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Serve ancora la psicoanalisi? Ovvero: l’inconscio costa


Ho conosciuto, frequentato e intervistato grandi psicoanalisti, addirittura “padri” della disciplina nel nostro paese, come Cesare Musatti ed Emilio Servadio. Ed altri della generazione successiva, come Mauro Mancia, e pure critici nei confronti dell’establishment psicoanalitico, come Elvio Fachinelli. L’impressione che ne ho ricavato è stata di trovarmi di fronte a personaggi di grande intelligenza, sensibilità, preparazione, apertura mentale. Intenzionati ad esplorare non soltanto il disagio metale, ma pure le infinite variazioni che cultura, creatività, espressione artistica, offrono alla comprensione della psiche umana. Ma tuttavia consapevoli di rappresentare una disciplina che si propone come chiave di intepretazione della psiche, della personalità e dell’agire umano, costantemente in divenire.

Ho conosciuto persino demolitori della psicoanalisi, come Hans Eysenck, uno dei fondatori della psicologia comportamentale che, ai gloriosi lunedì letterari che un tempo si svolgevano al Piccolo Teatro di via Rovello a Milano, tenne una conferenza dal titolo fin troppo esplicito: “declino e caduta dell’impero freudiano”. Eysenck che era tra l’altro dotato di fine umorismo british, negava totalmente l’esistenza di ciò che viene  definito “inconscio”. Quando gli chiesi: “E allora i sogni?”. Mi rispose con un sorriso tra l’ironico e il sarcastico: “Non hanno alcun significato”.

Ho incontrato pure James Hillman e concordo in parte con lui: cento anni di psicoanalisi e il mondo va sempre peggio. In parte, perché forse, senza psicoanalisi, sarebbe andato ulteriormente peggio.

La psicologia comportamentale è stata una “deriva” necessaria del secolo scorso. Aveva necessità e urgenza di affrancarsi dall’influenza della filosofia (non dimetichiamo che in passato non vi era alcuna differenza tra psicologia e filosofia). Doveva diventare pienamente scientifica e sperimentale. Accantonando, per un certo periodo, tutto ciò che era reame “interiore”. Questa scissione schizoide – oggi possiamo storicamente affermarlo – è stata in parte compensata dalla psicoanalisi freudiana. Ma anch’essa si trovò nella necessità di affermarsi sul piano rigorosamente scientifico, per quanto fosse possibile e, soprattutto, plausibile. C’era, come ebbe più volte ad affermare Freud, sempre il rischio che gli psicoanalisti fossero scambiati per studiosi di fenomeni “occulti” (interessi che del resto spopolavano tra gruppi di accademici e scienziati di fine Ottocento, inizi Novecento).

Il rigore della psicoanalisi feudiana, tuttavia, generò una ulteriore messa al bando di tutti quei fenomeni psichici che le teorie di Freud non erano in grado di interprerare. Da qui la scissione con Jung e la nascita di una ulteriore disciplina: la psicologia del profondo (o analitica). Di scissione in scissione o, se preferiamo, di moltiplicazione in moltiplicazione, siamo oggi giunti a svariate centinaia di diversi indirizzi psicoterapici (ne erano stati censiti più di 300 nei soli Stati Uniti, che incrementano di giorno in giorno – vale dunque la pena di attenersi alla regola: esistono tanti indirizzi psicoterapici quanti sono gli psicoterapeuti). Una ulteriore necessità storica è stata quella di voler legare la psicoanalisi alle scoperte delle neuroscienze – molto mitigata, per difficoltà oggettive, in questi ultimi anni. Penso che ricercare l’inconscio nel cervello, per certi versi sia simile a volerci scovare l’anima.

Trovo ulteriore conferma di quanto dico – progressivo distanziamento dall’entusiasmo iniziale sui rapporti tra psicoanalisi e neuroscienze –  dal XV Congresso nazionale della Società psicoanalitica italiana (Spi) che si conclude oggi a Taormina (Esplorazioni dell’inconscio: prospettive cliniche). Dal programma si desume un interesse preminente per gli aspetti più clinici e culturali della psicoanalisi, che non per le presunte dimostrazioni nell’ambito delle neuroscienze. Questi ultimi percorsi, mi pare di capire, hanno rischiato una ulteriore deriva della psicoanalisi: nel tentare di rintracciare i correlati neurologici dell’inconscio, si finisce magari col trascurare le ramificate e cangianti dinamiche del medesimo.

Che l’inconscio non sia fisso e inamovibile come quello concepito da Freud, lo conferma anche Stefano Bolognini, psichiatra, psicoanalista e presidente della Spi. Nell’intervista che ha rilasciato a Egle Santolini (“Nell’era dell’uomo catamarano”, La Stampa, 28 maggio 2010) afferma riguardo i pazienti che giungono in analisi: «Sempre più spesso, invece che i classici sintomi nevrotici, con i tradizionali comportamenti ossessivi o ansiosi, ci troviamo a fare i conti con un dolore sordo, poco strutturato, indefinito. Il fatto è che è l’inconscio ad essere mutato».

Ma, mi domando: se l’inconscio muta, ha ancora senso chiamarlo inconscio? E l’inconscio cambia, sicuramente, anche a seguito della crisi economica e sociale che ci attanaglia. Non auspico certo una “psicoanalisi popolare”, per mettere in analisi e “curare” l’intera società, come capitò di sentir dire in passato (e comunque uno psichiatra come Ronald Laing può oggi essere considerato profetico, per come seppe intuire e descrivere i guai mentali che avrebbe prodotto un certo tipo di cultura sociale e industriale).

Un trattamento psicoanalitico, un tempo distribuito su cinque volte la settimana, oggi viene “ridotto” a tre o quattro. I costi? Dai 40 agli 80 euro, a seduta. Avere un inconscio, costa. In tutti i sensi. Non passerà molto e qualcuno proporrà che, in tempi di crisi e siccome muta, conviene abolirlo. Oppure applicare una pesante tassa sull’inconscio. Per legge.

Il cervello religioso


Quando lavoravo con Marco Margnelli (ricercatore del Cnr in neurofisiologia, medico, psicoterapeuta e pioniere nello studio degli stati modificati di coscienza) abbiamo atteso a lungo la realizzazione di un volume come questo (Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Astrolabio, pp. 476, 38 euro). Ci furono soprattutto i testi di Margnelli appunto, gli studi e le pubblicazioni di Riccardo Venturini, medico anch’egli, ordinario di psicofisiologia clinica e maestro di meditazione buddhista mahayana (con un’ulteriore laurea in filosofia). Un percorso di studi e interessi più unici che rari, soprattutto nel panorama culturale e scientifico italiano. Di Venturini è tra l’altro la prima edizione italiana di Daniel Goleman – successivamente divenuto celebre col suo testo sull’intelligenza emotiva e susseguenti – con un volumetto sulle varie esperienze di meditazione (Esperienze orientali di meditazione. Manuale di psicologia degli stati alterati di coscienza e delle tecniche di meditazione, Savelli, 1982; oggi introvabile).

 Questo di Franco Fabbro è un volume poderoso che, appunto, mancava e di cui si avvertiva l’esigenza. Soltanto un personaggio formato in campo medico, con specializzazione e quindi solide conoscenze in ambito neurologico, oltre che psicologico, associate a motivazioni proprie per la ricerca interiore, avrebbe potuto realizzare. Costituisce una summa di informazioni e conoscenze per tutti coloro che siano interessati allo studio delle esperienze religiose, del misticismo, dell’estasi,  insomma della modificazioni (endogene ed esogene) degli stati di coscienza, ma pure della malattia – quale esperienza irrinunciabile della condizione umana. Nelle prospettiva della neuropsicologia e delle neuroscienze.

Come è riuscito a dire nella prefazione lo scrittore friulano e amico dell’autore, Carlo Sgorlon (scomparso il giorno di Natale dello scorso anno, anch’egli era residente ad Udine dove insegna Fabbro): «Credo che pochi come Franco Fabbro conoscano lo strumento della nostra conoscenza, di cui ognuno è convinto essere l’organo più perfetto e misterioso di cui il miracolo della vita ci ha dotati. Se la vita, la natura, anzi tutto l’Universo, con i suoi miliardi di galassie, sono misteri da tutti i versanti, il cervello dell’homo sapiens è il mistero dei misteri. Le nozioni che Fabbro ci fornisce su di esso e sulle sue parti (la corteccia, il corpo calloso, l’ippocampo, il lobo occipitale, quello frontale, quelli temporali) sono una fonte di meraviglia senza fine».

Anche questo rapporto di amicizia e scambio, arricchimento culturale, tra un neuroscienziato e un grande scrittore come Sgorlon, ma pure con il poeta Pierluigi Cappello, denota la volontà di Franco Fabbro di non voler cercare le sue risposte esistenziali in un’unica direzione. In questa chiave di lettura, trova una possibile interpretazione il senso di passione “rinascimentale”, fortemente umanistica, oltre che scientifica, che le dense pagine di questo volume trasmettono al lettore. Si comprende che il tentativo è anche quello di produrre una sintesi, riannodare un matrimonio, tra cultura scientifica e cultura umanistica (si veda ad esempio il capitolo sull’epilessia estatica di Dostoevskij). Non è semplice, ma Fabbro ci prova.

Vi è profuso un lavoro davvero notevole per portare il lettore a condividere con l’autore le conoscenze fino ad oggi accumulate sulla conoscenza del cervello, le funzioni dei neurotrasmettitori, gli effetti delle sostanze psicoattive e la loro influenza nella genesi di certi movimenti religiosi, la natura di sonno e sogni, lo sciamanesimo e molto altro. Accanto a quanto hanno evidenziato le tecniche di visualizzazione del cervello (neuroimmagine) e i vari percorsi dell’indagine neuropsicologica, psicopatologica e, in generale, delle neuroscienze.

Franco Fabbro è un neuroscienziato “spiritualista” e, perciò, fuorimoda, fuori dal paradigma scientifico condiviso? Per sua stessa ammissione non nega il suo forte coinvolgimento, fin da bambino, con l’educazione e le esperienze religiose. Ha il coraggio di dichiarare pubblicamente il suo profondo interesse per gli stati di confine della mente e della  coscienza. La sua decisione di fare medicina e neurologia, come Fabbro ci racconta nell’introduzione, è susseguente alle sue motivazioni, di carattere esistenziale e filosofico, di occuparsi delle grandi questioni della vita umana. Anzi, di primo acchito, si iscrisse a filosofia e, contemporaneamente, venne accolto al seminario di teologia di Udine.

Non molti medici oggi, se non dopo aver raggiunto alcuni traguardi della propria carriera,  ammettono ciò che intimamente sperimentano: essersi accostati alla medicina e alla pratica clinica, anche, a volte soprattutto, per cercare una risposta ai grandi interrogativi sul senso del vivere, soffrire, morire.

La sua “vita a doppio binario”, come Fabbro stesso la definisce nell’introduzione, ne fa invece un ricercatore unico nell’orizzonte attuale, degno della massima attenzione e considerazione. Il rischio è quando uno studioso imbocchi una via a senso unico (troppo materialista o troppo spiritualista), perdendo di obbiettività e rigore scientifico – trovandosi a dire e fare di tutto per dimostrare le proprie tesi. In Franco Fabbro, mi pare, sia invece mantenuto un sano equilibrio tra le sue “due vite parallele”. E una onestà intellettuale nel renderci partecipi del suo percorso nel giungere a maturare simili interessi, studi e riflessioni.

«Non ho mai indagato – scrive Fabbro nelle note autobiografiche introduttive – che  cosa pensassero veramente i miei colleghi neurologi e neurofisiologi di queste mie ‘scorribande’ in ambiti considerati proibiti. Sospetto che allora, e forse anche oggi, provassero nei miei confronti dei sentimenti ambivalenti. Non si poteva dire che ero uno sprovveduto, perché ero in grado di pensare e realizzare ricerche scientifiche ‘standard’ (che stavano cioè all’interno del paradigma scientifico comunemente accettato e condiviso). D’altra parte manifestavo delle pericolose propensioni verso argomenti che venivano considerati con sospetto. Tuttavia l’interesse verso tematiche religiose e spirituali fino ad ora non si è mai manifestato in maniera troppo esplicita. La capacità di percorrere due vite parallele, tenendo a bada i miei interessi filosofici e spirituali, mi ha permesso di completare la mia carriera accademica».

Più che un libro, questo è un vero e proprio trattato, ricchissimo di riferimenti e adeguate illustrazioni scientifiche. Ed è ancora più intessate per la partecipazione appassionata all’argomento, oltre alla capacità di autoanalisi, di cui l’autore ci rende partecipi. Da tutto ciò, e anche dalle pubblicazioni precedenti, si comprende molto bene che Franco Fabbro (neurologo e ordinario di neuropsichiatria infantile all’Università di Udine) è senza dubbio uno dei più preparati e originali studiosi di queste tematiche.

Questo testo è destinato a diventare un classico della materia. Un volume che, una volta tanto, merita di essere tradotto e diffuso pure all’estero. L’unica pecca (tuttavia rimediabile in ulteriori edizioni) per un volume così denso e ricco di informazioni? Non disporre di un indice analitico.

Intervista a Franco Fabbro all’interno del programma “Le Storie”(Raitre, 2/12/2011) condotta da Corrado Augias.

Il volo del diavolo


Ho finito di leggere il libro di Simone Goldstein ed Anna Condorelli, due  psicoterapeuti che da anni si occupano di pazienti affetti da neoplasie e li aiutano ad affrontare il difficile percorso delle cure , notoriamente aggressive , che questi pazienti devono affrontare. Il loro intervento è basato sul ridare un senso alla relazione con se stessi e con la malattia evitando di farli manipolare dal terapeuta. Ho collaborato anni fa con Goldstein aprrezzandone l’ intelligenza ed il carisma del suo intervento e recentemente l’ho reincontrato in un convegno a Schio dove ho presentato il mio libro  Il cervello anarchico.

Il loro libro è una ristampa e la sua lettura mi ha messo in difficoltà proprio in relazione al mio comportamento di terapeuta che per anni ha affrontato la difficile tematica del tumore polmonare cercando di proteggere il malato dalla conoscenza della sua malattia e della sua prognosi infausta, quod vitam , aiutato in questo dai parenti che tenacemente si sono sempre opposti a chè il malato conoscesse la propria diagnosi. Proprio su questa manipolazione i due autori sono convinti , in base alla loro esperienza , che è molto meglio per il paziente conoscere la verità in quanto questa conoscenza consentirebbe di attivare quelle risorse e quella speranza che altrimenti non verrebbero  espresse. Il tema è assai complesso ed io rimango dell’ idea che di fronte ad una malattia mortale , a breve termine , sia difficile per il malato tollerarne la conoscenza anche se , in realtà , tutto il procedere terapautico e sintomatico sono da soli espressione di un percorso inequivocabile. Scrivono gli autori : come ben documentato dagli studi sull’effetto  “placebo”, in certe occasioni è una determinata modalità tecnica – comunicativa a fornire potenza e credibilità alla sostanza presentata come farmaco. L’impatto terapeutico , allora , viene prodotto dalla forma che assume la relazione , la quale , per essere efficace , deve assolutamente manifestarsi come espressione congrua di un sistema di convinzioni condivise tra i partecipanti. Queste convinzioni dicono più o meno così : ” quello che sta succedendo in questa interazione produce salute “.

La speranza , scrivono ancora gli autori , in sostanza è la rappresentazione di uno svolgimento positivo per se , futuro , che si alimenta della consapevolezza dei processi attuali e dell’ attenzione alle proprie risorse. Nella speranza non c’è una sottovalutazione del rischio , al contrario c’ è una grande considerazione di questo : la persona ammalata grave che manifesta speranza sa che può perdere la partita , ma non gioca a vincere in un senso solo , sa che questa è una delle possibilità , e non l’ unica. Al contrario di una persona che vive nell’ illusione, la persona che vive nella speranza , accetta la propria situazione e si rende disponile al cambiamento , a lasciare che l’esperienza scorra e che si modifichi , e a considerare le diverse manifestazioni dell’ esistenza come segnali che indichino la  strada  da seguire.           

 Una persona ammalata che non nutre speranza non ha accettato la condizione in cui si trova e ciò   la porta a perdere la gestione dei propri processi . Come può un individuo accettare la propria condizione se quello che fanno attorno a lui , dai familiari ai medici agli amici è tentare di togliergli la possibilità di farsi responsabile di sè , innanzitutto distorcendo la realtà attraverso una manipolazione macchinosa delle informazioni ? Come vedete cari amici  il ragionamento dei due autori non fa una piega ed io mi cospargo il capo di cenere per i miei 30 anni di manipolazioni a fin di bene vissuti con i miei malati nel desiderio di proteggerli dall’ angoscia di morte che inevitabilmente quel tipo di malattia induce.

La vita dopo Lost. Ovvero: la mente si nutre di racconti e misteri


Due giorni al termine dell’epica narrata da Lost. Più la scadenza si avvicina, e più i commentatori centrano l’attenzione sui contenuti mitologici, alchemici, spiritualistici, esoterici, occulti, massonici, numerologici, teosofici, archetipici del più originale e intrigante serial tv – ormai possiamo affermarlo a piena ragione – mai realizzato nella storia della scatola magica.

La tv rappresenta, per molti versi, il simulacro e l’altare a cui la nostra epoca immola vite e su cui costruisce molte credenze. Si discute più di quanto avviene in tv, anche nelle forme più involute e becere, che non di filosofia, religione, credenze, vita e morte o, comunque, interrogativi aperti ed eternamente insoluti della nostra esistenza. E proprio nel momento in cui internet insidia il potere massificante della dea tv, Lost riacciuffa e riporta alla scatola magica milioni di cervelli e di menti in tutto il mondo, con i meccanismi che sono proprio dei fondatori di nuove credenze o movimenti religiosi. Strutturare dogmi e renderli accettabili. Instillare la fede nella psiche dei lostdipendenti.

La genialità degli autori di Lost sta, tra le altre cose, nell’aver preso una banale trama di avventure esotiche (naufragio, in questo caso incidente aereo, soliti sopravvissuti dai caratteri e trascorsi variegati, isola misteriosa in cui perdersi, ritorno problematico alla civiltà) e shakerarli per bene con tutti i generi conosciuti della narrazione cinematografica e non. Ma ancor più, nell’aver introdotto nel cocktail componenti che funzionano da millenni: senso e gusto del mistero, aldiqua e aldilà, destino e libero arbitrio, varianti esistenziali, simbolismo, presenze salvifiche contrapposte e mescolate a quelle distruttive, ambigue e inquietanti.

E, ancora, qualche olivetta di fisica post-einsteiniana, mixata a filosofia oriental-buddhista e cultura spiritica: relatività del tempo e dello spazio (paradossi o loop temporali), provvisorietà di ogni esperienza terrena, rimescolamento delle categorie alto-basso, positivo-negativo, vita-morte, realtà-fantasia, vero-falso. Dalla cultura spiritica e teosofica deriva invece la dimensione ultraterrena di piano astrale, dove ricordi, fantasie o immaginazioni, possono strutturarsi in esperienze “reali” in modo estemporaneo, senza consequenzialità spazio-temporale.  E, appunto, l’isola più che un aldilà generico, assomiglia davvero al concetto di piano astrale, o ai piani di esistenza ultraterreni descritti nella letteratura spiritica e teosofica. Rimandi sono anche al concetto, sempre di matrice teosofica-antroposofica, del piano (archivio o campo) Akashico (in cui sarebbero “registrate”, e quindi recuperabili, tutte le vicende umane – molto simile all’etere tv in cui si dispiega Lost, se vogliamo).

A un episodio dalla conclusione, gli autori dicono che saranno svelati i misteri grandi, ma non quelli piccoli. E’ giusto. Ma ancora più saggio sarebbe non spiegare un bel nulla. Le narrazione leggendarie e le grandi epiche misteriche, raccontano, non spiegano. E se gli autori di Lost, fatte le debite proporzioni, possono essere assimilati agli autori dell’ Epopea di Gilgamesh – ma anche della Bhagavad Gita, l’Odissea, l’Isola del tesoro, Il signore delle mosche, Il mago di Oz o la narrativa di Allan Poe, Borges, ma pure Philip K. Dick (Ubik in particolare) e Stephen King – sono riusciti a ricreare la stessa passione che la mente umana ha sempre nutrito per questo tipo di intrecci, Lost dovrebbe rimanere una narrazione zeppa di misteri parzialmente o totalmente insoluti. Da che mondo è mondo, il fascino risiede in ciò che non trova spiegazione. Non in ciò che è completamente compreso.

Il tema dell’isola è centrale e determinante. Isola come luogo a parte. Luogo dei misteri. Separato dal resto del mondo. Dove tutto può accadere. “Se esistono luoghi particolarmente amati dall’immaginario, questi sono le isole. Un’isola, infatti, al contrario del continente, sul quale il meraviglioso si trova sempre inserito in un insieme che ne ‘diluisce’ il fascino, costituisce  un universo chiuso, ripiegato su se stesso, al di fuori delle leggi comuni: dal punto di vista estetico, si avvicina al ‘genere’ del medaglione, in cui il ritratto viene inserito in una cornice cesellata apposta per lui, fatta su misura. L’isola è dunque, per sua natura, un luogo in cui il meraviglioso esiste di per se stesso, al di fuori delle leggi comuni e sottoposto a regole che gli si attagliano: è il luogo dell’arbitrario. L’essere normale che approda a un’isola non può mantenere intatti tutti i caratteri a lui peculiari, se decide di rimanervi: deve pertanto scegliere tra l’allontanarsene e il rivestire la nuova natura che essa gli impone”. Chissà se gli autori di Lost hanno mai letto questo brano. Scritto più di vent’anni prima dalla medievalista Claude Kappler (Demoni mostri e meraviglie alla fine del Medioevo).

Le tracce che portano a Lost sono disseminate in una miriade di riferimenti della cultura umana. L’atmosfera e la filosofia di Lost sono già presenti, ad esempio, nell’arte dei surrealisti e in particolare di Salvador Dalì – là dove compaiono gli ‘orologi molli’. Ognuno di noi si interroga sul senso dello scorrere del tempo, dell’essere e non essere, di chi fino a poco fa c’era e un attimo dopo non c’è più. Sulla possibilità che la nostra vita, o quella dei nostri cari, sarebbe potuta andare diversamente da come è andata.

Lost agisce e cattura come narrazione (per quanto assurda possa apparire: spostare un’isola non è certo come parcheggiare un’auto), l’ambientazione, i caratteri interpretati dagli attori. Ma ancor più per la capacità di evocare, risvegliare, stuzzicare in chi lo segue, il senso del mistero. Se, come narratore e filmmaker, azzecchi questa formula, hai vinto: perché da sempre la mente umana si nutre di narrazione e mistero. Come genere narrativo Lost si inscrive nel realismo magico (vedi anche la relativa voce italiana su Wikipedia: praticamente l’intero elenco di “aspetti comuni” del genere viene soddisfatto). Un genere che, se ben congegnato tra misteri e suspense, riscuote sempre successo.

“Life After Lost” è il titolo del servizio che James Poniewozik firma su Time di questa settimana (nelle pagine web è inoltre possibile trovare un godibilissimo ed efficace “ABC di Lost in 108 secondi”), in cui la serie viene giustamente definita “una storia complessa per tempi complessi”. La vita dopo Lost è quella dei creatori di storie leggendarie e misteriose. Che riescono a catturare le menti di milioni di persone. Agganciandole con una necessità mai sopita della mente umana: il senso del mistero. Tanto Dan Brown che gli autori di Lost ne hanno intercettato l’esigenza. Proprio in un’epoca che pareva ormai votata allo scientismo e all’oggettività. Un’epoca psicosociale che, al contrario, riscopre, se non il gusto, la tendenza a perdersi nell’inconsueto e nell’inverosimile.

La domanda finale è: la mente umana può credere a tutto? La risposta è sì. Non sempre e non dovunque, in ogni caso. Ma l’esperimento di massa messo a punto da Lost è perfettamente riuscito. Potremmo vederla come una applicazione della ‘social trance’, definizione e fenomenologia che trovano sempre più interesse e seguito in vari contesti.

Non dimentichiamo infatti la cosa più importante, dal punto di vista psicologico: chi ha seguito Lost negli anni, dall’inizio alla fine, come ho scritto in precedenza, ha sospeso il giudizio (pur tentando di dare ragione dei molteplici misteri della vicenda). Facendo ciò, si è sottoposto una sorta di ipnosi di massa. Tra i cardini fondamentali per poter essere soggetti all’ipnosi, ci sono appunto i fenomeni psicologici della dissonanza e flessibilità cognitiva. Stati mentali che il lostomane non ha potuto fare a meno di frequentare. Alla grande.

News: lunedì 24 maggio, a partire dalle 16.30, sarà possibile vedere l’episodio conclusivo di Lost introdotto e commentato da Aldo Grasso (il critico tv e docente, convinto assertore di Lost come “capolavoro”) e Massimo Scaglioni (Università Cattolica, Milano).

Sognando con Malika Ayane


Ogni tanto tra i centomila canzonettari senza anima né un briciolo di creatività che il mercato italico ci propina continuamente, sorge una vera stella. E’ gioia autentica, uno struggimento dell’anima, una doccia di emozioni ascoltare Grovigli, l’ultimo album di quella voce vibrante che è Malika Ayane. Notevoli anche l’impasto musicale e il duetto con Paolo Conte. Ascoltate Sogna, oppure Chiamami adesso, socchiudete gli occhi, e sarete trasportati in altri luoghi della mente. Vi perderete nei grovigli dell’anima.

La relazione mente-corpo


Nell’ottobre 2005 usciva il mio libro Il cervello anarchico edito da Utet. Da allora, in modo assolutamente casuale, sono stato invitato a presentarlo in circa una cinquantina di posti in giro per l’Italia. L’invito in genere nasceva dalla iniziativa di  un lettore di varia estrazione culturale. Da Riza psicosomatica alla Biennale danza di Venezia, alla ASL psichiatrica vicino a Caserta, sempre ho trovato accoglienza affettuosa e consapevole sugli argomenti da me trattati nel libro. L’ultimo invito è di pochi giorni fa in occasione della settimana di neuroscienze organizzata dal comune di  Schio in sinergismo con i Lyons ed una libreria della cittadina.

Assieme a me era stato invitato Simone Goldstein, uno psicoterapeuta di cui io parlo nel libro per il lavoro di sinergismo a suo tempo fatto con lui sugli ammalati di tumore polmonare. Il nostro obbiettivo comune era quello di potenziare la chemio o radioterapia  da me impostata come oncopneumologo con la motivazione psichica indotta da Goldstein. E’ noto infatti da tempo  che il valore dell’approccio mentale non è qualcosa di astratto ma è traducibile in una concreta risposta biologica.

Questo tipo di approccio era già stato ampiamente sfruttato dai coniugi Simonton negli Stati Uniti.  Ma quando pochi anni fa il dr. Carl Simonton è venuto per un ciclo di conferenze in Europa, a Milano è stato assolutamente snobbato dai nostri oncologi istituzionali, e l’ Associazione che si occupava di organizzare il convegno ha fatto fatica a trovare una sede  adeguata. Eppure tutte le ultime scoperte della neuroimmunologia confermano l’ importanza del cervello  e dell’assetto psichico nella ottimizzazione delle risposte immunitarie. A maggior ragione durante i trattamenti  terapeutici oncologici, prevalentemente immunodepressivi, l’importanza di un supporto motivazionale verso la risposta attesa, analogamente alla aspettativa fideistica della guarigione quando si va a Lourdes, sarebbe senz’altro un ottimo adiuvante.