«Un altro caso utile per dimostrare quanto lo stress possa compromettere il buon funzionamento del cuore – ricorda Gianfranco Parati – ci viene dalla registrazione di pressione effettuata nelle 24 ore su un lavoratore impegnato tutti i giorni a guidare il tram nel traffico di Milano. Una persona giovane, 39 anni, senza malattie cardiovascolari. Aveva una pressione abbastanza elevata durante il turno lavorativo pomeridiano, mentre si abbassava una volta terminato il turno. Rientrava a casa con valori di poco superiori alla norma, ma si normalizzava per tutto il sonno notturno. Il mattino successivo la pressione schizzava di nuovo a livelli altissimi. Cioè quando ricominciava il turno di lavoro in cui il traffico cittadino è più caotico: dalle 7 alle 13».
Appena si metteva alla guida, la pressione del giovane tramviere saliva in maniera impressionante, molto più che al pomeriggio, raggiungendo valori superiori ai 200 di massima. Che questo dipendesse dallo stress lavorativo e dal particolare impegno che la guida del veicolo rappresentava per questa persona, è stato dimostrato dalla ripetizione del tracciato nello stesso soggetto, durante una giornata in cui non era previsto un turno mattutino. E in quest’ultimo tracciato si constatò che la mattina senza la guida del mezzo, la pressione era decisamente più bassa, simile a quella osservata durante il turno pomeridiano.
«In simili condizioni, un approccio terapeutico volto a proteggere il paziente – prosegue Parati – non può limitarsi soltanto alla scelta del farmaco che dovrebbe, fra l’altro, occuparsi di controllare una pressione molto diversa, in diversi momenti della giornata. Quindi avendo bisogno di una modulazione della terapia, di dosi diverse nell’arco della giornata. L’intervento terapeutico deve associarsi alla correzione degli stili di vita e dei turni di lavoro della persona a rischio. Cercando di evitare una esposizione ad eventi stressanti che non riesce a gestire e sono potenzialmente pericolosi».
Facile a dirlo. Meno ad evitarli, gli eventi stressanti e pesanti per la nostra salute. La vita, la nostra in particolare, di genti inurbate del terzo millennio, è fitta di situazioni caotiche, conflittuali, potenzialmente ostili. Non siamo solo individui biologici, dicono gli specialisti della psiche. E neppure soltanto mentali. Ma bensì, soggetti tripartiti: bio-psico-sociali. Vale a dire che sul nostro organismo hanno influenza tanto le componenti biologiche, genetiche e molecolari, quanto quelle mentali che, ancora, quelle sociali, ambientali.
E’ esperienza comune che rapporti soddisfacenti tanto nella vita che nei confronti del partner e, in genere, nell’ambiente familiare, abbiano ripercussioni pure sulla nostra buona salute. Viceversa quando siamo rosi da dubbio, rancore, gelosia, odio, ostilità. Tutto ciò che, da sempre, il pensiero orientale, buddista in particolare, ha indicato come emozioni negative da estirpare, guarda caso, dal nostro cuore.
Dalle nostre parti, anziché santoni e guru, è più facile entrino in scena gli specialisti della mente. Psicologi, psichiatri e neuroscienziati. Tutti a cercare di dimostrare come un certo tipo di personalità (elencate con le lettere dell’alfabeto, A e D) siano più predisposte verso le malattie cardiovascolari e, in particolare, verso i fenomeni ischemici e la cardiopatia coronarica. Anche qui, tuttavia, non è nuovo il desiderio dell’uomo di riuscire ad associare certi tipi di personalità a specifiche patologie.
Già Ippocrate, il padre della medicina da cui il famoso giuramento di chi ne esercita la pratica, più di duemila anni fa, definì la relazione tra tipi di personalità, umore e salute in termini di combinazione tra bile nera e bile gialla. “Non roderti il fegato”, si dice ancora oggi per invitare a lasciare perdere le emozioni distruttive che logorano la mente e il corpo. Oppure: “ti prenderà un colpo”. Intendendo che il cuore si spezzerà di dolore, crepacuore, sotto l’influenza di stimoli negativi provenienti lungo il sistema nervoso autonomo e la cascata di altrettante molecole, dal nome altisonante (glucocorticoidi, catecolamine), legate da matrimonio indissolubile con lo stress, acuto e cronico.
«Credo che la psiche abbia una grandissima influenza sul corpo – afferma Bernard Lown uno dei più grandi cardiologi viventi nonché premio Nobel per la pace a seguito della sua attività in favore della salute pubblica – e sul cuore in particolare. Questo rapporto è riconosciuto da sempre, tanto è vero che nel linguaggio comune troviamo frasi come “morì col cuore spezzato”, “il suo cuore era pieno fino a scoppiare”, “avere un peso sul cuore” e “ho il cuore in gola”. Una psiche disturbata può creare problemi al cuore, soprattutto attraverso lo stress. Anche gli esperimenti che ho condotto dimostrano questa relazione tra stress e disturbi cardiaci. Sono convinto che i problemi di almeno metà dei miei pazienti sono dovuti allo stress, non a motivi organici».
Enrico Molinari, ordinario di psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano, autore assieme a molti altri specialisti internazionali di un poderoso volume intitolato Mente & cuore. Clinica psicologica della malattia cardiaca (Springer), ne è convinto quanto Bernard Lown: la nostra vita emotiva è indissolubilmente legata al cuore.
«Stati emotivi come la rabbia – sostiene Molinari – la paura e il risentimento possono essere fattori di rischio per le malattie cardiache. Infatti tali stati emotivi, oltre ad influenzare la comparsa del disturbo cardiaco, ne possono aggravare i sintomi, peggiorare la prognosi e ostacolare la guarigione. Conflitti interpersonali, umiliazioni in pubblico, minacce di separazione dal coniuge, lutti, insuccessi professionali, e a volte anche alcuni incubi, tutte queste sono situazioni che provocano tensione psicologica che si ripercuote sul cuore».
Sembra proprio che quanto è importante nella vita – affetti, lavoro, rapporti – abbia la propria contropartita non solo nel cervello, ma pure nel cuore. Del resto, una parola tuttora usata ma di cui abbiamo accantonato l’etimologia, “ricordare”, lega cuore e cervello in un unico monogramma. Deriva dal latino “cordis”, cuore appunto. Ricordiamo col cervello, certo. La scienza lo dimostra ogni giorno di più. Ma un po’, non sappiamo ancora quanto e come, anche col cuore.
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