Con un commento finale a cura della dott.ssa Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa, ricercatrice, responsabile del Servizio Lifestyle Medicine e direttore del Laboratorio di Ricerca in Medicina Preventiva, entrambi di Auxologico, coautrice di Dietasalute. L’alimentazione per dimagrire, prevenire, restare in forma (Sperling & Kupfer).
Se ne parla ormai da decenni, ma la medicina ufficiale stenta ancora a riconoscerne il ruolo. Con la giustificazione che mancano tuttora prove scientifiche evidenti e incontrovertibili ma, soprattutto, condivisibili nei protocolli per il trattamento dei vari tipi di tumore. In mancanza di questo, il campo è lasciato alle libere scorribande di guru della sana nutrizione, libri divulgativi, incontri e lezioni per prevenire e curare il cancro con la nutrizione. Non c’è dubbio che il tema sia non solo affascinante, ma addirittura intrigante per ognuno di noi. Mangiare è un atto quotidiano. E del resto abbiamo evidenza quanto il cibo, ciò che introduciamo nel nostro corpo più volte al giorno, possa in effetti, nel corso degli anni, condurre ad alterazioni del nostro metabolismo fino alla malattia. Sappiamo come sovrappeso, obesità, sindrome metabolica e diabete abbiano un ruolo nella genesi di patologie che interessano vari organi, distretti e funzioni del nostro organismo. E sappiamo che fare maggiore attenzione a quanto mangiamo, limitando l’eccesso di carboidrati e zuccheri, possa mantenerci in migliore salute più a lungo, o a recuperare uno stato di salute, associando ciò a una regolare a adeguata attività fisica. Ancora, sappiamo come l’infiammazione possa essere favorita da una cattiva alimentazione e come lo stato infiammatorio possa creare un terreno favorevole allo sviluppo e al mantenimento di molte malattie. Quindi perché non può esserci un legame tra nutrizione e cancro?
In effetti nessuno lo nega, e anzi sempre più medici sono orientati a impostare diete adeguate non solo per combattere il cancro, ma anche per aiutare i pazienti a sopportare le terapie oncologiche, sia radio che chemioterapiche. Prova ne sia, solo per fare un esempio, il pluridecennale impegno dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano nel campo della alimentazione e nutrizione in oncologia che prevede anche tutta una serie di pubblicazioni e decaloghi ad uso dei pazienti. Sulla questione entra oggi in campo la rivista Science con un lungo articolo a firma di Jocelyn Kaiser in cui vengono affrontate anche le esperienze italiane e di ricercatori italiani operanti all’estero tra cui, in particolare, quella di Valter Longo e la sua “dieta mima-digiuno”.
Dieta chetogenica e cancro
Vicky Makker è una oncologa del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e quando gli capita una paziente con cancro dell’endometrio che si è diffuso o recidivo, sa che le prospettive non sono buone. Anche dopo radioterapia e trattamenti farmacologici, la maggior parte delle donne con malattia avanzata muore entro 5 anni. Makker avrebbe una pallottola da sparare, l’inibitore della fosfatidilinositolo 3-chinasi (PI3K), farmaco utilizzato in questo e in altri tipi di cancro, spesso però senza successo. Ora però Makker sta tentando di rendere le cellule tumorali più vulnerabili al farmaco sottoponendo i pazienti a una dieta chetogenica (regime a basso contenuto di carboidrati sostituiti in genere da carne, formaggio, uova e verdure) in base agli studi sul metabolismo cellulare e a prove di laboratorio in cui sembra che una dieta chetogenica può contrastare la resistenza dei tumori a questo tipo farmaci. Anche se la stessa Makker ammette che tutto ciò è molto al di fuori del pensiero clinico tradizionale. Tra i molti commenti in merito, quella della ricercatrice oncologica britannica Karen Vousden del Francis Crick Institute di Londra: “”C’è una grande industria in questo settore, ma non si basa su una reale comprensione di quello che sta succedendo in una cellula tumorale”.
Per questo motivo le ricerche sulle correlazioni tra cancro e nutrizione hanno avviato tutta una serie di studi laboratoristici per rendere le prove più solide. Soprattutto c’è bisogno di capire, come illustra bene l’articolo odierno di “Science”, quali componenti della nostra nutrizione possono favorire o inibire una efficace terapia dei vari tipi di tumore. Siccome ciò di cui nutriamo è alla fin fine chimica, amminoacidi, ormoni, molecole, occorre scoprire e capire quali di questi eliminare o rafforzare per curare, e magari, per prevenire alcune forme tumorali. Possiamo perciò dire che la dieta chetogenica, se la intendiamo come parte della terapia oncologica, sia indicata per tutti i tipi di tumore? Ancora non è dato sapere. Anzi, taluni ricercatori avvisano che una dieta chetogenica potrebbe ritorcersi contro e alimentare la crescita di tumori che amano i grassi, come quelli del seno e della prostata e altri con determinate mutazioni. In alcune ricerche si è poi scoperto che la dieta chetogenica ha stimolato la crescita del tumore nei topi con leucemia. In un recente studio, i ricercatori hanno scoperto che, contrariamente al pensiero prevalente, i tumori del glioblastoma possono aggirare la carenza di glucosio nutrendosi di corpi chetonici. Per sfruttare in sicurezza una dieta chetogenica come trattamento, “è necessario capire veramente come e dove funziona”, dice l’oncologo Matthew Vander Heiden del Koch Institute for Integrative Cancer Research presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Dieta mima-digiuno e cancro
Ideata da Valter Longo, professore di Biogerontologia e Direttore dell’Istituto sulla Longevità a USC (University of Southern California) – Davis School of Gerontology di Los Angeles e direttore del programma di ricerca di Longevità e Cancro presso l’Istituto di Oncologia Molecolare IFOM di Milano, la dieta mima-digiuno ha da una parte attirato l’attenzione del pubblico a livello mondiale, anche per l’efficace campagna di marketing utilizzata, ma anche l’attenzione nonché le critiche di molti medici. Non mancano anche in questo caso gli studi e le pubblicazioni scientifici. Ma hanno dimostrato in modo definitivo che la dieta mima-digiuno sia efficace sia nel prevenire che nella terapia del cancro? Le prove di Longo si basano soprattutto su sperimentazioni animali, su topi, rare sono invece le sperimentazioni protratte su malati di tumore, anche per scarsa adesione al rigido regime alimentare. La teoria alla base della dieta mima-digiungo è quella secondo cui le cellule tumorali si “nutrono” di glucosio e dato che il digiuno abbassa i livelli di glucosio nel sangue, questo sì che le cellule sane si adattino in modo protettivo e “affama” le cellule tumorali che devono crescere. Il digiuno riduce anche la produzione nel corpo di ormoni, come l’insulina, che possono guidare la crescita del tumore. Entrambi gli effetti possono rendere le cellule tumorali più suscettibili alla chemioterapia. Per rafforzare le prove a favore della sua dieta mima-digiuno Longo e il suo team hanno presentato domanda al National Cancer Institute degli Stati Uniti per una sovvenzione di 12 milioni di dollari per eseguire uno studio clinico su 460 pazienti in 11 ospedali con una dieta che imita il digiuno e chemioterapia per il cancro al seno.
Il futuro delle ricerche su nutrizione e cancro
Come abbiamo detto all’inizio e come fa comprendere l’articolo pubblicato oggi da “Science”, le evidenze riguardo le correlazioni tra nutrizione e cancro fino ad oggi si sono limitate ad osservazioni aneddotiche, casistiche di singoli clinici e ricercatori in campo nutrizionale, non su un solido apparto di studi condotti da più centri sanitari mondiali sui pazienti oncologici, come la ricerca biomedica richiede. Al di là del fascino suscitato in tutti noi da questo tipo di argomenti, dato che investono la vita quotidiana nostra e dei nostri cari, il cammino è ancora lungo per ottenere chiarezza sulle possibilità di applicazione nei vari casi oncologici. Come dice Jocelyn Kaiser a conclusione del suo articolo, sulla scorta di quanto affermano altri ricercatori attenti a questo settore: «il campo della dieta antitumorale impiegherà anni per passare da “incursioni frammentarie” a una chiara comprensione dei pro e dei contro di ciascuna dieta. Anche stabilire che una dieta specifica funziona abbastanza bene da diventare parte delle cure cliniche di routine richiederà tempo. Ma combattere il cancro con la dieta non è più un’idea marginale. Il campo è all’inizio di una nuova era in cui le persone prenderanno davvero in seria considerazione la dieta. I tempi sono maturi».
Abbiamo chiesto un commento all’articolo di Science di cui si parla qui a Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa, ricercatrice, responsabile del Servizio Lifestyle Medicine e direttore del Laboratorio di Ricerca in Medicina Preventiva, entrambi di Auxologico, coautrice di Dietasalute. L’alimentazione per dimagrire, prevenire, restare in forma (Sperling & Kupfer).
Articolo molto interessante che tratta il tema dell’associazione di diete specifiche per ridurre la crescita tumorale o potenziare l’effetto di farmaci antitumorali e della radioterapia.
Le diete proposte (chetogenica per ridurre salita di insulina che è fattore di crescita, ipoproteiche per ridurre apporto di aminoacidi che nutrono le cellule tumorali o digiuno breve prima della chemioterapia) si sono dimostrate efficaci nel topo, ma:
a) l’efficacia delle diverse diete dipende dal tipo di tumore e dalle mutazioni di questo (non si può consigliare la stessa dieta ad un cancro della mammella ed ad uno del colon), quindi prima di consigliarle è necessario approfondire i meccanismi con cui i nutrienti stimolano la crescita di specifiche cellule tumorali. I tumori infatti sono in grado di aggirare le carenze di un nutriente imparando ad utilizzarne un altro (per es. il glioblastoma che usa i corpi chetonici quando non ha glucosio a disposizione) o sintetizzandolo da soli.
b) adottare una dieta carente di nutrienti potrebbe essere difficile da sostenere da pazienti tumorali defedati o perché non palatabile. Per questo motivo si stanno studiando diete specifiche per il tipo di tumore palatabili, da consegnare ai pazienti. Qui nasce il problema dei costi da sostenere.
Dovremo aspettare i risultati degli studi clinici in corso nell’uomo che valuteranno:
a) effetto del semidigiuno prima della chemioterapia in pazienti con ca mammella
b) effetto di pasti precostituiti ipoglucidici in pazienti con cancro dell’endometrio e mutazione che aumenta la PI3K che favorisce la crescita tumorale
c) effetto della dieta chetogenica sulle risposta alla chemioterapia in pazienti con ca pancreas
d) effetto di frullati privo di specifici aminoacidi su risposta alla chemioterapia
Nel complesso penso che ci sia un razionale per cercare di migliorare la prognosi di pazienti tumorali con la dieta, ma fino a quando non ne sapremo di più, il consiglio per questi pazienti resta quello di ridurre drasticamente gli zuccheri semplici e consumare prevalentemente le proteine di origine vegetale.
Aggiornamento:
La cosa entusiasmante è che sempre più spesso, ormai, compaiono lavori di ricerca sul ruolo della nutrizione nella salute e nella malattia. Di un paio di due giorni fa è il lavoro dal titolo “Processed foods drive intestinal barrier permeability and microvascular diseases” pubblicato da Science Advances che nella parte finale dedicata alla discussione dice: “È diventato sempre più evidente che la moderna dieta occidentale, composta da alimenti trasformati ricchi di grassi, zuccheri e sale, contribuisce in modo significativo alla problematica dell’obesità, che manifesta anche una vasta gamma di patologie degli organi interni, come la steatosi epatica non alcolica, alcuni tipi di cancro, diabete di tipo 2 e malattie macro e microvascolari correlate. Lo stile di vita di una parte sostanziale delle popolazioni dei paesi sviluppati è caratterizzato da un’elevata assunzione di cibi pronti come cereali per la colazione, biscotti e snack, che sono stati sottoposti a trattamento termico elevato. La trasformazione alimentare altera la struttura chimica dei prodotti alimentari e, in tal modo, aumenta la shelf-life (“vita di scaffale”), l’appetibilità e le proprietà sensoriali, migliorando intrinsecamente gusto e potenzialmente stimolando i centri di ricompensa del cervello, che porta a eccesso di cibo. Sebbene i produttori possano tentare di limitare il contenuto di grassi, zuccheri e sale di questi prodotti per soddisfare le linee guida per un’alimentazione sana, questi alimenti sono spesso fonti ricche di AGE (prodotti finali della glicazione avanzata). Qui, abbiamo stabilito che la componente AGE degli alimenti trasformati è un mediatore del rischio di malattie microvascolari”.
Da una parte c’era l’oncologia ortodossa, sempre più impegnata a cercare le mutazioni genetiche delle cellule tumorali, ma sempre meno a comprendere come il cancro si sviluppi e si diffonda nel corpo. Dall’altra, ricercatori ritenuti strambi e stravaganti, esponenti di una “scienza leggera” che parlano dei rapporti tra psiche e cancro, di psicosomatica, psiconcologia, psiconeuroendocrinoimmunologia, nome chilometrico (in sigla Pnei), stress, specie quello cronico, e cancro. Insomma, di gente che si era resa conto, magari empiricamente, che qualche connessione tra sistema nervoso e cancro ci dovesse pure essere.
Ebbene, come riferisce oggi la rivista scientifica Science in un articolo intitolato “Come i nervi del corpo diventano complici nella diffusione del cancro”, i due fronti dell’oncologia, quello genetico-molecolare e quello orientato sul versante del sistema nervoso, possono finalmente trovare un punto d’incontro nelle nuove evidenze che stanno emergendo. Si è ad esempio scoperto che i nervi periferici che si ramificano attraverso il nostro corpo e regolano i nostri organi sono partner cruciali per il cancro mentre cresce e si diffonde.
I nervi periferici sfornano molecole che sembrano aiutare la crescita delle cellule tumorali e alterano il tessuto circostante in modi che possono renderlo più ospitale per il cancro. Tali recenti studi hanno rivelato molte linee di comunicazione tra tumori, nervi e altre cellule vicine. Questa elaborata compartecipazione sembra favorire la crescita e la diffusione del cancro, in parte attraverso il rilascio di ormoni legati allo stress.
Ricercatori come Anil Sood, biologo del cancro presso il MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas a Houston, si erano già da tempo impegnati nello studio del sistema nervoso nella speranza di individuare una connessione sfuggente tra cancro e stress. Anil Sood era stato incuriosito dalle scoperte che i tumori erano cresciuti più velocemente negli animali da laboratorio che erano stressati, ad esempio essendo fisicamente tenuti in ambiente chiuso o socialmente isolati. Ma quali potevano essere i meccanismi sottostanti alla relazione tra sistema nervoso e diffusione del cancro nel corpo?
Le ricerche si concentrarono sul sistema nervoso simpatico, che orchestra la nostra risposta di “lotta o fuga” a una minaccia percepita. E, due ormoni in particolare, l’epinefrina e la noradrenalina, svolgono un ruolo chiave in tale risposta. Come? Aumentando la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. I nervi simpatici, che si intrecciano attraverso i nostri organi e li segnalano, rilasciano i due ormoni nei tessuti vicini. Partendo dalle ghiandole surrenali collocate sui nostri reni che secernono tali ormoni rilasciati poi nel flusso sanguigno e distribuiti ampiamente in tutto il corpo.
Rimane ancora l’incognita di quanto lo stress abbia veramente un ruolo, vista la difficoltà di quantificarlo, non tanto nella genesi del cancro, mai dimostrata, quanto nel favorirne la diffusione, attraverso meccanismi neuro-ormonali, nei vari distretti e apparti del corpo. E bloccare le possibilità di metastasi, ad esempio dopo un intervento chirurgico, è un obbiettivo determinante delle cure oncologiche. Studiare il ruolo del sistema nervoso come via di diffusione delle cellule tumorali può essere una strada promettente? La risposta è di certo affermativa.
Gustavo Ayala, patologo della McGovern Medical School presso l’Università del Texas Health Science Center di Houston, tra i primi ricercatori a studiare i rapporti tra sistema nervoso e cancro, nel 2018 ha riferito alla rivista medica The Prostate che in quattro pazienti con tumori alla prostata, a cui era stata iniettata la tossina botulinica in un lato del tumore, è stato provocata la scomparsa di più cellule tumorali rispetto al lato non trattato. Tali studi sui rapporti sistema nervoso-cancro stanno quindi aprendo nuovi approcci, nuove terapie nella cura dei tumori.
Nuove ricerche sono in corso da parte del team di Ayala, ad esempio sui nervi parasimpatici e su altre classi di nervi attraverso le proteine che li esprimono. Novità si profilano all’orizzonte dei rapporti cancro-sistema nervoso, e sono di sicuro interesse. Aggiungiamo che proprio il coblogger Enzo Soresi, da grande scienziato capace di intuito e sintesi clinico-scientifica, da decenni si è accostato alle neuroscienze, proprio rendendosi conto dei rapporti tra cancro e sistema nervoso.
Kelly Servick, “How the body’s nerves become accomplices in the spread of cancer”, Science, Sep. 12, 2019
Diciamo subito che la risposta definitiva non esiste. Però si è aggiunto uno studio su decine di migliaia di casi, comprendente adolescenti, adulti e anziani, uomini e donne, durato quasi dieci anni in Inghilterra e, in misura minore, in Scozia. Lo studio di epidemiologia osservazionale (pazienti seguiti per anni riguardo le loro diagnosi di malattia e di morte per neoplasie) intendeva indagare, attraverso consensuale studio delle loro cartelle cliniche e somministrazione di questionari sulla salute generale, quali rapporti potessero esserci tra disagio mentale (ansia e depressione, o in termine unico “distress”, lo stress negativo) e sviluppo o aggravamento dei tumori. A dare diffusione dello studio non è una oscura rivistina New Age o di medicina olistica, ma bensì il numero più recente del British Medical Journal.
Se parliamo di psiche in generale, quindi di cervello, sistema nervoso e corpo, non arriveremo mai a capo di una questione così complessa e multifattoriale come quella dei rapporti tra cancro e psiche. Prima di tutto, perché non esiste un solo tipo di cancro. Secondo, perché nello sviluppo dei vari tipi di tumore, entrano in ballo genetica ed epigenetica. Nell’epigenetica, vale a dire i fattori che possono innescare un processo neoplastico, possiamo elencare gli stili di vita (sedentarietà, obesità, fumo, alcol), quelli ambientali (inquinamento, status socio-economico), ma pure quelli psicologici (ansia, depressione, stress). Che ruolo hanno questi ultimi?
Mentre vi sono sempre maggiori evidenze che il disagio psicologico cronico, lo stress cronico, hanno un ruolo importante nello sviluppo e aggravamento delle malattie cardiovascolari (malattie coronariche, infarto e ictus), altrettanto non si può dire del rapporto tra disagio psicologico e cancro. Non lo si può affermare come rapporto diretto, cioè di causa-effetto (il disagio psicologico, lo stress cronico, non provocano il cancro), ma possiamo ipotizzare che vi sia un rapporto “indiretto”: il disagio psicologico, lo stress cronico, sono predittivi di un aggravamento del cancro? Questo studio tende a rispondere affermativamente.
Bella forza, si dirà. Se uno sa di essere un malato grave di cancro, è ovvio che sviluppi ansia e depressione. Certo. Però tra i 163.363 soggetti seguiti dallo studio, vi erano pure casi in cui il cancro non era ancora stato diagnosticato (malattia subclinica). E già manifestavano sintomi di ansia, depressione e stress cronico.
«I nostri risultati – scrivono gli autori – potrebbero essere importanti nel promuovere la comprensione del ruolo del disagio psicologico (distress) sia nell’eziologia che nella progressione del cancro, così come si sta cercando di accertare come questo e altri fattori psicologici (quali lo stress psico-sociale, la cognizione, la personalità, la soddisfazione di vita) possano, eventualmente, giocare un ruolo nella prevenzione e nella prognosi».
Le ipotesi aperte a tale riguardo, sono molteplici, sia organiche che comportamentali. Chi è cronicamente in preda a disagio psicologico, tende ad avere stili di vita meno salutari: magari mangia male, beve, non fa attività fisica regolare, dorme male, fuma, tende a non fare controlli medici regolari, tende a non seguire le prescrizioni e le cure mediche. Come si usa dire in termini popolari: tende a lasciarsi andare. Ma quali meccanismi biologici potrebbero entrare in gioco nei rapporti tra cancro e stress? Come dicono gli autori di questo studio: «L’esposizione ricorrente a stress emotivo potrebbe diminuire la funzione delle cellule natural killer, implicate nel controllo delle cellule tumorali. Di particolare rilevanza per i tumori ormone-correlato è il suggerimento che i sintomi della depressione potrebbero portare a disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, aumentando le concentrazioni di cortisolo, diminuendo le difese immunitarie e incrementando le risposte infiammatorie, inibendo di conseguenza la riparazione del Dna, sfavorendo così i processi di difesa verso il cancro».
Dallo studio è emerso che la causalità inversa (disagio psicologico che si traduce in comportamenti negativi per la salute) è un fattore di rischio importante non solo per le malattie cardiovascolari, ma pure per i tumori (in particolare per il carcinoma del colon-retto, della prostata, del pancreas, dell’esofago e per la leucemia). Come dicono gli autori “l’avvio dei tumori non è un semplice processo stocastico”, cioè un innescarsi casuale di divisioni cellulari abnormi. Ma dipende anche da noi. Sicuramente da come trattiamo il nostro corpo e il nostro ambiente. Forse anche da come trattiamo la nostra mente e le nostre emozioni. E rimangono validi le plurisecolari indicazioni empiriche: mente sana in corpo sano, cuor allegro il ciel l’aiuta.
G David Batty, reader in epidemiology, Tom C Russ, Marjorie MacBeath intermediate clinical fellow, Emmanuel Stamatakis, associate professor, Mika Kivimäki, professor of social epidemiology. Psychological distress in relation to site specific cancer mortality: pooling of unpublished data from 16 prospective cohort studies
BMJ 2017; 356 doi: https://doi.org/10.1136/bmj.j108 (Published 25 January 2017)
Cite this as: BMJ 2017;356:j108 http://www.bmj.com/content/356/bmj.j108
Donna di 54 anni in chemio e radioterapia per tumore del pancreas con malattia in progressione. Biopsia epatica ed identificazione di un marker tumorale che consente un trattamento biologico per bocca. Dopo pochi giorni di terapia, evidente risposta clinica con milioni di cellule tumorali distrutte. Unico problema: il farmaco reperito in Svizzera ha un costo di 9.000 euro per un mese di terapia ! È il primo clamoroso esempio di una oncologia di precisione che con l’amico oncologo Claudio Verusio abbiamo affrontato in questi ultimi mesi.
Dalla rivista “Internazionale” (8-14 aprile 2016) ho tratto questo interessante articolo per una nuova terapia contro il cancro a cui avevo già accennato nel libro “Mitocondrio mon amour” scritto con il coblogger Pierangelo Garzia. Si tratta di una nuova generazione di farmaci anticancro chiamati inibitori dei chekpoint immunitari che stanno ottenendo risultati, in alcuni casi così spettacolari, per cui gli scienziati la considerano una svolta epocale nella lotta contro i tumori.
La storia di questa cura è iniziata negli anni ’60 quando il medico giapponese Tasuku Honjo seppe che un suo compagno di studi era morto per un tumore allo stomaco. Da quel momento, come immunologo, si è impegnato nella ricerca e nel ’92 studiando i T-linfociti ha scoperto una proteina, la PD-1, che impediva al sistema immunitario di andare fuori controllo, in altre parole come se fungesse da freno di sicurezza. La sua riflessione quindi fu quella di bloccare la PD-1 e permettere al sistema immunitario di aggredire a ruota libera il tumore.
Il sistema immunitario in teoria ci dovrebbe difendere ogni giorno dalla crescita di cellule tumorali ma uno dei motivi per cui il tumore si sviluppa è prprio quello che riesce a silenziare il sistema immunitario. Honjo ebbe l’intuizione di cercare qualcosa che attivava il recettore PD-1 e sintetizzò una proteina che si legava al recettore e lo attivava nota come PD-L1 .
Altri ricercatori hanno poi scoperto che le cellule tumorali producono PD-L1 in modo da attivare il freno recettoriale noto come PD-1 e quindi autopromuoversi e permettere al tumore di proliferare. A questo punto Honjo ha prodotto un anticorpo monoclonale in grado di bloccare la PD-1 e consentire al sistema immunitario di attivarsi il più possibile. Dopo parecchi anni di perplessità le case farmaceutiche si sono finalmente impegnate nella produzione di questi nuovi farmaci noti come inibitori della PD-1 ed in testa a tutti ci sono il Nivolumab ed il pembrolizumab. Questi farmaci hanno pochi effetti collaterali con alte probabilità di essere attivi per anni ed hanno il vantaggio di aggredire la cellula tumorale anche se continua a mutare antigenicità. Sono inoltre già allo studio nuovi farmaci in grado di bloccare la proteina che consente al tumore di svilupparsi e cioè la PD-L1. Finora il farmaco più interessante si è rivelato l’ atezolizumab prodotto dalla Roche che ha allungato la vita dei pazienti di 8 mesi.
In sostanza questa nuove terapie aprono prospettive terapeutiche che finalmente impostano una alleanza con il nostro organismo sfruttando il sistema immunitario e senza aggredire oltre alla cellule tumorali anche le cellule sane come a tutt’oggi è avvenuto con la chemioterapia. Un caso clinico paradigmatico , in relazione a questo nuovo tipo di terapie, lo sto seguendo da qualche tempo in collaborazione con l’oncologo ospedaliero a cui l’ho affidato. Si tratta di una donna di circa 60 anni portatrice di tumore polmonare, recidivato dopo tre anni dall’intervento. Il trattamento con nivolumab è in corso da circa 6 mesi e la risposta è ancora difficile da valutare in quanto sembra che in parte il tumore sia in regressione ed in parte in progressione. Si tratterà, nel tempo, di valutare come integrare con altre terapia (radio, chemio, terapie integrate?) questo nuovo tipo di terapia tenendo conto che le condizioni generali della paziente sono assolutamente normali e che nessuna tossicità si è osservata fino ad oggi.
Si apre, con tutta probabilità, un nuovo scenario per i trattamenti oncologici che finalmente vedrà l’abbandono dei protocolli e lascerà alla esperienza del singolo terapeuta la decisione verso il miglior percorso terapeutico idoneo a quel tipo di paziente per quel tipo di malattia tumorale.
Nutrizione e cancro: quali evidenze?
Con un commento finale a cura della dott.ssa Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa, ricercatrice, responsabile del Servizio Lifestyle Medicine e direttore del Laboratorio di Ricerca in Medicina Preventiva, entrambi di Auxologico, coautrice di Dietasalute. L’alimentazione per dimagrire, prevenire, restare in forma (Sperling & Kupfer).
Se ne parla ormai da decenni, ma la medicina ufficiale stenta ancora a riconoscerne il ruolo. Con la giustificazione che mancano tuttora prove scientifiche evidenti e incontrovertibili ma, soprattutto, condivisibili nei protocolli per il trattamento dei vari tipi di tumore. In mancanza di questo, il campo è lasciato alle libere scorribande di guru della sana nutrizione, libri divulgativi, incontri e lezioni per prevenire e curare il cancro con la nutrizione. Non c’è dubbio che il tema sia non solo affascinante, ma addirittura intrigante per ognuno di noi. Mangiare è un atto quotidiano. E del resto abbiamo evidenza quanto il cibo, ciò che introduciamo nel nostro corpo più volte al giorno, possa in effetti, nel corso degli anni, condurre ad alterazioni del nostro metabolismo fino alla malattia. Sappiamo come sovrappeso, obesità, sindrome metabolica e diabete abbiano un ruolo nella genesi di patologie che interessano vari organi, distretti e funzioni del nostro organismo. E sappiamo che fare maggiore attenzione a quanto mangiamo, limitando l’eccesso di carboidrati e zuccheri, possa mantenerci in migliore salute più a lungo, o a recuperare uno stato di salute, associando ciò a una regolare a adeguata attività fisica. Ancora, sappiamo come l’infiammazione possa essere favorita da una cattiva alimentazione e come lo stato infiammatorio possa creare un terreno favorevole allo sviluppo e al mantenimento di molte malattie. Quindi perché non può esserci un legame tra nutrizione e cancro?
In effetti nessuno lo nega, e anzi sempre più medici sono orientati a impostare diete adeguate non solo per combattere il cancro, ma anche per aiutare i pazienti a sopportare le terapie oncologiche, sia radio che chemioterapiche. Prova ne sia, solo per fare un esempio, il pluridecennale impegno dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano nel campo della alimentazione e nutrizione in oncologia che prevede anche tutta una serie di pubblicazioni e decaloghi ad uso dei pazienti. Sulla questione entra oggi in campo la rivista Science con un lungo articolo a firma di Jocelyn Kaiser in cui vengono affrontate anche le esperienze italiane e di ricercatori italiani operanti all’estero tra cui, in particolare, quella di Valter Longo e la sua “dieta mima-digiuno”.
Dieta chetogenica e cancro
Vicky Makker è una oncologa del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e quando gli capita una paziente con cancro dell’endometrio che si è diffuso o recidivo, sa che le prospettive non sono buone. Anche dopo radioterapia e trattamenti farmacologici, la maggior parte delle donne con malattia avanzata muore entro 5 anni. Makker avrebbe una pallottola da sparare, l’inibitore della fosfatidilinositolo 3-chinasi (PI3K), farmaco utilizzato in questo e in altri tipi di cancro, spesso però senza successo. Ora però Makker sta tentando di rendere le cellule tumorali più vulnerabili al farmaco sottoponendo i pazienti a una dieta chetogenica (regime a basso contenuto di carboidrati sostituiti in genere da carne, formaggio, uova e verdure) in base agli studi sul metabolismo cellulare e a prove di laboratorio in cui sembra che una dieta chetogenica può contrastare la resistenza dei tumori a questo tipo farmaci. Anche se la stessa Makker ammette che tutto ciò è molto al di fuori del pensiero clinico tradizionale. Tra i molti commenti in merito, quella della ricercatrice oncologica britannica Karen Vousden del Francis Crick Institute di Londra: “”C’è una grande industria in questo settore, ma non si basa su una reale comprensione di quello che sta succedendo in una cellula tumorale”.
Per questo motivo le ricerche sulle correlazioni tra cancro e nutrizione hanno avviato tutta una serie di studi laboratoristici per rendere le prove più solide. Soprattutto c’è bisogno di capire, come illustra bene l’articolo odierno di “Science”, quali componenti della nostra nutrizione possono favorire o inibire una efficace terapia dei vari tipi di tumore. Siccome ciò di cui nutriamo è alla fin fine chimica, amminoacidi, ormoni, molecole, occorre scoprire e capire quali di questi eliminare o rafforzare per curare, e magari, per prevenire alcune forme tumorali. Possiamo perciò dire che la dieta chetogenica, se la intendiamo come parte della terapia oncologica, sia indicata per tutti i tipi di tumore? Ancora non è dato sapere. Anzi, taluni ricercatori avvisano che una dieta chetogenica potrebbe ritorcersi contro e alimentare la crescita di tumori che amano i grassi, come quelli del seno e della prostata e altri con determinate mutazioni. In alcune ricerche si è poi scoperto che la dieta chetogenica ha stimolato la crescita del tumore nei topi con leucemia. In un recente studio, i ricercatori hanno scoperto che, contrariamente al pensiero prevalente, i tumori del glioblastoma possono aggirare la carenza di glucosio nutrendosi di corpi chetonici. Per sfruttare in sicurezza una dieta chetogenica come trattamento, “è necessario capire veramente come e dove funziona”, dice l’oncologo Matthew Vander Heiden del Koch Institute for Integrative Cancer Research presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Dieta mima-digiuno e cancro
Ideata da Valter Longo, professore di Biogerontologia e Direttore dell’Istituto sulla Longevità a USC (University of Southern California) – Davis School of Gerontology di Los Angeles e direttore del programma di ricerca di Longevità e Cancro presso l’Istituto di Oncologia Molecolare IFOM di Milano, la dieta mima-digiuno ha da una parte attirato l’attenzione del pubblico a livello mondiale, anche per l’efficace campagna di marketing utilizzata, ma anche l’attenzione nonché le critiche di molti medici. Non mancano anche in questo caso gli studi e le pubblicazioni scientifici. Ma hanno dimostrato in modo definitivo che la dieta mima-digiuno sia efficace sia nel prevenire che nella terapia del cancro? Le prove di Longo si basano soprattutto su sperimentazioni animali, su topi, rare sono invece le sperimentazioni protratte su malati di tumore, anche per scarsa adesione al rigido regime alimentare. La teoria alla base della dieta mima-digiungo è quella secondo cui le cellule tumorali si “nutrono” di glucosio e dato che il digiuno abbassa i livelli di glucosio nel sangue, questo sì che le cellule sane si adattino in modo protettivo e “affama” le cellule tumorali che devono crescere. Il digiuno riduce anche la produzione nel corpo di ormoni, come l’insulina, che possono guidare la crescita del tumore. Entrambi gli effetti possono rendere le cellule tumorali più suscettibili alla chemioterapia. Per rafforzare le prove a favore della sua dieta mima-digiuno Longo e il suo team hanno presentato domanda al National Cancer Institute degli Stati Uniti per una sovvenzione di 12 milioni di dollari per eseguire uno studio clinico su 460 pazienti in 11 ospedali con una dieta che imita il digiuno e chemioterapia per il cancro al seno.
Il futuro delle ricerche su nutrizione e cancro
Come abbiamo detto all’inizio e come fa comprendere l’articolo pubblicato oggi da “Science”, le evidenze riguardo le correlazioni tra nutrizione e cancro fino ad oggi si sono limitate ad osservazioni aneddotiche, casistiche di singoli clinici e ricercatori in campo nutrizionale, non su un solido apparto di studi condotti da più centri sanitari mondiali sui pazienti oncologici, come la ricerca biomedica richiede. Al di là del fascino suscitato in tutti noi da questo tipo di argomenti, dato che investono la vita quotidiana nostra e dei nostri cari, il cammino è ancora lungo per ottenere chiarezza sulle possibilità di applicazione nei vari casi oncologici. Come dice Jocelyn Kaiser a conclusione del suo articolo, sulla scorta di quanto affermano altri ricercatori attenti a questo settore: «il campo della dieta antitumorale impiegherà anni per passare da “incursioni frammentarie” a una chiara comprensione dei pro e dei contro di ciascuna dieta. Anche stabilire che una dieta specifica funziona abbastanza bene da diventare parte delle cure cliniche di routine richiederà tempo. Ma combattere il cancro con la dieta non è più un’idea marginale. Il campo è all’inizio di una nuova era in cui le persone prenderanno davvero in seria considerazione la dieta. I tempi sono maturi».
Abbiamo chiesto un commento all’articolo di Science di cui si parla qui a Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa, ricercatrice, responsabile del Servizio Lifestyle Medicine e direttore del Laboratorio di Ricerca in Medicina Preventiva, entrambi di Auxologico, coautrice di Dietasalute. L’alimentazione per dimagrire, prevenire, restare in forma (Sperling & Kupfer).
Articolo molto interessante che tratta il tema dell’associazione di diete specifiche per ridurre la crescita tumorale o potenziare l’effetto di farmaci antitumorali e della radioterapia.
Le diete proposte (chetogenica per ridurre salita di insulina che è fattore di crescita, ipoproteiche per ridurre apporto di aminoacidi che nutrono le cellule tumorali o digiuno breve prima della chemioterapia) si sono dimostrate efficaci nel topo, ma:
a) l’efficacia delle diverse diete dipende dal tipo di tumore e dalle mutazioni di questo (non si può consigliare la stessa dieta ad un cancro della mammella ed ad uno del colon), quindi prima di consigliarle è necessario approfondire i meccanismi con cui i nutrienti stimolano la crescita di specifiche cellule tumorali. I tumori infatti sono in grado di aggirare le carenze di un nutriente imparando ad utilizzarne un altro (per es. il glioblastoma che usa i corpi chetonici quando non ha glucosio a disposizione) o sintetizzandolo da soli.
b) adottare una dieta carente di nutrienti potrebbe essere difficile da sostenere da pazienti tumorali defedati o perché non palatabile. Per questo motivo si stanno studiando diete specifiche per il tipo di tumore palatabili, da consegnare ai pazienti. Qui nasce il problema dei costi da sostenere.
Dovremo aspettare i risultati degli studi clinici in corso nell’uomo che valuteranno:
a) effetto del semidigiuno prima della chemioterapia in pazienti con ca mammella
b) effetto di pasti precostituiti ipoglucidici in pazienti con cancro dell’endometrio e mutazione che aumenta la PI3K che favorisce la crescita tumorale
c) effetto della dieta chetogenica sulle risposta alla chemioterapia in pazienti con ca pancreas
d) effetto di frullati privo di specifici aminoacidi su risposta alla chemioterapia
Nel complesso penso che ci sia un razionale per cercare di migliorare la prognosi di pazienti tumorali con la dieta, ma fino a quando non ne sapremo di più, il consiglio per questi pazienti resta quello di ridurre drasticamente gli zuccheri semplici e consumare prevalentemente le proteine di origine vegetale.
Aggiornamento:
La cosa entusiasmante è che sempre più spesso, ormai, compaiono lavori di ricerca sul ruolo della nutrizione nella salute e nella malattia. Di un paio di due giorni fa è il lavoro dal titolo “Processed foods drive intestinal barrier permeability and microvascular diseases” pubblicato da Science Advances che nella parte finale dedicata alla discussione dice: “È diventato sempre più evidente che la moderna dieta occidentale, composta da alimenti trasformati ricchi di grassi, zuccheri e sale, contribuisce in modo significativo alla problematica dell’obesità, che manifesta anche una vasta gamma di patologie degli organi interni, come la steatosi epatica non alcolica, alcuni tipi di cancro, diabete di tipo 2 e malattie macro e microvascolari correlate. Lo stile di vita di una parte sostanziale delle popolazioni dei paesi sviluppati è caratterizzato da un’elevata assunzione di cibi pronti come cereali per la colazione, biscotti e snack, che sono stati sottoposti a trattamento termico elevato. La trasformazione alimentare altera la struttura chimica dei prodotti alimentari e, in tal modo, aumenta la shelf-life (“vita di scaffale”), l’appetibilità e le proprietà sensoriali, migliorando intrinsecamente gusto e potenzialmente stimolando i centri di ricompensa del cervello, che porta a eccesso di cibo. Sebbene i produttori possano tentare di limitare il contenuto di grassi, zuccheri e sale di questi prodotti per soddisfare le linee guida per un’alimentazione sana, questi alimenti sono spesso fonti ricche di AGE (prodotti finali della glicazione avanzata). Qui, abbiamo stabilito che la componente AGE degli alimenti trasformati è un mediatore del rischio di malattie microvascolari”.
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