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Personalità, geni e sistema immunitario: gli estroversi sono più a rischio di infiammazione?


ConnessioniVarie scuole di pensiero, sia occidentali che soprattutto orientali, sostengono da sempre che il nostro carattere e la nostra personalità hanno una influenza diretta sul nostro stato di salute. La psicologia, a sua volta, ha negli anni delineato una serie di tipologie psicologiche maggiormente soggette ad atteggiamenti e comportamenti deleteri o salutari. Non vi è dubbio che in certe tipologie di personalità vi sia una maggiore propensione allo stress, a non valutare il rischio di certe situazioni, scelte e comportamenti, ad assumere regolarmente sostanze nocive, a non seguire una regolarità nei pasti e nel sonno, ad alimentarsi in maniera scorretta e ad avere stili di vita non salutari. Tutto ciò, con l’andare del tempo, non può che tradursi in danni sull’organismo.

Ben diverso però discutere di come il modello dei tratti di personalità “Big Five” (estroversione, nevrosi, piacevolezza, coscienziosità e apertura all’esperienza) abbia una diretta correlazione con i sistemi biologici del nostro corpo e, di conseguenza, con lo stato di salute o di malattia. La domanda che viene da porsi è: c’è una relazione tra la nostra personalità e il nostro sistema immunitario, che non siano genericamente i derivati comportamentali di stress, disturbi dell’umore, atteggiamenti e comportamenti dannosi?

Una recente ricerca guidata da Steve Cole (professore di medicina, psichiatria e scienze comportamentali, nonché psiconeuroimmunologo della University of California di Los Angeles – UCLA) ha cercato di rispondere a questa domanda, trovando indicazioni che una relazione tra personalità e maggiori o minori difese immunitari sembra esserci. E sicuramente si tratta di una promettente via da seguire per capire come certe persone siano più soggette ad ammalarsi, e come di conseguenza sia possibile rafforzarle attraverso terapie e stili di vita adeguati.

Dato per assunto che il sistema immunitario ha una stretta relazione con il nostro sistema nervoso (basti pensare a quanto indotto dall’influenza, con il rilascio di citochine da parte delle cellule immunitarie che sembrano attraversare la barriera ematoencefalica interferendo con l’attività dei neuroni, oppure alla tendenza ad essere letargici e ritirarsi in risposta alle infezioni), questo filone di ricerca suggerisce che vi sia una “risposta immunitaria comportamentale” caratteristica per i vari tipi di personalità. Se vogliamo, è anche un nuovo percorso di ricerca che potremmo definire “epigenetica psicologica”, psicologia epigenetica, oppure epigenetica della personalità.

“Secondo questo approccio teorico – dicono gli autori della ricerca – gli individui che hanno relativamente deboli risposte biologiche di tipo immunitario, si ipotizza mostrino risposte immunitario-comportomentali più forti, come evitare gli estranei (ad esempio, introversione), ridotto comportamento esplorativo (cioè bassa apertura all’esperienza), e un maggiore comportamento danno-evitante (cioè coscienziosità)”.

Così come una fisiologia di tipo “allostatico” (che cioè deve continuamente trovare un adattamento rispetto all’ambiente e alle molteplici situazioni) suggerisce che  le difese biologiche di tipo immunitario possano essere up-regolate nei soggetti che “soffrono di estese esposizioni al pericolo o allo stress, e potrebbero quindi sperimentare un elevato rischio di lesioni o infezioni, oppure negli individui altamente socievoli che affrontano una maggiore esposizione alle malattie trasmissibili”.

Dobbiamo inoltre considerare la personalità attuale di ognuno di noi come il frutto di un processo evolutivo durato milioni di anni. Dei quali, neppure un secolo fa si moriva per le infezioni più banali. Di conseguenza, la personalità degli umani si è strutturata, primariamente, nello sforzo di combattere le malattie. Un carattere estroverso può ad esempio essere maggiormente portato a praticare attività fisica e ad essere più robusto nell’età giovanile.

L’altro lato della medaglia è che l’infiammazione sostenuta nell’arco della vita, può aprire le porte a una serie di malattie metaboliche, cardiovascolari e oncologiche. Da qui, anche se è complesso cambiare la personalità di ognuno di noi, la possibilità di studiare interventi mirati sia terapeutici che di stili di vita per porre argine all’attivazione genica pro-infiammatoria di taluni soggetti.

Fin qui gli studiosi dei collegamenti tra personalità e salute hanno elaborato una nutrita messe di interpretazioni teoriche, lasciando tuttavia poco definiti i meccanismi biologici che mediano tali rapporti. La nuova ricerca di cui parliamo (Kavita Vedhara, professore di psicologia della salute, Università di Nottingham, Regno Unito), ha invece preso in esame 121 studenti sani ai quali è stato fatto compilare un questionario di personalità per valutare i cosiddetti tratti “Big Five”. Agli studenti è stato inoltre chiesto di altri comportamenti e sili di vita, come fumare, bere, esercizio fisico o meno, che potrebbero essere associati ad alcuni tipi di personalità.  Agli studenti è stato poi prelevato un campo di 5 ml di sangue periferico ai fini di una analisi dell’espressione genica. E’ stata quindi valuta l’attività di 19 geni coinvolti nella risposta infiammatoria, così come dei geni coinvolti nella produzione di anticorpi e di difese contro le infezioni virali.

Quello che è emerso è, a prima vista, sorprendente. Anche tenendo conto dell’analisi del comportamento, come ad esempio il consumo di alcol, in media i geni che innescano l’infiammazione sono per il 17 per cento più attivi negli estroversi che negli introversi. Mentre negli studenti che avevano un punteggio alto per la coscienziosità, l’attivazione dei geni pro-infiammatori è risultata inferiore del 16 per cento rispetto ai soggetti meno coscienziosi. Negli altri geni del sistema immunitario non sono emerse altre differenze evidenti.

Ma ciò, come si diceva, è sorprendente soltanto in apparenza. E’ ad esempio risaputo che fattori come lo stress, specie se protratto o addirittura cronico, può aumentare l’attività dei geni infiammatori. Cosicché le persone maggiormente coscienziose potrebbero avere minore stato infiammatorio perché si prendono maggiore cura di se stessi rispetto agli estroversi, con conseguenti meno probabilità di infortunarsi o attorniarsi di persone malate che potrebbero passare i germi.

Diciamo che per il tratto immuno-comportamentale della tipologia “coscienzioso” potremmo riadattare la definizione di “gene egoista”.  Ben pochi di essi forse farebbero i medici, i volontari in soccorso di persone disagiate, né tantomeno andrebbero a curare i malati di Ebola. Viceversa però, c’è chi considera che seppure l’estroverso abbia una maggiore attivazione dei geni pro-infiammatori, sia tuttavia più portato ad avere atteggiamenti altruistici, e la felicità che deriva dal portare aiuto e dall’avere uno scopo nella vita, è dimostrato possa ridurre l’infiammazione. Morale: se vuoi essereCoverOK altruista, sappi che c’è un prezzo da pagare (in senso immunitario), ma ne ricaverai pure benefici.

Tutto ciò è molto affascinante e apre una infinità di considerazioni, di cui siamo soltanto all’inizio. Il sogno della vecchia medicina psicosomatica sta gradualmente diventando realtà grazie alle scoperte della psiconeuroimmunologia. Conviene per ora moderarsi nelle speculazioni intellettualistiche concludendo con gli autori di questo lavoro: “sebbene i meccanismi biologici di queste associazioni restano da definire in ricerche future, i dati presentati possono gettare nuova luce sulle associazioni epidemiologiche a lungo osservate tra la personalità, la salute fisica e la longevità umana”.

Kavita Vedhara, Sana Gill,Lameese Eldesouky,Bruce K. Campbell, Jesusa M.G. Arevalo, Jeffrey Ma,Steven W. Cole, Personality and gene expression: Do individual differences exist in the leukocyte transcriptome?, Psychoneuroendocrinology (2015) 52, 72—82

Linda Geddes, Do you have a healthy personality?, New Scientist 3005, 24 January 2015, 10-11.

Vedi anche:

Epigenetica, ambiente e malattie. Intervista ad Andrea Fuso

David Perlmutter: epigenetica, scelte di vita, salute e longevità

Come e quanto è stato visto Neurobioblog nel 2014


I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2014 per questo blog.

Ecco un estratto:

La sala concerti del teatro dell’opera di Sydney contiene 2.700 spettatori. Questo blog è stato visitato circa 24.000 volte in 2014. Se fosse un concerto al teatro dell’opera di Sydney, servirebbero circa 9 spettacoli con tutto esaurito per permettere a così tante persone di vederlo.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

Alfred Binet, l’illusionismo e il cinema


Webdocumentaire Alfred Binet-page-001Alfred Binet (1857–1911) è stato un vero genio della psicologia scientifica. Allievo di Jean-Martin Charcot alla Salpêtrière, inventò i test d’intelligenza. Fu un precursore in molti campi e praticamente si interessò, anche con esperimenti originali, di parecchi degli attuali settori di indagine della psicologia e delle neuroscienze: ipnosi, memoria, false memorie, apprendimento, emozioni, coscienza normale e alterata, aspetti psicologici del cinema e della fotografia, inganno e illusione. Questi ultimi campi di ricerca, ingaggiando e studiando, tra l’altro, cinque maghi tra i migliori di Francia dei suoi tempi. Figlio di un medico e di una artista, ereditò e mise a frutto la genetica familiare in un miscuglio originale di creatività e scienza.

Praticamente misconosciuto in Italia (non esiste una sola biografia su di lui), pur potendolo considerare anche un pochino italiano: nasce infatti a Nizza quando faceva ancora parte del Regno di Sardegna con il nome di Alfredo Binetti. Per chi volesse colmare la lacuna, ecco un ottimo e recente webdocumentario francese dal titolo Alfred Binet. Naissance de la psychologie scientifique. Ideato e scritto da Alexander Klein e Philip Thomine (che è anche il regista), sotto la direzione scientifica di Bernard Andrieu, questo webdocumentario ripercorre la vita e l’opera dello psicologo francese attraverso documenti d’archivio e interventi di specialisti di storia della psicologia e della pedagogia.

Unicamente umano: commento a Giorgio Vallortigara


TomaselloCon il titolo “Prima si coopera, poi si parla” il professore di neuroscienze dell’Università di Trento Giorgio Vallortigara ha recensito su Domenica24 il libro dell’antropologo evolutivo Michael Tomasello intitolato Unicamente umano. Storia naturale del pensiero (il Mulino). Io stesso nelle mie conferenze spiegavo, avendolo ripetutamente letto, che ciò che ci differenzia dalle scimmie è lo sviluppo dei lobi frontali, detti anche lobi culturali.

Secondo ciò che fino ad ora sembrava evidente  lo sviluppo dei lobi frontali e di conseguenza della nostra cultura andava attribuito al linguaggio essendo in fondo il pensiero costruito su questa nostra  capacità. Recentemente,  inoltre, a convalida di queste interpretazioni è stato dimostrato che il linguaggio è naturale conseguenza della nostra gestualità. Fino ad oggi, riferisce Vallortigara, l’individuazione di qualcosa che rende unico il nostro sistema nervoso rispetto a quello degli altri animali è risultato  difficile.Varie ipotesi si sono succedute, in particolare che i nostri due emisferi avrebbero una asimmetria di funzioni con le due parti intente  a svolgere compiti differenti, come molto bene aveva spiegato negli anni ’80 Elkhomon Goldberg nel suo libro L’anima del cervello (Utet).

In realtà l’asimmetria di funzioni è stata dimostrata anche in alcuni animali ed è presente addirittura in un nematode vermiforme, lungo 1 mm e dotato di solo 300 neuroni. L’idea poi che i lobi frontali siano evoluti a dismisura è stata recentemente fatta a pezzi da ricercatori come Robert Barton dell’Università di Durham. In sostanza le dimensioni del nostro cervello sono coerenti con quelle di un primate della nostra grandezza! Povero sapiens, che brutta notizia da digerire. Qualche anno fa, venne dato grande valore alla scoperta,  rivalorizzata, che fossero i neuroni  scoperti da  Von Economo (1929),  cellule nervose di tipo fusiforme, il vero movente del nostro essere sapienti. In realtà questi neuroni, oltre a essere presenti nelle grandi scimmie, sono stati trovati anche nelle balene, negli elefanti  ed addirittura negli ippopotami pigmei, oltre che nelle piccole scimmie. Insomma, cosa allora ci distingue dagli animali e cosa in particolare ci ha fatto evolvere ? La risposta di Tomasello (condirettore dell’Istituto MaxPlanck per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia ) è semplice: nell’homo sapiens è “l’intenzionalità condivisa” il motore evoluzionistico.

A differenza degli scimpanzè,  che in una serie di esperimenti hanno dimostrato di sapere leggere la mente dell’altro, e cioè il comportamento di colui che hanno di fronte, nell’umano avviene un meccanismo di intenzionalità condivisa, in altri termini di cooperazione opportunistica. La cognizione sociale dei primati  non umani si è evoluta fondamentalmente nel contesto della competizione per le risorse del gruppo (cibo, partner  sessuali, ecc). L’idea di Tomasello è che gli esseri umani posseggano  una forma di pensiero unica, l’intenzionalità condivisa, che sarebbe sorta in relazione ad adattamenti volti a risolvere problemi di coordinamento  sociale, che emergono quando gli individui cercano di collaborare con gli altri anziché competere.

La complessità delle capacità cognitive degli esseri umani potrebbe essereil risultato della complessità della loro vita di relazione. In tal caso, scrive Vallortigara, lo scenario evolutivo dovrebbe implicare la selezione delle capacità cognitive in qualche altro dominio e la sua successiva estensione nell’ambito dei problemi sociali. A conferma di ciò il fatto che i bambini di età prescolare sono nettamente più evoluti delle scimmie nella soluzione  di problemi che riguardano la sfera sociale mentre sono sovrapponibili alle scimmie nella risoluzione di problemi fisici. E’ plausibile perciò, secondo  Tomasello,  che pressioni ecologiche, quali il venir meno della necessità di procurarsi il cibo individualmente e la concorrenza esercitata da altri gruppi, abbiano agito sullo sviluppo delle relazioni sociali di Homo sapiens favorendo l’evoluzione di modi di vivere fondamentalmente più cooperativi (accudimento dei piccoli, raccolta del cibo, difesa cooperativa del gruppo, forme cooperative di insegnamento e comunicazione) che richiedevano abilità cognitive fondate sull’intenzionalità congiunta .

Il linguaggio quindi, scrive ancora nella sua recensione Vallortigara, pure molto importante, sarebbe entrato in gioco successivamente   grazie agli adattamenti preesistenti per l’intenzionalità congiunta. Sarebbero  pertanto questi  presupposti dell’ interazione sociale e della  intenzionalità condivisa  ad avere  favorito processi che hanno successivamente reso possibili  linguaggio, scrittura e cultura. Insomma, se  questa ipotesi fosse fondata, non ci sarebbero sostanziali differenze dal punto di vista evolutivo fra il cervello umano e quello delle  scimmie o degli  ominidi che ci hanno preceduto ma, sulle comuni basi anatomico  funzionali, l’evoluzione del sapiens sarebbe da ascrivere semplicemente ad una maggiore capacità collaborativa in fondo innescata da un logico opportunismo  per una migliore sopravvivenza della specie.

In fondo, se questa ipotesi venisse confermata, e  l’autorevolezza di Tomasello la rende molto veritiera, ancora minore sarebbe, dal punto di vista evolutivo, il balzo in avanti dell’homo sapiens rispetto agli altri animali, e forse dovremmo guardare con maggiore rispetto alcune specie animali. Come ad esempio gli elefanti, la cui capacità di aggregazione, rispetto  individuale, amore per i piccoli, dignità nell’affrontare la morte, lutto per i defunti, è sicuramente maggiore di quanto faccia l’Homo sapiens.

Vedi anche: 

A che gioco giochiamo noi primati. Intervista a Dario Maestripieri

Archeologia della mente: intervista a Jaak Panksepp