossimo dentro una gabbia.
Il primo intervento terapeutico di Simone Goldstein su una mia paziente fu proprio nel farla uscire da un dissidio famigliare in cui era ingabbiata da vari anni e di cui io non sapevo nulla se non che aveva sviluppato un tumore polmonare e che io tentavo di curarla. Non a caso , dopo questo intervento di recupero famigliare ,questa paziente convisse con la sua malattia per oltre 10 anni……..
non so se mi è sempre stata detta la verità,ma la ho sempre ricercata; partendo dal concetto che non sono immortale ho reagito come ho potuto, convicendomi che nel lasso di tempo a disposizione c’era quanche cosa di bello da vedere,scoprire innanzitutto. Poter assaporare quello che varie emergenze avevano oscurato. Il mio ragionamento,un pò semplicistico: giusto la verità, è una scossa , spinge in avanti, ci fa iniziare una nuova vita. Detta nel modo giusto(non come una condanna alla ghigliottina,quasi con cattiveria) e lasciando sempre uno spiraglio al sogno, a una corrente di “calore”.
Sono stata fortunata.
P.S.- sono attirata dall’acceno ai libri fatto dal suo coobloger cartaceo e non – a quando?