Nelle mie conversazioni sul cervello e sui primi 1000 giorni di vita, determinanti per il nostro futuro, affrontavo l’argomento dei neuroni specializzati portando l’esempio dei neuroni responsabili della vista. L’esempio è molto semplice, se un neonato nasce con la cataratta e non viene operato entro due mesi , i neuroni specializzati nella visione si perdono ed i neuroni vicari , dopo l’intervento, non sono programmati per una visione altrettanto corretta. Fino a che punto, mi chiedevo, i neuroni sono programmati, a livello cognitivo, nell’homo sapiens? La risposta, inquietante, a questo quesito, l’ho trovata leggendo il libro Proiezioni di Karl Deisseroth, l’autore, oltre ad essere psichiatra, docente universitario, ed ottimo clinico è anche laureato in bioingegneria ed ha fondato con altri ricercatori una nuova scienza nota come “optogenetica” .
Cercherò di semplificare di cosa si tratta citando uno dei primi esperimenti effettuati con questa tecnica: si prende un gene arcaico da un’alga o da un antico pesce noto come zebrafish (pesce zebra) e lo si veicola, attraverso un virus, nel cervello di un topolino, successivamente con una particolare luce laser, si attiva il gene ed in particolare una opsina microbica eccitatoria contenuta in esso e si osserva, illuminato, il percorso delle emozioni di cui è responsabile quel determinato gene. Il primo studio è stato condotto su una delle emozioni primarie dell’animale cioe’ la fuga o lo stallo di fronte ad un pericolo. Nel caso dell’animale la decisione è immediata in quanto determinata da una situazione biologica programmata, nel caso dell’homo sapiens invece, la riflessione spesso non esita in una decisione corretta e nascono di conseguenza i famosi traumi non risolti spesso responsabili di varie problematiche psichiche. Progredendo con gli studi l’autore, nell’epilogo, affronta il tema della sociopatia che in psichiatria viene definito come disturbo antisociale.
Nell’evoluzione dell’homo sapiens ci sarebbero dall’uno al sette percento di sociopatici in quanto portatori di cellule che spingono ad aggredire o ad uccidere. L’esperimento condotto sui topi con l’optogenetica è molto preciso, ai topolini a cui con la luce laser vengono attivate queste cellule scatta una aggressività che porta questi animaletti ad uccidere i propri simili senza alcuna motivazione. Se ne deduce che tutti noi siamo portatori di questi neuroni killer ma non diventiamo aggressivi in quanto questo gruppo di cellule è controllato in quasi tutti gli umani da altri gruppi di cellule neuronali finalizzate a organizzare in noi il senso di responsabilità. Solo coloro che non hanno questo controllo diventano sociopatici, potenzialmente in grado di uccidere.
Come scrive il neurochirurgo Arnaldo Benini nel libro Neurobiologia della libertà ognuno di noi è convinto di essere libero e di potere scegliere, in realtà siamo già programmati, come l’optogenetica sta dimostrando, per compiere determinate azioni o per controllare determinati impulsi e si può intravedere in futuro, attraverso questa nuova tecnica, di potere esercitare un programma di prevenzione disattivando con la luce laser il gruppo di cellule neuronali che portano questi soggetti a compiere azioni criminali. In fondo nel suo libro Il diavolo mi accarezza i capelli il criminologo Adolfo Ceretti propone il recupero di questi soggetti attraverso un percorso riabilitativo e di consapevolezza che va proprio in questa direzione, cioè educare queste persone ad avere quel senso di responsabilità di cui sono prive, non per loro colpa.
Per molti secoli i sogni sono stati un mistero. Un mondo dentro il cervello che mi ha sempre affascinato. Anche per esperienze personali. Quando anni fa intervistai lo psichiatra e neuroscienziato John Allan Hobson all’indomani dell’uscita suo bellissimo The Dreaming Brain (in italiano La macchina dei sogni, Giunti)che acquistai a New York appena uscito, mi resi ulteriormente conto che la ricerca sul sogno era a una svolta epocale. Grazie alle moderne tecnologie di visualizzazione del cervello in attività si sarebbe finalmente potuto indagare, con metodi scientifici, quel mistero vecchio di secoli, se non di millenni.
L’anno prossimo saranno passati giusto settant’anni da quando, nel 1953, Eugene Aserinsky e quello che allora era ancora uno studente e oggi è considerato l’iniziatore degli studi scientifici sul sonno, Nathaniel Kleitman, scoprirono che i movimenti oculari rapidi sotto le palpebre chiuse erano associati alle fasi in cui il cervello sogna, le famosi fasi Rem (da “rapid eye movement”). Il concomitante studio di queste fasi del sonno Rem e non-Rem grazie all’unico mezzo allora disponibile, l’elettroencefalogramma (EEG) che registra l’attività elettrica del cervello, permise di delineare i vari stadi del sonno. La scoperta delle fasi Rem è fondamentale non solo per la ricerca sul sonno ma, come si sta dimostrando, anche per lo studio complessivo del cervello. La nota curiosa e paradossale è che molti ricercatori hanno negato l’importanza delle fasi Rem, considerandole alla stregua di azioni casuali, forse per mantenere le palpebre lubrificate.
Ma cosa avviene nel cervello durante questi movimenti rapidi degli occhi associati alle esperienze oniriche? Sono davvero casuali seppure associate ai sogni? Già da anni si era ipotizzato che i movimenti degli occhi seguissero le scene allucinatorie del sogno. Ma non c’era mai stata una dimostrazione scientifica di questa presunta attività percettiva-cognitiva. In una recente ricerca sperimentale, con tecnologie di ultima generazione, da parte di Yuta Senzai e Massimo Scanziani del Dipartimento di Fisiologia e dell’Howard Hughes Medical Institute Università della California, San Francisco, si sono potute osservare le cellule della “direzione della testa” (le cosiddette “place cells”) nel cervello dei topi che sperimentano anche il sonno Rem. Queste cellule agiscono come una bussola e la loro attività mostra ai ricercatori in quale direzione il topo percepisce se stesso come direzione.
Il team ha registrato simultaneamente i dati da queste cellule sulle percezioni di direzione del topo monitorando i suoi movimenti oculari. Confrontandoli, hanno scoperto che la direzione dei movimenti oculari e della “bussola interna” al cervello del topo erano allineati con precisione durante il sonno Rem, proprio come quando il topo è sveglio e si muove. Inoltre Il team di Scanziani ha scoperto che le stesse, molteplici parti del cervello interessate si coordinano sia durante il sogno che durante la veglia, dando credito all’idea che i sogni sono un modo per integrare le informazioni raccolte durante il giorno.
Il sogno è alla base della creatività?
Si tratta di una ulteriore dimostrazione del fatto che, durante il sogno, il nostro cervello riorganizza le memorie, sia del corpo che della mente, assembla elementi della vita quotidiana con altri totalmente inventati. E forse tutto ciò potrebbe essere alla base della creatività.
Quando diciamo che una certa arte o un certo cinema sono “onirici” e “visionari”, vedi ad esempio pittori come Hieronymus Bosch o Salvador Dalí, oppure registi come Fellini, Terry Gilliam o David Cronenberg, stiamo forse ipotizzando qualcosa che ha davvero un riscontro nel funzionamento complessivo del nostro cervello, sia durante la veglia che durante il sonno? Del resto è dimostrato anche per altre vie il fatto che staccarsi dalla realtà quotidiana, isolarsi dalle distrazioni del mondo circostante, e magari transitare in uno stato modificato di coscienza, possa favorire i processi creativi. Del resto, lo stesso John Allan Hobson, citato all’inizio, scrisse un intrigante saggio con lo storico dell’arte Hellmut Wohl, dal titolo piuttosto esplicito: Dagli angeli ai neuroni. L’arte e la nuova scienza dei sogni (Edizioni Mattioli 1885).
Ed è pure noto, dalle biografie di artisti, scienziati e musicisti, che certe intuizioni possano arrivare in sogno, oppure nelle fasi iniziai dell’addormentamento o del risveglio: nei cosiddetti stati ipnagogici e ipnopompici. Fu lo stesso chimico tedesco August Kekulé a narrare di avere scoperto, anzi “visto” come un serpente che si morde la coda (il mitico Uroboro), la formula di struttura del benzene; il giornalista ungherese Lazlo Biro che sogna una sfera intrisa di inchiostro che scorrendo sulla carta scrive e inventa la penna a sfera; il compositore Giuseppe Tartini che sogna il suo celebre “Trillo del diavolo”; Robert Louis Stevenson che sogna il fulcro del suo racconto “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, ma pure Mary Shelley col suo “Frankenstein”. E non è certo un caso che opere letterarie come queste, che intrigano sia la parte conscia che inconscia della nostra mente, rimangano come pietre miliari nel storia della letteratura e abbiano ispirato così tanti film, rappresentazioni teatrali, opere musicali e fumetti. L’ipotesi è che la mente creativa prosegua il proprio lavoro anche durante gli stati di sonno con sogno, assemblando memorie ed elementi insoliti, fino a quel momento inesistenti. Il sogno sarebbe dunque una sorta di laboratorio virtuale in cui mettere in campo cose nuove, soprattutto per cervelli abitualmente al lavoro nella produzione creativa durante la vita di veglia.
Massimo Scanziani, uno dei due autori della ricerca che citiamo qui, è dello stesso avviso riguardo i rapporti tra sogno e creatività, tanto che parla di “cervello generativo”. «Questo lavoro ci offre uno sguardo sui processi cognitivi in corso nel cervello addormentato e allo stesso tempo risolve un enigma che ha suscitato la curiosità degli scienziati per decenni”», dice Scanziani. E ancora: «È importante capire come il cervello si aggiorna sulla base delle esperienze accumulate. Capire i meccanismi che ci consentono di coordinare così tante parti distinte del cervello durante il sonno ci darà un’idea di come quelle esperienze diventano parte dei nostri modelli individuali di cosa è il mondo e come funziona. Uno dei nostri punti di forza come esseri umani è questa capacità di combinare le nostre esperienze del mondo reale con altre cose che non esistono al momento attuale e potrebbero non esistere mai. Questa capacità generativa del nostro cervello è la base della nostra creatività».
Siamo partiti parlando del mistero dei sogni per approdare ad un altro, eterno dilemma: quello della creatività. Forse le ricerche presenti e future ci permetteranno di comprendere che sogno e creatività sono strettamente imparentati e magari che il mistero è unico. Sottolineo infine l’importanza del concetto di “cervello generativo”, differente da “cervello creativo”, di cui, ne sono certo, sentiremo ancora parlare.
L’etnobotanico Giorgio Samorini, grande studioso di sostanze psicoattive, ha pubblicato tre anni fa, con Adriana D’Arienzo, medico anestesista e rianimatore, due documentatissimi volumi sulle “Terapie psichedeliche” (Shake Edizioni). E non passa giorno che non si aggiunga qualche nuova ricerca, qualche nuovo studio clinico sugli effetti terapeutici delle sostanze psichedeliche. Ne era consapevole anche Albert Hofmann, scopritore dell’LSD, che incontrai e intervistai molti anni fa durante un convegno a Rovereto, quando diceva che queste sostanze, messe al bando per il loro uso ludico di massa, sarebbero state riscoperte in seguito per i loro potenti effetti terapeutici. E così è stato, tanto che oggi si parla di “rinascimento psichedelico”, ovviamente riferito al loro uso in ambito terapeutico controllato. Ma magari lo stesso Samorini non sarà completamente d’accordo su questo.
Fatto ne sia, che una delle più recenti ricerche cliniche, pubblicata da JAMA Psychiatry (mica un giornalucolo qualunque), ha evidenziato che la psilocibina (composto psichedelico contenuto nei funghi allucinogeni) può aiutare le persone con dipendenza da alcol ad astenersi dal bere. Secondo i risultati del più ampio studio condotto fino ad oggi su psilocibina e dipendenze, quasi la metà 95 adulti a cui era stata diagnosticata la dipendenza da alcol che hanno assunto il farmaco a base di psilocibina come parte di un programma terapeutico di 12 settimane, non ha toccato alcol più di otto mesi dopo. Come si spiega? In base alle ricerche di laboratorio, David Yaden del Center for Psychedelic & Consciousness Research della Johns Hopkins University nel Maryland, reputa che le sostanze psichedeliche possono aumentare la neuroplasticità, la capacità del cervello di cambiare e adattarsi. E questo potrebbe spiegare perché le sostanze psichedeliche possono aiutare le persone a cambiare i loro comportamenti. Tutti temi di cui stiamo discutendo ormai da anni anche con Enzo Soresi, e chissà che non ne nasca qualche nuova pubblicazione, a quattro mani e due cervelli.
“Ma che hai? Ti vedo distrutta”. “Sì, guarda, mi sono talmente arrovellata sui miei problemi che mi sento come se avessi caricato dei pesi per tutto il giorno…”. Capita, che ci si senta a questo modo, anche senza avere fatto nulla di particolarmente faticoso? Eccome se capita. Lo abbiamo sperimentato tutti. Ma è solo un fatto psicologico o c’è davvero qualche corrispondenza fisica? Secondo nuove ricerche sembra proprio che impegnarsi mentalmente per troppe ore lasci debilitati pure a livello fisico, con riscontri biologici specifici. Del resto abbiamo la controprova, proprio in questi giorni: impegnarci in una bella scarpinata sui monti o con delle belle nuotate al mare, pur necessitando di sforzo fisico, ci lascia più ritemprati che non una giornata sedentaria passata a pensare. E il motivo pare risiedere in quel composto biochimico chiamato glutammato che, dopo ore e ore passate a pensare intensamente, si accumula nelle regioni della parte anteriore del cervello.
Il glutammato, un amminoacido presente anche in gran parte di ciò che mangiamo, in misura maggiore o minore, è un importante neurotrasmettitore del nostro cervello e del nostro sistema nervoso. Ma in eccesso può fare male. Tanto che vi sono alcuni farmaci per abbassarlo. Però non c’era mai stata la dimostrazione sperimentale che si potesse accumulare glutammato nel cervello eccedendo nel fare funzionare intensamente i neuroni. E sarebbe però interessante capire pure quale tipo di impegno cognitivo faccia accumulare glutammato e quindi farci sentire esausti. Dato che non tutto il pensare alla fin fine stanca.
Ma per tornare alla ricerca, guidata dallo psicologo e ricercatore Antonius Wiehler del francese Paris Brain Institute, essa si è focalizzata su una regione della parte anteriore e laterale del cervello chiamata corteccia prefrontale laterale, che molti lavori precedenti hanno dimostrato essere coinvolta in difficili compiti mentali. Ebbene, in questa area cerebrale, attraverso una tecnica chiamata spettroscopia di risonanza magnetica (MRS) che misura in modo non invasivo i livelli di varie sostanze chimiche nei tessuti viventi, i ricercatori hanno potuto misurati i livelli di otto diverse sostanze chimiche del cervello, incluso il glutammato, che è la principale sostanza chimica di attivazione tra i neuroni.
In che modo? Sottoponendo 40 persone a svolgere attività di memoria sdraiate in uno scanner MRS. Queste includevano la visualizzazione di sequenze di numeri che appaiono su uno schermo e l’indicazione se il numero corrente era lo stesso di quello precedente. Ventisei dei partecipanti hanno svolto una versione più difficile di questo compito, mentre agli altri 14 è stata assegnata una versione più semplice. Dopo aver completato i compiti di memoria per 6 ore, quelli che facevano la versione più difficile avevano aumentato i livelli di glutammato nella loro corteccia prefrontale laterale rispetto all’inizio dell’esperimento. In coloro che svolgono il compito più semplice, i livelli sono rimasti più o meno gli stessi. In tutti i partecipanti, non c’è stato alcun aumento nelle altre sette sostanze chimiche del cervello che sono state misurate.
Come commenta la giornalista medico Chiara Wilson su “New Scientist”: «Tra i partecipanti che svolgono i compiti più difficili, il loro livello di glutammato aumentava con la dilatazione delle pupille nei loro occhi, un’altra ampia misura della fatica. Coloro che hanno svolto il compito più semplice hanno riferito di sentirsi stanchi, ma non hanno avuto aumento del glutammato o dilatazione della pupilla. I ricercatori hanno anche studiato se l’affaticamento mentale ha influenzato il processo decisionale. Lo hanno fatto intervallando il compito di memoria con diversi esercizi, come quello in cui le persone sceglievano tra ricevere una somma di denaro immediatamente o un’altra in seguito. Poiché i partecipanti al compito più difficile si sentivano più stanchi e avevano un accumulo di glutammato, sono passati a opzioni che davano immediatamente una piccola ricompensa. Questo potrebbe essere un esempio di come evitare compiti mentali difficili, come calcolare quale scelta fare, per prevenire l’accumulo di livelli di glutammato potenzialmente dannosi». “Un modo per ridurre l’accumulo di glutammato è attivare meno la corteccia prefrontale laterale durante le scelte”, afferma Wiehler. “Se lo fai, scegli più spesso l’opzione allettante”.
Vi ricorda qualcosa delle vostre giornate? Tipo quando, dopo molte ore di lavoro al computer, migrate sui social o su altri siti piacevoli o di acquisti online? Oppure le ore trascorse a vedere la tv o una di quelle serie che vi appassionano? State disattivando la vostra corteccia prefrontale laterale. Cioè state accumulando meno glutammato nel cervello. Sempreché non abbiate mangiato troppi manicaretti della cucina cinese.
(Post di Simone Zoia, fisico teorico dell’Università di Torino)
Sono personalmente d’accordo con l’affermazione che il libero arbitrio non esista, intendendo con “libero arbitrio” una forma di volontà/coscienza che trascenda le leggi della fisica e sia in grado di influenzare le nostre scelte.
Per quel che capisco, il fatto che la meccanica quantistica introduca un elemento di casualità intrinseco nelle leggi della fisica non ha alcuna conseguenza sulla conclusione che il libero arbitrio – inteso come sopra – non esista. Per quanto i fenomeni quantistici distruggano l’idea di determinismo in senso classico, essi sono per l’appunto casuali: possono introdurre un grado di impredicibilità negli eventi, ma non sono influenzati da alcuna forma di “volontà”. Un tale fenomeno, se mai esistesse, andrebbe oltre le leggi della fisica attualmente note. Ciò è estremamente improbabile, poiché tali leggi sono state confermate da un’infinità di osservazioni negli intervalli di energie e distanze rilevanti per la nostra vita quotidiana (inclusi i fenomeni neurologici). Anche se la nostra comprensione della natura potrebbe non essere definitiva, qualsiasi modifica alle attuali leggi avrebbe impatto solo a scale di energia incredibilmente elevate o distanze incredibilmente piccole (per fenomeni come i buchi neri o il Big Bang, per esempio). Le attuali leggi della fisica resterebbero validissime, anche se come approssimazioni, per tutti i fenomeni rilevanti per la nostra vita quotidiana.
Detto ciò, il concetto di “libero arbitrio” resta per me utile in due sensi.
Primo, come proprietà per descrivere il comportamento umano. E’ in pratica impossibile descrivere il comportamento umano in termini delle leggi fondamentali della fisica. Per esperienza personale le posso dire che è già sufficientemente difficile determinare il comportamento di una singola particella, figuriamoci un intero organismo! Se vogliamo descrivere il comportamento degli esseri umani è necessario ricorrere a proprietà emergenti. Il fisico/filosofo Sean Carrol esprime questo concetto con una metafora molto astuta: “il libero arbitrio è reale quanto il baseball”. Le regole del baseball non fanno parte delle leggi fondamentali della fisica e sarebbe praticamente impossibile spiegare una partita di baseball partendo dalle particelle subatomiche. Per questo, quando guardiamo una partita di baseball, facciamo ricorso alle regole del baseball e non a quelle del Modello Standard della fisica delle particelle. Allo stesso modo, per descrivere il comportamento di una persona occorre ricorrere a regole emergenti, come per esempio il libero arbitrio. Possiamo quindi vedere le persone come agenti razionali dotati di libero arbitrio non perché esse abbiano una libertà intrinseca che trascende le leggi della fisica, ma poiché tale descrizione funziona molto bene per spiegare il loro comportamento.
Secondo, il concetto di libero arbitrio è fondamentale per la società. Rinunciare a descrivere il comportamento delle persone in termini di libero arbitrio vorrebbe dire rinunciare al concetto di responsabilità. Considerare le persone come agenti razionali dotati di libero arbitrio non solo è una buona e semplice descrizione del loro comportamento, ma garantisce una migliore vita di comunità per tutti.
In conclusione, la mia posizione sul libero arbitrio è che non esista come fenomeno fisico, ma che sia un’utilissima proprietà emergente che consente una più semplice descrizione del comportamento umano e una migliore vita di comunità.
Sin dall’inizio della pandemia è emerso che i danni maggiori in corso di Covid-19 erano da ascriversi all’esagerata risposta infiammatoria dell’organismo. Qualcosa di simile a quanto succede nelle malattie autoimmuni in cui il sistema immune innesca una risposta contro il proprio organismo e determina un danno dei tessuti legato all’infiammazione. Inoltre è stato visto che pazienti con malattie autoimmuni ed in terapia con farmaci immunosoppressori non manifestavano una malattia più grave ed anzi, in alcuni casi presentavano forme più lievi. Da queste osservazioni è nata l’idea di utilizzare questi stessi farmaci anche in corso di Covid-19. L’Alleanza Europea delle Associazioni di Reumatologia, EULAR, è l’organizzazione che rappresenta le persone affette da malattie reumatologiche (incluse quelle autoimmuni), gli operatori sanitari in reumatologia e le società scientifiche di reumatologia di tutte le nazioni europee.
«L’EULAR ha radunato un gruppo di esperti europei, tra i quali il sottoscritto», spiega il prof. Pierluigi Meroni, direttore del Laboratorio sperimentale ricerche immunologia clinica e reumatologia dell’Auxologico «ed ha chiesto loro di analizzare tutti i dati riguardanti l’uso di farmaci anti-infiammatori ed immunosoppressori disponibili nelle pubblicazioni scientifiche relative a pazienti con Covid-19. Il gruppo era costituito principalmente da reumatologi con larga esperienza nell’utilizzo di questi farmaci e da epidemiologi e statistici che hanno contribuito ad analizzare i dati raccolti. L’obiettivo è stato quello di fare il punto obiettivo su quali di questi farmaci si erano dimostrati efficaci e quali no sulla base di dati oggettivi e controllabili. Inoltre è stato chiesto al gruppo di esprimere delle linee guida e suggerimenti per l’utilizzo di questi farmaci nella pratica clinica. Il gruppo ha pubblicato una prima relazione sulla rivista “Annals of the Rheumatic Diseases” (dell’importante Gruppo British Medical Journal) all’inizio del 2021 ed un successivo aggiornamento a settembre».
In estrema sintesi, si è dimostrata l’inefficacia dell’utilizzo di antimalarici (Plaquenil) inizialmente creduti utili sulla base di modelli sperimentali non confermati dagli studi clinici. Inoltre si è visto che alcuni farmaci biologici (ad esempio gli inibitori del TNF) non sono dannosi e possono essere utilizzati con cautela nei pazienti reumatici in remissione con questi farmaci. Il dato più importante è tuttavia risultato quello della dimostrazione di come l’utilizzo di biologici che bloccano l’interleuchina 6 (uno dei principali mediatori dell’infiammazione) e del cortisone abbia un effetto positivo sulle forme moderate/severe di Covid-19 indipendentemente dalla presenza di una malattia reumatica autoimmune associata. Lo stesso è stato riscontrato per l’uso di inibitori della Janus chinasi (baricitinib e tofacitinib), farmaci da poco disponibili per il trattamento di artriti infiammatorie. Viceversa, gli anticorpi monoclonali anti-Sars-CoV-2 e il plasma convalescente possono trovare applicazione nelle prime fasi della malattia e in sottogruppi selezionati di pazienti immunosoppressi. In conclusione, l’esperienza acquisita dai reumatologi/Immunologi clinici nel campo delle malattie autoimmuni si è rivelata di aiuto per disporre di farmaci che non hanno un’azione diretta sul virus Sars-CoV2 ma che sono in grado di spegnere il processo infiammatorio conseguente al virus e dannoso per il nostro organismo.