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Enzo Soresi: “Come sono giunto ad occuparmi di Pnei e fisiologia delle emozioni”


SoresiEnzoDal 1968 al 1998, per 30 anni, presso la Divisione di pneumologia dell’ospedale Ca’ Granda di Niguarda mi sono impegnato nella diagnosi e nella terapia dei tumori polmonari. In particolare, uno di questi, noto come microcitoma o Small Cell  Lung Cancer, di struttura neuroendocrina, sembrava essere negli anni ’70 un tumore guaribile con la chemio e radio terapia. Purtroppo,  proprio le caratteristiche neuroendocrine che rendevano questo tipo di tumore  molto sensibile alle terapie, nello stesso tempo, ne favorivano la diffusione metastatica ed alla fine era sempre il tumore a vincere la sua battaglia. Dimessomi dall’Ospedale nel ’98,  fu proprio la riflessione su questo tipo di tumore e sulla sua struttura  neuroendocrina a stimolarmi  a scrivere un particolare libro dal titolo Il cervello anarchico edito dalla Utet nel 2005 e giunto oggi alla quarta  ristampa con De Agostini. In questo libro sviluppo la relazione fra sistema neuroendocrino, sistema immunitario e strutture mesolimbiche del cervello cioè le strutture emozionali. Su queste basi è nata, negli Stati Uniti, negli anni ’60, una nuova scienza definita Pnei (Psico Neuro Endocrino Immunologia) di cui il vero  fondatore può essere considerato l’immunologo Edwin Blalock.

Si deve infatti a questo scienziato, fra le tante scoperte, quella che i globuli bianchi linfociti, quando producono anticorpi contro un determinato antigene (blastizzazione) liberano nel sangue, nel contempo, tutti  gli ormoni ipofisari.  Nel mio libro racconto numerosi casi clinici spiegando come l’effetto placebo e l’effetto nocebo siano strettamente correlati  allo stato emozionale del’individuo e quindi come  anche le malattie possano essere  collegate all’assetto psichico del soggetto come peraltro già il filosofo Antifonte  aveva ipotizzato circa 300 anni prima di Cristo lasciando questa massima : “è  il cervello che dirige il corpo verso la salute o  le malattie così come verso tutto il resto”.

La Pnei chiarisce molto bene  il rapporto fra stress e sistema immunitario ed ha consentito di mettere in rilievo il contributo dello stress nell’abbattimento delle difese immunitarie dell’organismo e quindi nell’instaurarsi di condizioni di maggiore vulnerabilità  con un aumento della probabilità di sviluppare malattie anche gravi (1).  La fisiologia dello stress implica l’attivazione dell’asse ipotalamo –ipofisi-surrene che, a sua volta, aumenta la produzione di neurotrasmettitori e ormoni quali adrenalina, noradrenalina e cortisolo.  Le cellule immunitarie, di conseguenza, possono essere marcatamente alterate dall’esposizione cronica allo stress attraverso la eccessiva stimolazione dei  recettori di membrana per i glicocorticoidi.

Nel 2010, dopo la lettura di un libro di una psicanalista di Oxford, Sue Gerhardt,  dal titolo Perché dobbiamo amare i bambini  (Raffaello Cortina), ho organizzato un convegno in cui vari esperti hanno spiegato ciò che questa collega aveva intuito e cioè che il disagio psichico dei bambini, già nei primi anni di vita, vada correlato alla costruzione del cervello che avviene negli ultimi sei mesi di vita fetale e nei primi due anni di vita neonatale. In questa  periodo  si costruiscono oltre ai programmi motori  anche i programmi emozionali, in modo interattivo con l’ambiente, ed è per questo motivo  che la malattia psicosomatica, come da sempre sostenuto dagli psicoanalisti, ha le radici  biologiche in questa fase neonatale.

Sulla base di questi concetti nel 2012 con la collaborazione di due giornalisti scientifici, Pierangelo Garzia ed Edoardo Rosati, abbiamo pubblicato un libro dal titolo Guarire con la nuova medicina integrata (Sperling & Kupfer) in cui si spiega, in particolare in oncologia, l’importanza di  sfruttare le medicine complementari per meglio sostenere l’impatto con la tossicità delle terapie antitumorali  e l’importanza dell’assetto psichico nel sapere affrontare con la adeguata  “resilienza” l’impatto con PNEI_OKla malattia. La resilienza è chiaramente collegata alla costruzione del cervello dei primi anni di vita ma la si può comunque ottimizzare con il supporto di tutti coloro che stanno vicino al malato con affetto e abnegazione. La resilienza in sostanza è la capacità di tollerare uno stress protratto senza che l’equilibrio biologico venga alterato in modo irreversibile. L’influenza che emozioni e credenze consolidate sul proprio sé e nel rapporto con il mondo possono esercitare nella reazione alla malattia , determinano effetti misurabili sulla capacità del corpo di guarire, diminuendo le probabilità di recidiva rafforzando il sistema immunitario nei confronti dei processi cancerogeni (2).

1. Biondi M. Psiconeuroimmunologia , in Pancheri P. , Cassano G. Trattato italiano di psichiatria, Masson, Milano ,1992

2. Faretta E. Trauma e malattia. L’EMDR in psiconcologia,  Mimesis

Neuropsicoanalisi, EMDR, Mindfulness, e altre cose. Intervista a Jaak Panksepp (seconda parte)


PankseppTopoJaak Panksepp è proprio come traspare dal suo eccezionale volume “Archeologia della mente”. Ricco di idee, preparato in diversi campi delle neuroscienze, dell’etologia e della psicologia. Tra i quali riesce ad gettare ponti inaspettati, creativi, intuitivi. Ma con solide basi nei risultati delle ricerche. E’ uno di quegli studiosi di cui l’universo delle neuroscienze ha più bisogno: in grado di operare sintesi, mettere assieme le tessere dell’infinito mosaico composto dal cervello e dalla mente. Affabile, generoso, disponibile al dialogo.

Lo ricontatto una seconda volta. E prima di prendere l’ennesimo aereo verso le molteplici destinazioni internazionali verso le quali è chiamato per prendere parte a convegni, seminari, tenere lezioni e conferenze sulle sue scoperte, risponde ad un supplemento di domande. E’ talmente denso Archeologia della mente, e talmente evidente la forza di uno studioso, di un carattere, che traspare da ogni appassionata pagina, che ce ne sarebbero mille di altre domande da rivolgere a Panksepp. Mi limito soltanto a qualcuna. Non devo abusare del cervello di Panksepp. Per quanto affettivo. Mi manda tra l’altro un suo recente lavoro in cui vengono riassunte tre strategie antidepressive ricavate dalle considerazioni delle neuroscienze affettive.

Perché ha scelto di scrivere questo libro con una psicoanalista? E qual è il contributo di Lucy Biven?

Avevo incontrato Lucy Biven una prima volta quando mi invitò a parlare ad un evento che stava organizzando. Si offrì di collaborare con me per facilitare la scrittura di questo libro, oltre a portare molti suoi casi clinici di rilievo. Ma il mio editore americano, Norton, si raccomandò che tali casi venissero eliminati. Lungo la strada, ho inoltre scoperto che la nostra scrittura e i nostri stili di pensiero non erano intrecciabili… Ciò ha causato molte difficoltà nel portare il progetto verso una conclusione soddisfacente. Ho insistito sul fatto che il progetto finale fosse interamente sotto la mia responsabilità, in modo da non essere più aggravato da inutili errori.

Le vengo attribuiti una varietà di qualifiche: psicologo, psicobiologo, neurobiologo. Lei come preferisce definirsi?

Vanno bene tutte, ma psicobiologo si avvicina maggiormente alla mia attività. È ottimale “neuroscienziato affettivo” (da quando ho coniato il termine e sono stato il primo a concettualizzare questo campo di studi).

Nel libro descrive anche esperienze personali di sofferenza e di dolore. Come si può continuare a lavorare con la mente in queste situazioni? Chi studia la psicologia umana come lei, ne trae aiuto in questi momenti difficili?

Sì, è stato un viaggio molto lungo e difficile. Ho attraversato circa un anno e mezzo di chemioterapie, per quello che si rivelò essere un linfoma resistente al trattamento. Vale a dire che i trattamenti intrapresi, al momento, non hanno funzionato. Poi sono andato al Seattle Cancer Care Alliance, dove sono stati perfezionati i trapianti di midollo osseo e di cellule staminali. Il trattamento stimato per una durata di due mesi, si è esteso a quattro. In tutto ciò, ho continuato a lavorare su questo libro. Con l’energia e il tempo che mi erano consentiti.

Cosa ne pensa di pratiche terapeutiche emergenti come EMDR e Mindfulness, di cui accenna nel volume?

Penso che siano creative e utili per vari problemi psichiatrici e psicologici. Nessuno sa come funzionano. Ma l’EMDR sembra permettere il riconsolidamento dei ricordi negativi, in un modo affettivamente più “indolore”. La Mindfulness dà alle persone le competenze personali autocoscienti per mettere più facilmente da parte le loro preoccupazioni. Permettendo Panksepp_treStrategiealla mente di stabilire con grazia qual è il proprio posto nella società, nel mondo e nell’universo.

Che tipo di rapporto ha con la psicoanalisi e che cosa salva oggi di essa?

Buono. Sono ancora co-presidente della International Society for Neuropsychoanalysis, e ho incontri periodici con diversi gruppi clinici. Compresi i gruppi psicoanalitici interessati al nuovo movimento teso ad associare i problemi mentali e cerebrali in insiemi coerenti. Sono felice che questo campo stia integrando prospettive neurali e mentali, in un modo che rispetti pure le menti evolutivamente correlate di altri animali. Non possiamo capire il cervello senza considerare la natura della mente.

Vedi anche:

Archeologia della mente: intervista a Jaak Panksepp

Archeologia della mente: le emozioni che tutti ci accomunano

Jaak Panksepp, Jason S. Wright, Máté D. Döbrössy, Thomas E. Schlaepfer and Volker A. Coenen, Affective Neuroscience Strategies for Understanding and Treating Depression: From Preclinical Models to Three Novel Therapeutics, Clinical Psychological Science 2014 2: 472

Archeologia della mente: intervista a Jaak Panksepp


PankseppSe si potesse conoscere tutto del cervello. Se si potesse capire come è fatto. E come funziona. Come si è costruito nell’arco di milioni di anni. Prodotto e vertice di miliardi di anni di evoluzione di vita sulla terra. Se si potesse comprenderne gli aspetti più nascosti e celati. Quella struttura di base che ci accomuna tutti. E che ci mette in relazione col mondo animale. Quando siamo allietati da un gatto o un cane è perché le emozioni di base del loro cervello sono come le nostre. Quando ci commuoviamo per la sofferenza di un nostro simile, è perché il suo cervello prova ciò che proviamo noi. Non c’è razza. Non c’è ideologia o religione. Né lingua. O appartenenza politica. Attaccamento alla nazione. C’è solo quello che abbiamo nelle profondità del nostro cervello. Quel fuoco interno che tutti ci muove. Ci spinge ad agire. Quello che ci fa arrabbiare. Amare. Soffrire. Gioire. Deprimere. Aggredire. Ricercare. Uccidere. Salvare. Soccorrere. Aiutare. Curare. Memorizzare. Apprendere. Inventare. Tutto ciò ha un solo nome: emozioni. Affetti. Legami. E’ lì dentro, nei recessi del cervello in cui si generano le emozioni che Jaak Panksepp sta cercando da decenni di studi e ricerche il motore primordiale di tutto ciò che pensiamo e facciamo. E se l’uomo è davvero il vertice dell’evoluzione su questo pianeta, in qualsiasi specie vivente di questo modo, in ogni animale terrestre, e in particolare nei mammiferi, deve essersi conservata traccia del nostro cervello arcaico. Nei comportamenti animali ci deve essere qualcosa di noi. E viceversa. Nei recessi del nostro cervello devono esserci celati lo scrigno e i tesori per comprendere, educare e curare la mente umana.

In ciò che abbiamo chiamato inconscio, nella sua base neurobiologica, Panksepp cerca di scoprire, comprendere ed interpretare i sette sistemi affettivi di base. Le fondamenta e l’impalcatura su cui ognuno di noi costruisce la propria personalità. Attraverso i quali facciamo scelte per tutto l’arco della nostra vita. Grazie ai quali scegliamo e agiamo. Una volta decodificati, una volta analizzati sul piano neurobiologico e neurochimico, i sistemi affettivi di base dovranno guidarci non soltanto in quanto medici, psichiatri e psicoterapeuti, ma pure genitori, insegnanti, politici, filosofi, artisti. Non c’è aspetto umano che non venga toccato dalle ricerche e dalle scoperte di Jaak Panksepp. Il suo volume Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane (Raffaello Cortina Editore) è il portolano in grado di guidarci tra i mari emotivi della vita. Una mappa. Come tutte le mappe, perfezionabile. Ma chi usa questa mappa, chi la legge, non può che emozionarsi a sua volta, come deve avere fatto chi l’ha redatta. Non può che entusiasmarsi per come Panksepp sia riuscito a realizzare una sintesi efficace di quanto scoperto fino ad oggi sul cervello. A produrre una teoria della genesi e del funzionamento della mente attorno al perno delle neuroscienze affettive.

Perché le emozioni sono così importanti nella nostra vita?

Il comportamento emotivo fornisce elementi utili per affrontare le varie emergenze della vita. E le stesse sensazioni sono un codice per le traiettorie di sopravvivenza. Tutte le sensazioni emotive positive ci informano che siamo sulla fiorente strada della sopravvivenza. E tutti i sentimenti affettivi negativi ci dicono che potremmo essere in percorsi di vita tali da non supportare la sopravvivenza. Questo, naturalmente, vale anche per i nostri piaceri e dolori sensoriali, nonché per effetti omeostatici come la fame e la sete.

Lei è considerato il padre delle neuroscienze affettive. Come ha avuto l’idea di creare questa nuova branca delle neuroscienze?

Ero interessato ad avere una migliore comprensione dei disturbi psichiatrici, e ho deciso che ciò avrebbe richiesto una conoscenza fondamentale di come i sentimenti emotivi sono creati dalle attività del cervello. Quando ho iniziato le mie ricerche nel 1965, c’era pochissima discussione su come avremmo mai potuto capire i disordini delle sensazioni emotive. Così ho deciso che l’unico modo per comprenderle era quello di avere modelli animali in cui i dettagli neurobiologici potessero essere studiati meglio.

Quali critiche hanno ricevuto le sue teorie?

Nel complesso vi è stato un sacco di sostegno e apprezzamento per l’apertura di questo settore. Tuttavia, gli psicologi comportamentisti che hanno governato la conversazione mezzo secolo fa, non avevano interesse per tali questioni, e pensavano che questi temi fossero al di là della capacità della scienza di trovare una risposta. Dal loro punto di vista, avevano ragione. Nel senso che gli studi focalizzati unicamente sul comportamento non sarebbero mai stati sufficienti per un’adeguata comprensione. E dal momento che non avevano svolto alcuna ricerca sul cervello, il presupposto era che la comprensione dettagliata non si sarebbe mai potuta ricavare attraverso le sensazioni emotive degli animali. Naturalmente si sbagliavano, ma tale lavoro ha richiesto il contributo delle neuroscienze. Molti comportamentisti da cui si sente ancora affermare che tali risposte non possono essere ottenute dalla ricerca sugli animali, sono tuttora molto felici di criticarmi  per il fatto di esplorare zone in cui, secondo loro, la scienza non avrebbe mai potuto andare.

Quelli che lei chiama cervello “superiore” e “inferiore” potranno mai funzionare al meglio assieme? In che modo?

I vari strati evolutivi del cervello sono stati progettati per lavorare insieme. I processi primari precedenti sono oggetto di critica da parte delle regioni superiori del cervello (e della mente), più interessate da tale attività cognitiva. Così come vi sono molti percorsi neurali per le emozioni profonde (sottocorticali), vi sono aree del cervello che controllano il cervello superiore (ad esempio, l’attività neocorticale). Questo aiuta a stimolare le nostre menti in modo emotivo per aiutare a risolvere i problemi della vita. Ci sono anche molti controlli dall’alto verso il basso, che possono permettere di rispondere ai risvegli emozionali con saggezza. Per esempio: essere arrabbiato con, per quanto tempo e quanto intensamente.

Come possiamo gestire lo stress?

Ci sono due strade principali per la gestione dello stress. Il primo, a livello dei processi primari, bisogna coltivare la propria capacità di provare emozioni più positive. Emozioni soprattutto sociali come l’assistenza e ciò che ho definito in maiuscoletto, tra i sette sistemi affettivi di base, GIOCO (gioia sociale). Questi aspetti sono particolarmente importanti per lo sviluppo infantile ottimale e la sana maturazione mentale (vale a dire, che fornisce resistenza contro lo stress). L’altro modo è quello di comprendere il potere delle proprie emozioni, coltivando forme di vita integrate nei nostri modi mentali di essere. Che siano favorevoli e positivi. Che forniscano molti strumenti cognitivi per contrastare e regolare il tipo di sentimenti negativi che possono rendere la vita miserabile. Naturalmente, tutto ciò che ci fa capire le basi neurobiologiche dei nostri sentimenti, può anche contribuire a sviluppare nuovi e più efficaci farmaci per diversi disturbi psichiatrici.

In Italia stiamo assistendo a un fenomeno tragico: una lunga serie di omicidi, di uomini che uccidono donne, compagne ed ex partner. Le neuroscienze affettive come leggono questo drammatico e doloroso fenomeno?

In generale, i maschi hanno sistemi di quella che nei sette sistemi affettivi di base definisco COLLERA (rabbia) più forti rispetto alle femmine. E dal momento che il testosterone promuove anche gli organismi più forti, le due cose spesso prendono un cattiva strada nel comportamento verso le donne. E’ saggio comprendere i tipi di sistemi emotivi primordiali. Interrogarsi su come vengano generati dal nostro cervello, per cercare di educare il nostro cervello e la nostra mente con una saggezza che ci consenta di porre le nostre passioni in prospettiva. Forse la comprensione della natura biologica delle emozioni di questi uomini che aggrediscono le donne, vi aiuterà in questo tipo di apprendimento. Una formazione che sarebbe utile a tutti: capire come le loro menti inferiori funzionano e come gli aspetti più distruttivi possano essere migliorati con le conoscenze neurobiologiche e la saggezza umana.

Spesso si parla di quando entreremo in contatto con extraterrestri. Ma per entrare in relazione con gli alieni, in base alle sue teorie, dovremmo potere disporre dei medesimi sistemi affettivi di base.

Nessuno conosce la risposta a questa domanda. Ma la probabilità è alta che gli altri mondi abitati nell’universo possano avere problemi di sopravvivenza molto simili per essere preoccupati come noi. Quindi, anche se ci potranno essere molte differenze nei dettagli comportamentali e nel cervello, dovrebbero esserci pure alcuni principi generali comuni. Non c’è scienza su tali questioni in un modo tale che si possa anche soltanto formulare delle ipotesi. Ma basti pensare che tutti i mammiferi che vivono sulla terra, così come molti altri animali, hanno sistemi emotivi primordiali molto simili.

Quali sviluppi si aspetta per il futuro delle neuroscienze affettive?

Una conoscenza più dettagliata e lo sviluppo di farmaci psichiatrici nuovi e più efficaci.

Vedi anche:

Neuropsicoanalisi, EMDR, Mindfulness, e altre cose. Intervista a Jaak Panksepp (seconda parte)

Archeologia della mente: le emozioni che tutti ci accomunano

A che gioco giochiamo noi primati. Intervista a Dario Maestripieri

Mente, cervello & pelle: la sindrome di Morgellons. Intervista alla psicodermatologa Anna Graziella Burroni


AnnaGraziellaBurroniEcco un’altra parte del nostro corpo che ha dirette connessioni col nostro cervello: la pelle. E, in particolare, con la nostra psiche. Tanto che si è sentita la necessità di creare una disciplina nella disciplina: la psicodermatologia o dermatologia psicosomatica. Questo perché la pelle non è un semplice rivestimento del nostro corpo. Bensì nasce dalla stessa matrice del nostro sistema nervoso, l’ectoderma, e con esso mantiene sempre stretti rapporti di parentela. Con la psiche ha da sempre dialoghi più o meno inconsci. Metafore che sottolineano questo stretto rapporto. “Era verde di rabbia”. “Aveva la pelle fredda e sudaticcia dall’ansia”. “E’ questione di pelle”. “Non sto più nella pelle”.

La pelle è l’organo più esterno del nostro corpo. Secondo i dermatologi, il vero specchio della nostra anima. E sulla pelle spesso si concretizzano i problemi del nostro sistema nervoso. Dei tormenti che ci portiamo dentro. Che, appunto, devono trovare uno “sfogo” all’esterno. Da studi in campo psicologico e psichiatrico, non ci sarebbe disturbo o malattia della mente che non si manifesti anche con qualche alterazione a livello dermico. Dallo stress cronico, fino alle più serie malattie mentali. E’ come se la sofferenza interiore non avesse parole per esprimersi e, nel farlo, scegliesse il linguaggio della pelle. Fino a trovare espressioni insolite e strane, come la “sindrome di Morgellons”.

Descritta per la prima volta nel diciassettesimo secolo, quando Sir Thomas Browne, uno scrittore e medico inglese , definì “Morgellons” una condizione in cui apparivano strane e improvvise eruzioni pilifere sulla schiena dei bambini. Negli anni più recenti la Morgellons è diventata la cattiva coscienza della nostra era tecnologica. La cui causa è sempre da ricercarsi all’esterno di noi stessi. Nelle tossiche e inquinanti scie chimiche disperse nei cieli dagli aerei. Se non addirittura per intervento di malintenzionati Ufo e alieni. L’uso della rete e lo scambio internazionale di informazioni, in tempo reale, ha fatto il resto. Tanto da far scrivere ai medici, sulle riviste scientifiche di dermatologia psicosomatica, che la Morgellons è estremamente contagioso: si trasmette attraverso i media. E si manifesta con la sensazione di insetti che camminano sotto la pelle. Dermatiti pruriginose e lesioni da cui fuoriescono strani filamenti. Che di solito i pazienti raccolgono in barattoli o scatolette da portare con sé quando si fanno vedere da un dermatologo. Una testimonianza fisica, da analisi di laboratorio, di una sofferenza tutta interiore. Che deve trovare parole, espressioni, in un’era tecnologica, razionale, che però non sempre riesce a rispondere alle pressioni dell’irrazionale.

E forse non è un caso che la Morgellons, come idea di malattia autodiagnosticata, si diffonda in concomitanza storico-sociale con la diffusione di massa dei tatuaggi. La pelle, l’involucro più esterno del nostro corpo, l’interfaccia tra interno ed esterno, che non è mai superficie neutra. Deve comunicare sempre qualcosa. Con i capelli, la barba, il trucco, le ferite autoinferte, i tatuaggi, le malattie e le pseudomalattie dermatologiche, come la Morgellons. La pelle è la mappa della nostra psiche.

«A me la Morgellons ha sempre affascinato», racconta Anna Graziella Burroni, docente di psicodermatologia all’Università di Genova e presidente della Società italiana di dermatologia psicosomatica,  «e ne ho parlato in diversi congressi. E’ molto attuale per noi che ci occupiamo di questi argomenti. C’è un bellissimo lavoro, recentissimo, in cui l’hanno studiata con strumenti modernissimi, i microscopi confocali, senza però arrivare a nessuna certezza. A nessun dato che possa confermare trattarsi di una vera malattia dermatologica. Ma bensì il vecchio delirio di parassitosi che, passato di moda, è stato soppiantato da questo. Fino a quando non si arriverà  a qualcosa di concreto, per la formazione che ho, devo necessariamente vederla nell’ottica di una patologia legata ad un aspetto psichiatrico di delirio».

E quando un dermatologo si trova di fronte una persona che lamenta la Morgellons, che fa?

«Mi è capitato il caso di una giovane donna», risponde Burroni, «con tutto il quadro tipico: fibromialgia, turbe del sonno, cadute di capelli, abbassamenti della vista. Il Morgellons non ha soltanto l’aspetto cutaneo: sono stati descritti fino a settantaquattro sintomi. In realtà le sue lesioni cutanee erano da grattamento e la solita scatolina che questi pazienti portano come prova dei “filamenti” usciti dal loro corpo, in realtà erano soltanto crosticine cutanee. Interpreto tutto ciò come la manifestazione di una grande sofferenza. Perché quando un paziente viene da me e porta un sintomo, mi vuole comunicare qualche cosa. E quindi, anche se il mio atteggiamento nei confronti della Morgellons è scettico, è assolutamente concreto verso la sofferenza della persona. Di conseguenza adotto una tecnica di grande ascolto per comprendere cosa può non andare nella vita di questa persona, tanto da portarla a sviluppare questo tipo di patologia. E l’aiuto che posso dare come psicodermatologa, partendo dalla cura della sintomatologia più esterna, per arrivare a curare le ragioni più profonde, anche col supporto di colleghi psichiatri e psicoterapeuti, ma sempre nel  momento maturato dal paziente».

Per saperne di più:  

Söderfeldt Y, Groß D, Information, consent and treatment of patients with morgellons disease: an ethical perspective, Am J Clin Dermatol. 2014 Apr.

Middelveen MJ, Mayne PJ, Kahn DG, Stricker RB, Characterization and evolution of dermal filaments from patients with Morgellons disease,Clin Cosmet Investig Dermatol, 2013.

Massimo Polidoro, Rivelazioni. Il libro dei segreti e dei complotti, Piemme, 2014. Capitolo “Malattie misteriose”.

Valerio Droga, Mente e corpo, cos’è la Psicodermatologia? Intervista ad Anna Graziella Burroni, presidente Sidep.

Pierangelo Garzia, introduzione a: Anna Zanardi, Psicosomatica della pelle, Tecniche Nuove, 2005. 

 

 

Si fa presto a dire placebo


RobertJütte_01Quando si tratta di medicine complementari capita si parli anche di effetto placebo. Chi dice “è tutto placebo” dell’omeopatia o dell’agopuntura, connotando negativamente, se non con disprezzo, il fenomeno. Chi dice “ma guarda che pure gli animali vengono curati con l’omeopatia e non si può certo dire che siano influenzabili dall’effetto placebo come noi”. Chi si limita a constatare che il fenomeno esiste ed ha a che fare con la suggestione. Trattando il fenomeno con sufficienza – somministrare un farmaco o un trattamento fasulli facendo credere che siano efficaci – alla stregua di un gioco di prestigio. Un inganno, però a scopo benefico.

In realtà il fenomeno è molto più complesso, ramificato e interconnesso con tutta una serie di dinamiche. Non ancora del tutto chiarite. Entrano in gioco fattori psicosomatici, l’ambiente culturale e religioso, le attese, le aspettative e le speranze verso chi ci assiste, ci cura e ci somministra medicine e trattamenti. Addirittura, tra i molteplici fattori, l’aspetto e l’arredamento in cui veniamo curati, i colori, gli odori, i profumi. Il colore e l’aspetto dei medicinali. E, naturalmente, il rapporto medico-paziente. La fiducia, l’empatia e il rispetto che riponiamo in quanti ci curano. Non solo medici, ma terapeuti in generale. Che poi sono coloro che, avendo recuperato un rapporto globale con i pazienti, spesso sopperisco alle mancanze relazionali dei medici. Magari trincerati dietro le loro scrivanie, i loro apparati tecnici. Senza il minimo contatto fisico col paziente. Dimenticando che la cura è prima di tutto relazione, accoglienza dell’altro sofferente, in senso globale. Durante l’incontro di studio sul placebo, di cui parliamo più avanti, è infatti riemerso il concetto di “trattare il paziente, non la malattia”.

Dall’etimologia della parola, derivata da un proverbio, che all’origine significava “portare qualcosa di piacevole”, il termine venne coniato dal medico e farmacologo inglese Alexander Sutherland nel 1763 e in seguito introdotto nel linguaggio sanitario dal medico scozzese William Cullen nel 1772. All’origine con placebo  non si intendeva una sostanza inerte, ma, ad esempio, un basso dosaggio di medicamento considerato, dal punto di vista medico, inefficace.

“Nel tardo 18° secolo – dice Robert Jütte – il termine ‘placebo’ entrò a far parte del gergo medico. In contrasto con l’opinione prevalente che indica il medico e farmacologo scozzese William Cullen (1710-1790) come colui che nel 1772 avrebbe introdotto  l’espressione nel linguaggio medico, il credito deve essere dato ad un altro medico inglese, Alexander Sutherland (nato prima del 1730 – morto dopo 1773). La ragione principale della  gestione del placebo alla fine del 18° secolo nella pratica medica è stata motivata dal soddisfare la domanda del paziente e le sue aspettative. Un altro motivo era l’ostinazione del paziente: la motivazione alla base di tali prescrizioni consisteva nel prescrivere farmaci inerti per soddisfare la mente del paziente, e non con il fine di fornire alcun diretto effetto curativo”.

Ad indagare i molteplici e ramificati aspetti dell’effetto placebo – dopo interi trattati e convegni sul tema – ci ha di nuovo provato, a maggio delle scorso anno, un gruppo di studiosi riuniti a Villa La Collina, sulle rive del Lago di Como. Due giorni intensi di confronto tra ricercatori, soprattutto tedeschi, su sollecitazione di Robert Jütte, storico della medicina, in particolare dell’omeopatia e dell’effetto placebo. Tra i relatori del workshop anche un veterinario, per la prima volta ad un convegno sul placebo. Come è emerso dal confronto e dalle ricerche presentate, anche gli animali risentono positivamente o negativamente (esiste anche il contrario: l’effetto nocebo) dal rapporto con il loro curante, oltre che con il loro compagno umano. Chiunque abbia un cane o un gatto sa quanto l’effetto empatico scatti con la parola, la carezza o anche semplicemente lo sguardo indirizzati all’animale domestico. L’omeopatia veterinaria, peraltro, esiste fin dagli inizi del 1800, anche se scarseggiano le pubblicazioni cliniche al riguardo.

Temi e confronti di questo incontro sono ora raccolti nell’ultimo numero di Complementary Therapies in Medicine, in cui emerge come sia necessario andare oltre l’idea lineare di malattia, guardandola invece nella sua prospettiva multifattoriale. In cui l’effetto placebo rientrerebbe nei processi di autoguarigione insiti in ognuno di noi. Di conseguenza viene ribaltata la posizione del placebo: da fatto marginale, si pone come questione centrale della medicina. Dentro questa semplice definizione, vi stanno invece una molteplicità di fattori, un intreccio vasto e variegato tra i poli medico e paziente, salute e malattia, mente e mondo esterno. Un effetto che ha a che fare con la risposta naturale dell’organismo, con ciò che ne sollecita o ne induce la risposta naturale, piuttosto che provocarla.

“Attualmente circa 2000 pubblicazioni hanno a che fare con la risposta al placebo – spiega Paul Enck, Università di Tubinga, Germania – e 150 con la risposta nocebo. Sembra vi sia una certa omogeneità della risposta in condizioni cliniche: tra il 30 e il 40% di tutte le condizioni sembrano mostrare qualche risposta placebo”.

Non è facile definire il placebo, come non lo è farlo per l’empatia, un elemento basilare nel rapporto fiduciario di cura. Per la ricerca, diventa perciò importante mettere a punto un questionario che elenchi gli elementi peculiari di ciò che definiamo empatia. Ognuno di noi chiede vi sia professionalità, competenza tecnico-scientifica, ma, allo stesso tempo,  che vi sia con il curante un “rapporto umano”. Ogni volta che veniamo trattati in modo freddo e distaccato in un ambiente adibito a ricevere e curare le persone – non soltanto dal medico, ma anche da infermieri, segretari o tecnici – ne risentiamo sul piano psicologico. Pure l’accoglienza fa parte della cura. Anzi, ne è un prerequisito fondante.

Infine, se vogliamo, come hanno scritto due studiosi del fenomeno “fino a tempi recenti, la storia delle cure mediche è essenzialmente la storia dell’effetto placebo” (Shapiro A.K., Shapiro E., The placebo: is it much ado about nothing?,
Harrington A., Ed., The placebo effect: an interdisciplinary exploration, 1997, Harvard University Press).ComplementaryMedicineT

Nella foto:  Robert Jütte

Fonti:  Complementary Therapies in Medicine, The Placebo Effect and its Ramifications for Clinical Practice and Research: An Expert Workshop, Lake Como, Italy, 4-6 May 2012, Volume 21, Issue 2, April 2013, Pages 94–97

Intervista audio a Robert Jütte sul placebo (in tedesco)

Vedi anche:  Placebome: si chiariscono gli aspetti genetici e neurofisiologici dell’effetto placebo

Emozioni, malattie e mindfulness


SinapsiNeuroniPochi giorni fa mia figlia Ludmilla, all’esame di psicologia  dinamica, alla domanda di “come si ammala la mente ” così ha risposto: è insensato, alla luce delle attuali conoscenze, considerare il corpo e la mente separati. Candace Pert, neuropsicologa e ricercatrice a cui si deve la scoperta dei recettori degli oppiacei nel 1976, scrisse che la mente è nel corpo allo  stesso modo in cui  si trova  nel cervello e che  “le emozioni nascono nel punto di congiunzione tra materia e mente ” passando dall’una all’altra in tutti e due i sensi ed influenzandole entrambi.

All’ inizio degli anni ’80 è stato scoperto che solo il 2% delle comunicazioni del nostro sistema nervoso avviene tramite le sinapsi che collegano i neuroni. Sulla base di questa scoperta Francis Schmitt ha ipotizzato che esiste un sistema extrasinaptico costituito da ormoni e neuropeptidi, cioè sequenze di aminoacidi con legame peptidico. Queste scoperte sono successivamente state ampiamente confermate e molti di questi neuropeptidi identificati (endorfine angiotensina, vasopressina  ecc. ). Tutte queste sostanze viaggiano attraverso il sangue o il liquido interstiziale del nostro organismo  e vanno a colpire i recettori specifici situati sulla membrana  delle cellule  endocrine ed immunitarie ma,  in prevalenza, sulle  cellule delle strutture mesolimbiche o emozionali del cervello; in particolare dell’amigdala, nucleo cerebrale responsabile delle emozioni.

Queste sostanze, definite da Schmitt informazionali, regolano tutto il nostro comportamento biologico, la nostra salute o le nostre malattie e si possono considerare le basi molecolari delle emozioni. Neuropeptidi, recettori cellulari, cervello e tutti gli organi del nostro corpo sono collegati in una unica rete psicosomatica il cui contenuto informazionale è dettato dalle emozioni. Ne consegue che corpo e mente sono costantemente collegati e, se come ha scritto Damasio, nessun atto razionale prescinde da un contenuto emozionale, è logico dedurre come  la costruzione del nostro benessere sia  costantemente collegata ad ogni azione della nostra vita.

Emozioni e neuropeptidi 

Se quindi le nostre emozioni sono liberamente espresse, i neuropeptidi sono liberi di circolare nel nostro organismo,  se invece le reprimiamo il rischio è quello di cattive informazioni alle nostre cellule e possibile nascita di sintomi o malattie o altro per anomala  produzione di neuropeptidi. Avere quindi fiducia nel riconoscere ed  esprimere liberamente le nostre emozioni e nel sapere interagire serenamente con chi ci sta attorno è la base della nostra salute. La nostra vita sarà tanto  più autentica quanto più sapremo modulare il nostro Sé ed interagire con il Sé degli altri.  Come osservò  Daniel Goleman,  esiste un quarto di secondo in cui le nostre emozioni emergenti sono collegate all’evento del momento. Dopo questo breve intervallo le emozioni vengono “ingabbiate ” in stereotipi comportamentali sia cognitivi che affettivi. Sulla base di queste considerazioni,  come non pensare con curiosità, alla meditazione Mindfulness di nuova generazione,  come tecnica per stare sempre in buona salute cercando di essere consapevoli di quella breve frazione di tempo in cui si libera l’emozione? Per inciso con questa non semplice risposta Ludmilla si è meritata un bel 30 e lode.