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L’uomo che verrà: il cinema come memoria e recupero di senso


All’uscita dal cinema, dopo aver visto questo film, non chiedete al vostro compagno o compagna di poltrona: “ti è piaciuto?”. Come può piacerci l’orrore? L’orrore quello vero, non quello dei film splatter. L’orrore dell’uomo sull’uomo. Su donne, bambini e vecchi inermi. Com’erano i contadini dell’Appennino emiliano, a Monte Sole, nel territorio di Marzabotto.  Trudicidati a centinaia. A  pistolettate, mitragliate, fucilate.

Le armi, le pallottole contro i corpi di gente semplice, umile, povera, dignitosa. Spesso saggia e fatalista. Come sa esserlo chi vive seguendo i ritmi della natura. Chi ancora sa ammirare l’eccezionalità di un campo di notte rischiarato dalle flebili e danzanti lucciole.

Nascita, vita, morte. Tutto ciò fa parte del gioco. Ma non il tradimento, la cattiveria, la crudeltà. Ed è una storia che si ripete, protrae anche oggi in ogni luogo in cui vi sia una guerra. Di eserciti o criminali. Ogni volta che le armi parlano al posto di argomenti, emozioni, sentimenti.  L’umanità si divide tra chi salva e chi uccide. Da sempre.

C’è da riflettere e fare raffronti tra i dialoghi dei contadini, a tavola, nelle stalle, nei campi. E gli “argomenti” dei soldati in divisa. Uniformi, stivali, armi. Come mi diceva un amico musicista tedesco che aveva fatto la guerra: “Fai indossare a un uomo l’uniforme e cambierà da così a così”.

Conosco Tania Pedroni, cosceneggiatrice e coproduttrice esecutiva.  Mi ha raccontato che ha pianto e si svegliava angosciata per tutto il periodo di scrittura e lavorazione del film. Giorgio Diritti, regista, e tutti i collaboratori, hanno svolto un lavoro scientifico, sul piano psicologico e percettivo.  Hanno scelto le facce con puntigliosità lombrosiana. Ci sono facce che sono già storia. Facce da quadri di Ligabue. Volti, anch’essi contadini, che cinquecento anni fa ispirarono gli scultori del Sacro Monte di Varallo. Un cinema fatto di statue. Ma anche qui l’orrore di cui è capace il genere umano. In un mondo che l’uomo stesso tramuta in inferno per i suoi simili. Facce viscide, infingarde e traditrici. Che si insinuano, mescolano e confondono tra le facce di persone schiette, aperte, ospitali.

Ritorna in questo film come il precedente di Giorgio Diritti, “Il vento fa il suo giro“, l’elemento estraneo che altera l’equilibrio di una comunità.

Il fatto che “L’uomo che verrà” sia recitato in dialetto emiliano, interpretato da attori e gente presa dalla vita. L’aver trovato luoghi, stalle, oggetti che ricostruiscono la vita e l’atmosfera di quei tempi, ci fa compiere un viaggio nel tempo. Il dialetto, come nel precedente film di Diritti, crea intimità e complicità. Così ci si ritrova in mezzo a questi poveri esseri – di ogni tempo – di fronte alla crudeltà, idiozia e follia dei propri simili.  A sbirciare tutto ciò ammutoliti e attoniti come Martina, la protagonista. Se questo è un uomo, e che tipo d’uomo verrà quando ci risolveremo a cessare l’orrore, resta ancora un punto di domanda.

Avatar e stati di coscienza


Chi  ha  visto Avatar,  il nuovo film di James Cameron, non è rimasto indifferente. Tutt’altro. Quasi tutti i critici e recensori ne parlano come di una “esperienza”. E di questo, in effetti, si tratta. Più che il classico film visto tanto per distrarsi o divertirsi un paio d’ore. Anche se il piacere della visione non manca. Anzi.

La trama New Age ed ecologista, si basa sulla dicotomia natura-tecnologia, interessi materiali-vissuti spirituali. L’ottusità del potere e della  prepotenza dei singoli  rispetto alla vita comunitaria, il rapporto intimo, profondo, con l’ambiente naturale. Molti i riferimenti allo zen (“Non può essere riempita una tazza già colma”), allo sciamanesimo, allo spiritualismo, alla reincarnazione (o alla trasmigrazione dell’anima o meglio, della coscienza, qui tentata in modo scientifico e temporaneo, poi ottenuta stabilmente per via sciamanica – da cui il seguito del prossimo Avatar), alle esperienze fuori dal corpo (OBE, out of the body experience), al soprannaturale e al misticismo. Produttore esecutivo di Avatar è del resto Colin Wilson, studioso e profondo conoscitore di tutte le tematiche connesse al paranormale, autore di molti saggi su temi esoterici e parapsicologici, oltreché nell’ambito della fantascienza. Con Avatar, Wilson e Cameron hanno realizzato un vero e proprio compendio di temi esoterici e paranormali contrapposti alla scienza positivista. E ci hanno messo dentro temi da inconscio collettivo, come quello del “doppio” o della “grande madre”. Un film decisamente junghiano.

Il viaggio in un altrove generato dalla geniale mente di Cameron è assicurato. Si tratta di una anticipazione delle esperienze sensoriali di realtà virtuale che, da qui a qualche decennio, consentiranno di viaggiare in mondi, reali o immaginari, fantastici e perfetti in ogni particolare, totalmente creati dai computer. I sogni diventeranno sempre più parte della nostra realtà. Anzi, il confine tra onirico e reale sarà un concetto sempre più sfumato.

Cameron ha inseguito la realizzazione di questa storia in 3D per diversi anni, attendendo che la grafica computerizzata evolvesse al punto di poter realizzare un progetto così ricco e complesso.  Riuscendo ora a realizzare il film più costoso di tutta la storia del cinema. Ma pure destinato a diventare il più visto. Dando luogo ad una nuova saga fantascientifica.

Come riferisce Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 30.01.10) Cameron ha atteso l’evoluzione delle nuove tecnologie, che gli hanno consentito di “perfezionare la cinematografia tridimensionale fino a realizzare sequenze flash nelle quali le immagini vengono proiettate alternativamente all’occhio destro e a quello sinistro ma a una velocità tale – 24 volte al secondo – dal dare allo spettatore la sensazione della simultaneità”.

James Cameron è ben addentro anche alle questioni neuropsicologiche attuali. Quando gli chiedono se nel suo lavoro relativo ad Avatar prevalga più l’arte o l’ingegneria, risponde che ha dovuto utilizzare “tutti e due i lobi del cervello, quello della creatività, indispensabile per emozionare gli spettatori, e quello della disciplina perché altrimenti sarebbe impossibile condurre in porto un film. Un’impresa nella quale centinaia di ingegneri e tecnici informatici hanno lavorato per due anni  e mezzo a creare immagini e sfondi prima che sul set arrivasse il primo attore. Che poi è stato costretto a recitare in una stanza vuota, su uno sfondo bianco”.

Sulla simbologia del film, Cameron risponde: “Il film contiene messaggi universali, è contro tutti i colonialismi, dall’impero romano alle conquiste spagnole, fino ai giorni nostri”. L’abilità e la furbizia del film è pure quella di evocare vari ricordi e immagini sedimentati nella nostra memoria. Dai nativi americani, agli Incas e ai Maya, ad esempio, con rispettivi morfologie, credenze e rituali. “Vuole trasmettere il suo messaggio attraverso le emozioni – prosegue Cameron. Usa idee semplici. Qualcuno dice semplicistiche. Io rispondo: no, viscerali”.

Cameron ha creato un mondo e un linguaggio. Su un altro pianeta. Da un’altra parte. E ci consente di visitarlo. Anzi, di entrarci dentro. Come avatar, appunto. Il termine, ormai in uso nella blogsfera come sinonimo di “personalità digitale”, deriva in effetti dal sanscrito, col significato di incarnazione, o meglio, discesa in terra  della divinità. Un po’ divinità lo siamo, quando ci muoviamo in un ambiente di realtà virtuale. E l’avatar di Cameron si muove e interagisce, con un altro suo sé, in un pianeta extraterrestre. Il pianeta Pandora, terra esotica situata nel sistema stellare di Alpha Centauri.

Cameron (non dimentichiamo che, oltre che regista e specialista in effetti speciali, è pure uomo di scienza, laureato in fisica) non ha lasciato nulla al caso, sia dal puno di vista tecnico che simbolico. Avatar, Pandora, Alpha Centauri: sono tutti lemmi che evocano nella nostra mente sensazioni, emozioni, ricordi. E il suo Avatar è una esperienza di modificazione dello stato di coscienza allo stato puro.

Il cinema concede al nostro cervello di vivere un lasso di tempo sganciato dalla realtà personale, per farsi catturare da quella narrata sullo schermo. Per questo il cinema è anche terapeutico.  Avatar è questo tipo di esperienza, onirica ma eccezionalmente reale, ai massimi livelli. C’è pure la possibilità di proseguire l’esperienza a casa nostra, attraverso una webcam, collegandosi a Pandorama.

Non sappiamo ancora se visitatori alieni giungano fin qui a bordo di misteriose quanto inafferrabili astronavi (per non parlare delle arzigogolate quanto flebili tracce nei campi di grano). Ma la nostra voglia di entrare in contatto con altri mondi e altre genti galattiche, in parte soddisfatta da una produzione fantascientifica sempre più evoluta e sofisticata, è certamente molto reale ed intensa.

Parnassus: quando il cervello crea alla grande


ImaginariumParnassus

Se non lo avete ancora fatto, correrete a vedere “Parnassus” di Terry Gilliam.  Fatelo al cinema, magari non a fine giornata, possibilmente in una sala dallo schermo panoramico. Andate a vederlo riposati, pronti a ricevere immagini, suggestioni, suoni, racconti, simboli eterni emanati da un cervello – quello di Terry Gilliam – che strabocca di creatività, e diventa sempre più bravo, ad usarla come narratore e regista.

Non aspettate di vederlo a casetta vostra, in dvd o dalla rete. Perdereste un’esperienza unica. E’ una ondata di energia creativa che dovete essere pronti ad accogliere nella giusta disposizione psicofisica. Nell’ambiente oscuro di un cinema, magari senza molta gente. Preparatevi alla visione di questo film come ad un rito iniziatico. La creatività è contagiosa. Ne avrete ulteriore consapevolezza vedendo Parnassus.

Se amate la produzione di quel geniaccio visionario che è Terry Gilliam, lo  Hieronymus Bosch del cinema, (e soprattutto se avete amato, continuate ad adorare l’inventiva e l’irriverenza eterna dei Monty Python) questo è il suo capolavoro. Gilliam prosegue con i suoi film il discorso inizato all’interno dei Python, e chi si appassiona alle indagini neuropsicologiche sulla mente e la coscienza non può non incrociarlo.

La narrazione verbale e visiva di Gilliam oggi, e dei Python prima, segue infatti la tecnica che definirono “flusso di coscienza”. E’ spiazzante e ipnotica. Ve ne accorgerete vedendo Parnassus, dove Gilliam (nonostante la scomparsa prematura del suo interprete, il davvero intenso Heath Ledger) riesce a portare a destinazione il progetto di questo film, tra i più apparentemente folli, onirici, terapeutici, entusiasmanti, che la storia del cinema abbia mai prodotto.

E’ stato coraggioso Gilliam e, una volta tanto, pure la produzione, a crederci. Grazie a metafore, allusioni, interpreti in trance, Gilliam riesce a raccontare tutte le contraddizioni non solo della nostra epoca, ma pure, in generale, della coscienza umana, del rapporto uomo-donna, verità-menzogna, interno-esterno, amore-odio, avidità-altruismo, bene-male, realtà-fantasia, morte-immortalità, figli-genitori, e molto altro. Vedetelo.