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Gli alieni sono sulla Terra: cosa fare? Lo spiegano psichiatri, antropologi e pedagogisti


SonoArrivatiGliAlieni_PierangeloGarzia_MINDAcqua su Marte. Esopianeti che potrebbero ospitare la vita. Gli alieni si avvicinano. Per alcuni sono già arrivati. Per la fantascienza ci sono da sempre. Che siano i Superni, custodi e motivatori dell’evoluzione umana ma “lontani dallo spazio che non è per l’uomo” del romanzo di fantascienza di Arthur C. Clark Le guide del tramonto o i piloti di UFO già giunti fino a noi, secondo gli appassionati di ufologia. Comunque sia, la scienza attende. Fa ipotesi. Ma cosa accadrebbe nel momento in cui avessimo un contatto con una intelligenza extraterrestre?

E se gli alieni arrivassero davvero? 

E se intelligenze aliene fossero in grado di arrivare fin quaggiù, sulla Terra? È un argomento che ha appassionato e appassiona molti. Sia in campo scientifico che artistico. Sono innumerevoli i racconti e i romazi di fantascienza che prevedeono il contatto con le più diverse forme e strutture di intelligenza alinea. Se ne sta occupando, ad esempio, il saggista grande esperto di fatascienza, astronautica e futurologia Fabio Feminò sulle pagine della rivista “Urania” con una approfondita analisi, in più puntate, sugli intrecci tra fantascienza e ricerca aliena dal titolo “C’è vita oltre a noi?”. E c’è una cosa curiosa che mi è capitata occupandomi di questo argomento.

«Tutti ricordano cosa stavano facendo quel 22 maggio 2059 quando la storia della Terra cambiò definitivamente. In tutto il pianeta, contemporaneamente, gli alieni semplicemente comparvero. Fino a un secondo prima non c’erano, poi erano lì, dapertutto. Oggi siamo familiarizzati con l’idea di smaterializzazione e rimaterializzazione, e usiamo senza problemi il teletrasporto anche su distanze trans-galattiche, ma allora 160 anni fa, era inconcepibile che qualcosa o qualcuno potesse comparire così, dal nulla».

Questo brano che potrebbe apparire scritto da una mano avvezza alla fantascienza, in realtà è opera di uno stimato docente di scienze pedagogiche presso il dipartimento di medicina dell’Università Milano-Bicocca. Non che gli scrittori di fantascienza non siano “stimati”. Ma perché il caso di questo stimato professore, che di fantascienza senza dubbio è appassionato, è uno di quelli che incroci quando devi scrivere qualcosa di “strano”.

Volevo scrivere di come potremmo reagire sul piano psicologico, sociologico e antropologico, a un reale, ufficiale contatto con gli extraterrestri. Loro, gli alieni, sono giunti sulla Terra. È ufficiale, sono qui. Non è più un “sarà vero, non sarà vero-ci credo, non ci credo”, un UFO apparso velocemente nel cielo e altrettando rapidamente svanito nel nulla. Niente di tutto ciò. Gli alieni, abitanti di altri pianeti nel cosmo sono arrivati a toccare il suolo terrestre. Non si sa come ci siano riusciti, non si sa perché, non si sa cosa vogliano. Ma ora, da qui in poi,  cosa accade?

Lo stimato professore universitario di scienze pedagogiche Raffaele Mantegazza è uno di quelli che contattai per realizzare l’inchiesta in seguito apparsa sulla rivista mensile “Mind. Mente & cervello” di maggio 2018 con il titolo “Sono arrivati gli alieni!”. Mantegazza era uno di quelli che individuai con quella sorta di fiuto che viene in soccorso in chi deve scrivere articoli compositi, testo proprio e interviste ad esperti da individuare.

Chi è l’esperto nel trattare con una intelligenza aliena? 

Già, ma chi poteva essere esperto nel trattare la psico-socio-antropo-pedagogia dell’incontro con gli extraterresti? Tutti e nessuno. E infatti, nella rosa dei contattati (non alieni, docenti e ricercatori terrestri) almeno tre mi diedero la tara. Mantegazza invece esordì al telefono con una contagiosa risata. Era entusiata (in una mail mi scrisse: «devo dire che l’intervista mi ha fatto sognare come da ragazzino!»). Mantegazza era ed è un appassionato di fantascienza in tutte le sue forme. Cinema, romanzi, racconti. Tanto che, dopo l’intervista e l’uscita del mio servizio su “Mind”, Raffaele Mantegazza mi annunciò di avere scritto un volumetto che gli avevo ispirato e in cui mi citava. Il volumetto in questione è uscito da Castelvecchi qualche mese fa con il titolo Educare con gli alieni. Manuale di pedagogia per l’anno 2219. Lascio al lettore di questo volumetto, tra pedagogia e fantascienza, il piacere, il divertimento e la sorpresa di scoprire cosa il professor Mantegazza ha saputo scrivere, partendo dal pretesto dello sbarco alieno sulla Educare con gli alieni_RaffaeleMantegazza_LibroCastelvecchiTerra, sul tema dell’incontro con il “totalmente Altro”. Ed ecco i brani delle interviste sia a Raffaele Mantegazza che agli altri intervistati non pubblicati nella mia inchiesta apparsa sulla rivista “Mind”.  

Raffaele Mantegazza, docente di Scienze umane presso il Dipartimento di medicina e chirurgia dell’Università di Milano-Bicocca

Se stasera in tv e online, e domattina sui giornali, dessero l’annuncio reale, documentato, che un UFO è atterrato e si stanno prendendo contatti con gli occupanti extraterrestri, quale sarebbe, secondo lei, la reazione a livello pubblico?

Penso che molto dipenda dal modo in cui la stampa fornirebbe la notizia. Se fosse sottolineato l’aspetto di pericolo, di “invasione” e simili sicuramente ci sarebbero reazioni di preoccupazione se non di panico, ma se l’atterraggio avvenisse senza violenza e la notizia fosse data evidenziando gli aspetti positivi penso prevarrebbe la curiosità e la volontà di capire e di comunicare. La paura nei confronti di ciò che non conosciamo è sempre mediata e smussata dalla curiosità, e forse è per questo che la nostra specie non si è estinta: cercare il buono nella novità senza essere imprudenti è la chiave della nostra evoluzione.

Spesso si dice che una civiltà extraterrestre, più avanti rispetto a noi di migliaia di anni, che prendesse contatto diretto con noi, finirebbe con l’interferire in modo negativo con la nostra naturale evoluzione. Un po’ come accaduto con le popolazioni indigene terrestri venute a contatto con popolazioni più tecnologicamente avanzate. Sarebbe così secondo lei?

Mi sembra una posizione estremamente pessimista. La scelta dell’occidente di sterminare e di sfruttare le popolazioni indigene non era scontata così come non lo sarebbe il conflitto violento con una civiltà extraterrestre. Nella nostra naturale evoluzione è compreso l’essere esposti, come specie e come pianeta, a ogni possibile incontro con l’esterno; siamo alla periferia di una galassia all’interno di un cosmo sconfinato, la possibilità di essere visitati da intelligenze extraterrestri dovrebbe appartenerci, come possibilità, come sogno o come speranza. Grandi filosofi come Kant l’avevano ipotizzata e anzi auspicata. L’immagine dell’alieno cattivo e conquistatore è un’immagine culturale, figlia della Guerra fredda e della paura dell’altro: non è assolutamente necessario che le cose vadano così.

Come pensa potrebbe cambiare la vita di noi terrestri dal “contatto” in poi? 

Sarebbe un nuovo inizio, quello di cui forse l’umanità ha bisogno. Come dice Guy Consolmagno,  direttore della Specola Vaticana, le prime a doversi ripensare sarebbero le religioni rivelate: questo straordinario religioso già oggi afferma che Dio si è incarnato in un essere umano perché doveva parlare agli abitanti del nostro pianeta ma niente fa escludere che su altri pianeti l’incarnazione sia avvenuta nel corpo di un essere alieno, dalla forma del tutto differente dalla nostra. La forma con la quale  gli alieni si presenterebbero potrebbe poi essere del tutto sconvolgente: esseri di pura energia, esseri di luce, chissà quale forma può avere assunto: la vita la stessa, la nostra idea di vita organica potrebbe essere rivista e radicalmente ripensata. Ma la sola vittima di questo incontro sarebbe, finalmente, la vera dannazione dell’umanità, ovvero l’antropocentrismo. L’idea arrogante e presuntuosa che questa scimmia poco pelosa costituisca il centro dell’evoluzione e dell’universo. Fosse anche solo per far tramontare questa idiozia, speriamo che gli alieni arrivino presto.

Paolo Perticari era docente di pedagogia generale, filosofia della formazione, teoria e pratica dei processi all’Università di Bergamo. Purtroppo è prematuramente scomparso lo scorso novembre. Dedichiamo questa breve intervista, in cui riporto anche quanto mi disse su ciò di cui si occupava, al suo ricordo, alla sua cortesia e alla sua grande disponibilità.  

Prima di rispondere alle sue domande sull’atterraggio UFO sulla Terra mi lasci dire di che cosa mi sto occupando in questi anni. Due cose essenzialmente: di scuola, sono fautore di una scuola più aperta all’inatteso, all’imprevisto, agli errori…Più recentemente mi sto occupando di abusi infantili e di violenza in famiglia e/o nella rete parentale dove vengono coinvolti bambini e bambine anche in età molto precoce,fin da piccolissimi. In particolar modo di questa “pedagogia nera”, parola ancora troppo poco conosciuta dal grande pubblico, ma preziosa sia per indicare una storia di violenza psicologica o fisica che procede da trecento anni nell’Europa civile e nel mondo contro bambine e bambini in nome della loro educazione, sia per indicare qualunque abuso di potere degli adulti su bambine e bambini che può provocare trauma e anche danno neurologico. Su questo c’è ancora un grave e colpevole ritardo delle istituzioni sopratutto a livello di informazione e prevenzione sociale e sanitaria.

Ciò detto veniamo allo sbarco degli UFO sulla terra. Io ero e sono molto scettico rispetto a ciò, ma se così davvero fosse si aprirebbe una nuova fase storica del tutto imprevedibile nei suoi presupposti e nei suoi esiti con reazioni pubbliche e private di cui non sappiamo ne’ possiamo dire nulla al momento.

Se questa civiltà fosse così avanti rispetto a noi da interferire in modo negativo con la nostra storia un po’ come è accaduto nel l’incontro tra popolazioni indigene e civiltà occidentale sul pianeta Terra, allora sarebbe ancora peggio, e la sopravvivenza umana a un bivio.

Da pedagogista ritengo che i problemi mentali emersi nella storia moderna sono già sufficientemente gravi da non dover imputare agli UFO alcunché.

Se si dovesse dare la notizia immediatamente, senza preparazioni, né manipolazioni? Certo che sì. Ma vede, anche questo in realtà è poco probabile. Noi terrestri abbiamo costruito un mondo in cui il vero è un momento del falso e stiamo educando in questo modo anche i nostri piccoli, per cui la strumentalizzazione e la falsità fanno parte dell’aria che respiriamo. Per questo motivo auguro agli UFO di riparare al più presto l’avaria che li ha fatti atterrare e ripartire al più presto verso territori meno falsi del nostro.

Francesco Spagna, docente di antropologia culturale all’Università di Padova

Il film Contact di Zemeckis (1997) è un esempio di come il genere cosiddetto di fantascienza, letterario o cinematografico, si rivela come un ambito straordinariamente fecondo di elaborazione morale, educativa e anche teologica. Così come Incontri ravvicinati del terzo tipo, il film di Spielberg del 1977, anche Contact predispone l’incontro con un alieno benevolo: ma che cos’è l’alieno benevolo se non il divino? Nella fantascienza, nel genere più futuribile dell’immaginario modernista, si cela dunque una traccia di resistenza alla secolarizzazione?

L’aspetto educativo sta nell’emersione degli impliciti. Il rapporto fiducia/sfiducia del nostro calcolo razionale provvede affinché la viaggiatrice interstellare di Contact – la scienziata Ellie Harroway, impersonata da Jodie Foster – collocata nella navicella costruita seguendo istruzioni aliene ricevute in codice, sia messa in sicurezza dotandola di una poltroncina alla quale restare legata (trasgredendo così le istruzioni originarie impartite dagli alieni). Una poltroncina che, durante il viaggio spazio-temporale, si rivelerà inutile e pericolosa, e rischierà di ucciderla. Da questo impaccio tecnologico la protagonista si libererà, per ritrovare la quiete dell’incontro com’era stata predisposta dalle guide aliene.

Tutto il film è dunque imperniato sul tema della fede: sulla questione, ad esempio, se il viaggiatore o la viaggiatrice incaricata della missione di incontrare gli alieni debba rappresentare l’umanità con le sue fedi religiose (la scelta viene inizialmente fatta secondo questo criterio, ma poi, dopo un primo esperimento fallimentare, è la scienziata protagonista a entrare nella navicella). Tuttavia, nella nostra fede secolarizzata, la sfiducia è un implicito, un implicito che rischia di distruggere l’incontro (terminologicamente, è il contrario della fede, dell’affidarsi al divino/alieno).

La morale di Zemeckis è dunque in linea con quanto saggi e filosofi continuano a suggerirci, da Krishnamurti a Byung-Chul Han: il bisogno di sicurezza rischia di ritorcersi contro noi stessi. Il controllo razionale rischia di chiuderci sempre entro un medesimo perimetro, impedendo il viaggio conoscitivo.

A più riprese, nel film, si pone la questione della prova dell’esistenza di Dio. Jodie Foster, nelle ultime battute del finale, sembra echeggiare il Quo maius cogitari nequit di Sant’Anselmo d’Aosta, il filosofo medievale della prova ontologica: la macchina spazio-temporale del cinema di Zemeckis non si inceppa e attraversa i secoli.

Valerio Rosso, psichiatra e psicoterapeuta, molto attivo in rete attraverso il suo blog “Valerio Rosso”, su YouTube  e attraverso il podcast “Lo Psiconauta”.

Se stasera in tv e online, e domattina sui giornali, dessero l’annuncio reale, documentato, che un Ufo è atterrato e si stanno prendendo contatti con gli occupanti extraterrestri, quale sarebbe, secondo lei, la reazione a livello pubblico?

In realtà l’umanità non é nuova a shock culturali di questo tipo. La forma e le dimensioni dell’universo e del nostro pianeta hanno subito, nel corso della storia, revisioni anche notevoli grazie, ad esempio, a Copernico e agli altri astronomi che sono venuti dopo di lui, che ci hanno progressivamente tolto dal “centro dell’universo” per farci finire in una piccola periferia di una galassia persa tra moltissime altre.

Poi c’è stato Darwin che ci ha fatto capire che non siamo una razza privilegiata creata ad un certo punto da un’entità superiore ma che, in realtà, siamo un prodotto non ancora definitivo di un evoluzione e che poco prima di noi ci sono altre specie animali come le scimmie. Infine, all’inizio del ‘900, è arrivato Sigmund Freud che ci ha detto, in parole povere, che noi non siamo “padroni in casa nostra” ovvero che il nostro tanto caro libero arbitrio è sottomesso a forti pulsioni inconsce che pilotano la nostra vita e le nostre scelte. Tutti questi che vi segnalo sono eventi culturali di grandissima forza e che hanno messo a dura prova il narcisismo dell’Umanità. L’ultimo duro colpo potrebbe in effetti darlo la prova che non siamo l’unica razza che ha sviluppato coscienza ed intelligenza in tutto l’universo. Io credo che a essere messi più a dura prova potrebbero essere le persone che hanno fondato la propria cultura e la propria etica proprio sul primato dell’uomo o chi vive muovendosi su posizioni un pochino paranoicali legate a generiche angosce d’invasione. Non servono gli alieni per far innalzare in alcuni imponenti barriere di pensiero, come stiamo osservando in questi ultimi anni.

Spesso si dice che una civiltà extraterrestre, più avanti rispetto a noi di migliaia di anni, che prendesse contatto diretto con noi, finirebbe con l’interferire in modo negativo con la nostra naturale evoluzione. Un po’ come accaduto con le popolazioni indigene terrestri venute a contatto con popolazioni più tecnologicamente avanzate. Sarebbe così secondo lei?

Io credo occorra partire da un dato di fatto: una civiltà che ha sviluppato le tecnologie per raggiungere altri mondi, deve per forza aver superato con successo la sua adolescenza tecnologica. Chi riesce a non autodistruggersi con le proprie mani e a dominare le istanze onnipotenti che sono profondamente connesse con la scienza, molto probabilmente ha parallelamente sviluppato delle dimensioni etiche tali da concepire il valore assoluto della vita e l’importanza del mantenimento e del rispetto delle diversità. L’incontro con una razza aliena potrebbe farci confrontare di colpo con la domanda: siamo noi una civiltà adulta e risolta?

Da psichiatra, ritiene che si dovrebbe dare immediatamente una simile notizia o invece preparare in qualche modo il pubblico? Se sì, in che modo?

Stiamo parlando di un evento che non potrà mai essere avvicinato con modalità graduali come avviene per altri processi evolutivi, l’incontro con una civiltà aliena avrà sempre le caratteristiche di un Quantum Leap, di un incredibile salto in avanti, da qualsiasi prospettiva lo si voglia osservare. Sarà sempre un evento epocale e, in una certa misura, culturalmente traumatico. D’altra parte mi viene da pensare che la mente di coloro che non saranno pronti, saprà come difendersi. Lo abbiamo già visto per tutti quegli eventi a cui accennavamo all’inizio: ci sono ancora oggi movimenti negazionisti che rifiutano le teorie darwiniane, lo sbarco sulla luna, il fatto che la terra non sia sferica  ed altri cambi di prospettive. Per non parlare, a titolo di ulteriore esempio, dell’avversione che per parte del ‘900 c’é stata nei confronti delle teorie dell’inconscio. Tutte queste persone non hanno mai digerito Copernico, Freud, Darwin, figuriamoci se non accadrà qualche cosa di simile per l’incontro con una civiltà aliena…

Come pensa potrebbe cambiare la vita di noi terrestri dal “contatto ufficiale e diretto” in poi?

Forse dovremo definitivamente arrenderci al fatto che la razza umana non è né superiore e né speciale. Un ulteriore ridimensionamento delle nostre istanze narcisistiche e del nostro atteggiamento antropocentrico non potrà che farci bene. Finalmente potremmo entrare in contatto con un concetto più universale di rispetto e di accoglienza per ogni altra forma di vita, e quindi di visione del Mondo, che appartenga o meno al piccolo orizzonte nel quale ci troviamo a vivere.

Pierangelo Garzia, “Sono arrivati gli alieni!”, Mind. Mente & cervello, maggio 2018 

 

Palle di Natale: come nasce la fake news dello spirito natalizio nel cervello e altre storie interessanti sul perché ci piace oppure detestiamo il Natale


CervelloNatalizio_ImmagineNon c’è verso di fermarla. È una palla o, se preferite, una  fake news dichiarata dagli stessi autori. E pure dalla rivista scientifica che tre anni fa l’ha pubblicata. Eppure anche quest’anno non sono mancati articoli sul “Natale cerebrale” con titoloni tipo il seguente:  “Perché ami il Natale? Nel tuo cervello esiste il “cassetto del Natale” che te lo fa amare, lo dice la scienza. Lo spirito del Natale non è solo una sensazione: secondo uno studio è proprio dentro la tua testa e si attiva nel periodo natalizio”.

Notare: lo dice la scienza. Peccato, anzi per fortuna, che pure la scienza, anzi gli scienziati, ogni tanto hanno voglia di scherzare. Hanno voglia di fare qualche scherzo per vedere l’effetto che fa. Specie durante il periodo natalizio. Se dovessi tenere una conferenza o una lezione sulle fake news, ebbene questa del “cervello natalizio” avrebbe un posto d’onore. Cerchiamo di capire assieme perché. Parte da una ricerca formalmente corretta sotto il profilo scientifico: un campione di persone viene sottoposto a neuroimaging, cioè la visualizzazione radiologica del cervello in attività, mentre vengono loro mostrate delle immagine riferite al Natale. Cosa accade? Che in una parte di queste persone si attivano delle aree cerebrali, che burlescamente vengono associate allo “spirito natalizio”.

Com’è nata la fake news “scientifica” dei “neuroni del Natale”?

Burlescamente perché la rivista medica internazionale di alto livello che ha pubblicato la ricerca, il British Medical Journal (BMJ), nel numero che precede le festività natalizie è solita pubblicare articoli scritti da ricercatori realmente esistenti, attraverso procedure sperimentali validate, ma dal contenuto e soprattutto dalle conclusioni farsesche. Ne risultano comunque comunicati stampa che alcuni giornalisti, e non pochi in questo caso, anche a distanza di tre anni, prendono per buona la notizia parascientifica. Come mai?

Ci sono almeno tre elementi in questo caso che hanno fatto funzionare la trappola (nonostante la dichiarata ed evidente burla): l’autorevolezza di base della rivista medica, il fatto che i firmatari dell’articolo siano in effetti neuroradiologi e neuroscienziati titolati dell’Università di Copenhagen, le immagini di attivazione delle aree cerebrali. Queste ultime, in particolare, esercitano sempre un grande fascino a livello mediatico. Tanto da fare prendere per buone molte asserzioni francamente campate per aria. Ma l’aspetto preoccupante è che fino ad oggi, almeno nel nostro paese, nessuno si sia mai preoccupato prima di scrivere dello “spirito natalizio nel cervello” di assolvere alla prima, suprema regola della scuola di giornalismo: verificare la fonte.

La burla natalizia del neuroscienziato Anders Hougaard

Nessuno né che si sia letto il lavoro originale, accontentandosi invece della “notizia” riciclata da più parti ogni anno sotto Natale e costantemente presente in rete, né tantomeno che abbia fatto lo sforzo di sentire il primo autore del lavoro-burla sullo “spirito del Natale nel cervello”: quel tal  Anders Hougaard che ogni anno sotto Natale seguita a farsi sane sghignazzate per una burla non solo andata a buon segno, ma addirittura protrattasi dal 2015 ad oggi.

Sul numero della rivista Mind. Mente & Cervello di questo mese abbiamo pensato bene di andare alla fonte della burla natalizia intervistando il neuroscienziato danese Anders Hougaard e, già che c’eravamo, pure due antropologi e uno psicologo esperto di neuromarketing per capire un po’ come mai il Natale susciti sempre tante attese, metta in moto tante emozioni sia positive che negative e, alla fin fine, si sia finto col diventare la più grande kermesse commerciale dell’anno. Qui vi proponiamo parti delle interviste che non compaiono sul numero di Mind di dicembre 2018.

Intervista a Anders Hougaard lo “scopritore” dello “spirito natalizio nel cervello”

Anders Hougaard, medico, ricercatore in neuroscienze, University of Copenhagen, Danish Headache Center, Glostrup Hospital, Faculty of Health and Medical Sciences

 Il suo lavoro sullo “spirito natalizio” nel cervello è spesso citato come “formalmente corretto” ma in linea con lo “spirito ironico” del numero di dicembre del BMJ: è così? È solo uno “scherzo scientifico”? Come si spiega che venga continuamente citato come “veritiero”?

Anche se questo studio natalizio è inteso come uno scherzo, la sua metodologia è molto simile alla maggior parte degli studi di neuroimaging funzionale e altrettanto solida. Perché le persone, sia i neuroscienziati che i profani, non sono più critici nei confronti di studi come questo? È importante capire che le persone hanno interesse, consapevolmente o inconsciamente, a sovrainterpretare tali studi. Gli scienziati vogliono che i loro lavori vengano pubblicati. Gli editori vogliono che le loro pubblicazioni siano lette e citate dagli scienziati. I media vogliono trovare storie interessanti che vengono lette e condivise dal pubblico. Le immagini piacevoli e l’idea irresistibile che queste rappresentino la funzione vera e specifica del cervello rendono tutto più facile. Il neuroimaging funzionale è una tecnologia molto utile per lo studio del cervello umano vivente. Sfortunatamente gli studi a volte non sono fatti con sufficiente rigore e sono inclini a interpretazioni errate. Questo è il punto che stavamo cercando di fare comprende in questo lavoro, in modo umoristico.

Lo studio utilizzava una tecnologia comune chiamata BOLD-fMRI. Questa non è una misura diretta dell’attività delle cellule nervose, ma piuttosto una misura del livello di ossigeno nel sangue all’interno del cervello. Ciò è influenzato da molte cose, non solo dalla risposta del cervello allo stimolo che viene studiato, ma comprende anche la frequenza cardiaca, la frequenza respiratoria e la pressione sanguigna dei soggetti e tutto ciò che potrebbe influenzare tali fattori, ad esempio l’ansia durante la procedura di scansione.  Come si può intuire, c’è già molta incertezza a questo punto. Non sappiamo esattamente cosa stiamo registrando. Riduciamo parti relativamente grandi del cervello in piccoli pezzi e ricaviamo la media delle registrazioni su un lungo periodo (le immagini alla fine mostrano una media su molti minuti). Ricaviamo solo uno sguardo molto approssimativo su cosa stia succedendo. Le immagini rappresentano spesso l’ “attività” media in gruppi di persone, non in individui. C’è anche il rischio che ciò che vediamo alla fine non sia reale, ma semplicemente errori di calcolo.

Intervista a Franco La Cecla, antropologo: il significato del Natale 

Sappiamo che, come lei lo definisce, il “nostro natale”, è la sintesi, il sincretismo di riti, simboli, miti ancestrali, associati a quelli della “nascita di Gesù Bambino”. Ma a quali esigenze profonde risponde la lunga celebrazione, nella varie modalità, del Natale?

Il nostro Natale si allaccia ad una ritualità che è molto più antica del cristianesimo. Un antropologo italiano, Augusto Cacopardo, è stato per parecchio tempo tra una popolazione nelle montagne del Pakistan, i Kalash che hanno un rito per l’anno nuovo dove si usa il pungitopo, il vischio e dove si celebra la nascita del nuovo anno con modalità che somigliano molto al nostro Natale. È una popolazione indoeuropea che probabilmente è arrivata qui con Alessandro Magno e ha mantenuto, in una zona tutta islamica, una religione animista legata molto al rinnovarsi delle stagioni. Coltiva le viti, unica popolazione del Pakistan a fare questo e ha dei canti collettivi per celebrare la nascita dell’anno. Il Natale è proprio questo, lo stupirsi del rinnovamento della natura, del ritorno delle stagioni, l’accorgersi che c’è una rinascita presente nella natura stessa. Il Bambin Gesù è il simbolo della possibilità ciclica di ricominciare, il ritorno all’infanzia del mondo.

In un suo scritto cita anche, ironicamente, l’assassinio di Babbo Natale, facendo in seguito intendere che rappresenti una sorta di “divinità moderna”: possiamo davvero farne a meno?

Claude Lévi-Strauss parla dell’uccisione di Babbo Natale perché effettivamente quando la figura di Pere Noel appare nella Francia Cattolica del diciannovesimo secolo c’è una reazione di scandalo, di chi pensa che sua una figura pagana e quindi una forma di anti-cristo da eliminare. Babbo Natale è in qualche modo, nel suo provenire dal Nord Europa, il contrappunto all’infanzia del mondo, è il grande vecchio che è preposto a una funzione fondamentale, quella del “dono”. Il dono è una categoria fondamentale nell’antropologia. Perché esso ricorda che c’è una reciprocità che tiene legate le persone e perché presuppone da una parte l’idea della gratuità dei doni della natura e dall’altra il fatto che ci sono cose che non è possibile né bene restituire. La gratuità ricorda un “eccesso” verso di noi a cui non è possibile rispondere fino in fondo.

Intervista a Pietro Meloni, antropologo del consumo, Università di Siena: il consumismo del Natale

Perché il Natale è tanto centrato sul regalo, sul dono? Da cosa nasce questo comportamento collettivo?

Il dono è una categoria che ha avuto particolare fortuna in antropologia e nelle scienze sociali. Non mi è possibile qui richiamarla se non a grandi linee, dicendo che il fondamento del dono è quello di costruire relazioni sociali attraverso tre principi di obbligatorietà: dare, ricevere, ricambiare. Il Natale odierno rappresenta un evento in cui il dono, quindi la volontà di costruire legami sociali duraturi tra persone, ritorna in primo piano. I genitori sento l’obbligo di donare ai propri figli ma, sapendo che il dono si fonda sull’obbligo del ricambiare, utilizzano Babbo Natale come intermediario, uno sconosciuto che libera i bambini dall’obbligo di sentirsi in debito con i propri genitori. Babbo Natale ha anche un’altra funzione, se libera i bimbi dall’obbligo della reciprocità al tempo stesso insegna qualcosa sulla gratuità del dare, educandoli all’importanza della trasmissione dei beni.

Dal punto di vista dell’antropologo dei consumi, l’ansia e la smania degli acquisti sotto Natale è unicamente una risposta al marketing? Ad esempio: gli ipermercati e i negozi iniziano sempre più in anticipo a “evocare il Natale”, a volte già dai primi di novembre. 

Se rispondessi che l’ansia degli acquisti di Natale è una risposta al marketing, direi qualcosa di ovvio ma anche fortemente impreciso. L’antropologo Arjun Appadurai ha brillantemente ribaltato l’idea che, nei riti, il consumo sia la riflessione del tempo che marca la ritualità.  A suo avviso, invece, è il consumo che regola la periodicità, creando il tempo del rito. Cosa significa? In una società sempre più individualista il Natale rappresenta un momento in cui le relazioni sociali all’interno della famiglia possono essere ricostruite e rinnovate, principalmente attraverso lo scambio dei doni. La scelta dei doni rivela l’attenzione che abbiamo verso le persone amate (genitori, partner, figli, amici) e per questo motivo la pianificazione allunga i tempi del consumo.

Cosa dobbiamo regalare a chi amiamo? Cosa desidera? Chiaramente pochi prenotano un regalo di Natale con un anno di anticipo perché pochi hanno idea di cosa vorrebbero. Il motivo è che i nostri desideri sono dettati dalla moda (pensiamo agli oggetti tecnologici, o all’abbigliamento) e finché la moda non diviene chiara, la maggior parte delle persone non sa ancora cosa vuole regalare. In autunno la moda inizia a lanciare i primi segnali, così che vi sia tutto il tempo per decidere senza correre il rischio di rimanere senza l’oggetto desiderato, cosa che potrebbe facilmente accadere se aspettassimo gli ultimi giorni. I tempi dilatati della ritualità collettiva sono in questo caso strettamente collegati alla moda, al consumo e al mercato. Essi permettono la formazione del desiderio, influenzato da un immaginario consumistico. Il tempo si dilata anche perché il dono prevede una nostra partecipazione emotiva che deve essere ben visibile nel momento in cui doniamo qualcosa a qualcuno.

Lei vive e insegna in una città come Siena in cui le tradizioni hanno un loro peso: che differenze rileva tra il Natale delle grandi città e quello dei piccoli centri?

Siena è una piccola città, le cui tradizioni hanno un peso notevole, dove la sfera del religioso e quella del folklore si intrecciano spesso. Il 13 dicembre, quindi in pieno periodo natalizio, si festeggia Santa Lucia; i senesi vanno nella chiesa a lei dedicata e si fanno benedire gli occhi e poi comprano nelle bancarelle allestite nel rione, le campanine di Contrada, ossia delle piccole campane di ceramica, terracotta o altri materiali, che rappresentano l’animale totemico e portano i colori di una Contrada di Siena.

Le si compra per i bambini, come dono e come modo per farli familiarizzare con i simboli delle Contrade e del Palio di Siena. Ma questo è solo un esempio. Per altri versi il Natale è una forza pervasiva che riproduce un immaginario altamente condiviso a livello nazionale, sia che si tratti di grandi città sia di piccoli centri. Il bisogno di ritrovare parenti e amici, ristabilendo relazioni sociali che spesso si allentano durante l’anno, è comune a chi vive in città come a chi vive in paese. La scelta del menu si riproduce in modo del tutto simile dalla metropoli al piccolo paese, secondo le regole tradizionali regionali.

Certo, la città offre un accesso al mondo delle merci – che sono poi il centro del Natale – solo immaginabile nei piccoli paesi. Vi è quindi una differenza di scala non di desideri.

Siena è poi una città ricca, o almeno lo è stata fino in tempi recenti, e questo si riflette sull’immagine pubblica che offre di sé. L’albero di Natale in piazza Salimbeni, dove ha sede il Monte dei Paschi, è sempre sfarzoso e ben curato – non come lo “spelacchio” di alcuni anni fa che ha fatto tanto arrabbiare i romani. Diciamo che il Natale è un momento in cui le amministrazioni comunali entrano in competizione tra di loro per mostrare maggior sfarzo e opulenza, che si traduce nella cura per il proprio cittadino. C’è comunque qualcosa che lega le grandi città a quelle piccole nel periodo natalizio, ed è la necessità di rallentare il tempo, di sospenderlo in qualcosa di indefinito, che sfugge alla regolarità dei ritmi quotidiani.

Una domanda provocatoria: “consumiamo il Natale” o siamo più “consumati dal Natale”? 

Daniel Miller, antropologo londinese, sostiene che le cose che non possediamo alla fine ci possiedono. Possiamo dire che il Natale porta con sé aspetti positivi e negativi, sapersi muovere tra questi ci permette di consumarlo senza esserne consumati.

La tradizione natalizia, come ogni tradizione, ha aspetti rigidi, che disciplinano i nostri comportamenti. Pensiamo al menu natalizio che raramente mette d’accordo tutti i commensali. Per alcune persone, specie nel centro-nord, il Natale è sinonimo di cappelletti in brodo e lesso. Nel centro-sud è il pesce a caratterizzare il menu della vigilia. Queste regole sono rigide, irriflessive, le persone non intendono trasgredirle al punto da discutere magari con il figlio o l’amico vegetariano che avrebbe desiderio di mangiare qualcosa di diverso.

Portiamo un esempio politico. Negli ultimi anni il Natale è diventato anche un modo per rivendicare, attraverso la cristianità, identità politiche che si nascondono dietro una tradizione religiosa. I dibattiti sul presepe, sull’obbligo di farlo e sui presunti divieti paventati da alcuni politici sono un esempio di come le tradizioni possano essere usate per assumere posizioni rigide, che ci consumano più che permetterci di consumare.

Prendiamo infine un ultimo esempio più consumistico, quello del desiderio del dono. Dicevo all’inizio che la teoria classica del dono prevede tre principi di obbligatorietà: dare, ricevere, ricambiare. Se ci pensiamo è così che funziona il Natale, nel momento in cui la famiglia si ritrova insieme per scambiarsi i doni. Ecco, l’obbligo del ricevere significa che non possiamo rifiutare il dono che ci viene offerto, perché sarebbe altamente offensivo, in quanto significherebbe rifiutare un rapporto di alleanza. Allora, quando riceviamo qualcosa che non corrisponde alle nostre aspettative dovremmo recuperare il significato più profondo del dono, che non riguarda l’oggetto che desideravamo ma il fatto che attraverso i doni le persone si scambiano promesse di amore, di amicizia, di fiducia – cose che, ad esempio, hanno molto più valore di qualsiasi smartphone.

Intervista a Vincenzo Russo, professore associato di Psicologia dei consumi e neuromarketing. Coordinatore del Centro di Ricerca di Neuromarketing “Behavior and Brain LabIULM”: il neuromarketing del Natale 

In ambito psico-antropologico si è soliti dire che il Natale come lo conosciamo oggi è una tradizione “totalmente inventata” nel dopoguerra, una “festa sincretica” frutto di una abile operazione di marketing, soprattutto di matrice statunitense: è così dal pdv dello psicologo dei consumi? Se sì, ce ne rendiamo conto, oppure tutto ciò opera ormai su di noi in modo inconsapevole e “automatico”? 

Dire che il Natale sia una tradizione totalmente inventata, seppur con le modifiche apportate dalla società dei consumi, mi sembra un po’ eccessivo. Il Natale è sempre stata una importante ricorrenza religiosa con forti connotati simbolici, affettivi e comunitari. Sono proprio questi aspetti che hanno permesso al mondo del marketing di agire efficaci strategie per rinforzare certi comportamenti di consumo e di promuoverne di nuovi. Valorizzando la dimensione emozionale che caratterizza il Natale in cui si è più propensi alla positività, più inclini verso gli altri e più predisposti alla convivialità, le strategie di marketing hanno avuto una maggiore facilità di azione. Si tratta di un’occasione per sfruttare al meglio uno dei tanti momenti che scandiscono l’agenda annuale in cui è possibile “influenzare” i comportamenti dei consumatori. Basti pensare ad altre importanti ricorrenze con forti connotati emozionali come San Valentino, la Pasqua, l’ormai consolidata festa di Halloween (culturalmente e storicamente lontana dalla tradizione italiana), per rendersi conto di quanto numerosi siano i momenti dell’anno in cui la dimensione emozionale, legata alla tradizione, orienta profondamente i comportamenti di consumo. Non mi stupisce se il marketing colga queste occasioni per rendere usuali azioni e comportamenti di consumo.

Il Natale è anche definito come “rito universale”: utilizzando gli strumenti del neuromarketing quali sono gli stimoli, le suggestioni, le emozioni che colpiscono i nostri sensi e il nostro cervello durante il periodo natalizio?

Le strategie di fondo sono sempre le stesse, ma, in questo specifico periodo dell’anno, implementate sia in termini quantitativi che qualitativi. Il numero e la qualità degli stimoli sonori, visivi e olfattivi si potenziano in maniera vertiginosa. Siamo circondati da luci sfavillanti che rendono “gradevoli” ambienti e spazi urbani. Si tratta di stimoli con una fortissima connotazione spazio-temporale in grado di essere identificabili con i valori del Natale, o almeno così ci sembra grazie alle persistenti azioni di marketing. Si pensi per esempio alla prevalenza del rosso tipico di Babbo Natale (immagine realmente costruita dal marketing) o del bianco. Sono strategie in cui la dimensione emozionale gioca un ruolo determinante. D’altra parte dagli anni Settanta in poi gli studi offerti dall’economia comportale e dalle neuroscienze hanno dimostrato che gli esseri umani, lungi dall’essere esclusivamente razionali, si lasciano guidare dalle dinamiche affettive nei processi decisionali, razionalizzando e giustificando con la ragione ciò che è stato in realtà scelto e preferito con l’emozione. Insomma non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano.

In questo contesto l’uso di stimoli che in maniera inconsapevole riescano ad attivare emotivamente è alla base delle principali strategie. Basti pensare alla forza emozionale della musica natalizia. Diversi studi sia classici che neuroscientifici hanno dimostrato come il ritmo, il timbro o il volume della musica di sottofondo siano in grado, non solo di emozionare e quindi attivare comportamenti conseguenti inconsapevoli, ma anche di fare percepire l’ambiente circostante e gli stimoli in maniera del tutto diversa. In un recente studio, si è dimostrato come la percezione della dolcezza di un prodotto potesse essere fortemente influenzata dalla tipologia di musica di sottofondo durante l’assaggio.  La musica ad alta frequenza fa percepire una mousse al cioccolato o un vino più dolce. In genere questo tipo di musica è un po’ più “dolce” rispetto quella a bassa frequenza. Questa “dolcezza sonora” contribuisce prepara il nostro cervello a percepire diversamente gli stimoli per un meccanismo di coerenza, senza che i consumatori ne siano consapevoli

Durante il Natale sembrano potentemente all’opera fenomeni ampiamente studiati dal neuromarketing come il “priming” e il “framing”: è così? Ce ne vuole spiegare le modalità? 

In un momento caratterizzato da valenze simboliche, sociali, affettive e di comunità, è più facile usare le soluzioni offerte dalle ricerche neuroscientifiche o dall’economia comportamentale. Il priming, ovvero quel processo di processo di associazione in grado di rendere più immediate e facili certe associazioni di idee o schemi comportamentali, è molto usato durante il Natale. La presenza di luci, colori e musiche capaci di promuovere una visione positiva della vita e di migliorare l’umore dei consumatori ha certamente un effetto sui comportamenti di consumo. Persone felici tendono ad essere più predisposte all’acquisto natalizio. L’ottimismo smuove i mercati, si dice… A volte l’acquisto stesso viene percepito come un perfetto palliativo per la tristezza o per un momento di sconforto.

Sappiamo che il consumo di cibo o la giustificazione (natalizia) per l’acquisto di un regalo hanno la capacità di attivare il nostro sistema dopaminergico (ovvero quello che determina lo stato di benessere) rendendo più felice la persona. Da qui i meccanismi che possono sfocare nel consumo compulsivo. Durante il Natale, l’attivazione di emozioni positive per associazione dipende dalla propensione della mente a immaginare gli eventi correlati tra di loro in maniera sequenziale. Questo processo di associazione non è l’esito di valutazione cosciente, ma una sorta di preparazione all’azione coerente con l’evento precedente.

Si comprende bene come l’uso di stimoli di innesco (definito prime) come il colore rosso (che tra l’altro facilita anche l’attivazione fisiologica) possa attivare certe azioni o idee. Lo stesso vale per il framing ovvero l’efficacia della strategia del “modo di presentare” le offerte. Questo meccanismo condiziona la valutazione degli eventi secondo le informazioni con cui verrebbero presentati, che vi fanno appunto da “cornice”. Presi dal turbinio emozionale del Natale, la funzionalità del framing cresce significativamente. In questo caso non è difficile credere che, per la cena di Natale, sia meglio acquistare una carne magra al 75%, piuttosto che una carne grassa al 25%.

Evidence of a Christmas spirit network in the brain: functional MRI study.Hougaard A, Lindberg U, Arngrim N, Larsson HB, Olesen J, Amin FM, Ashina M, Haddock BT.BMJ. 2015 Dec 16;351:h6266. doi: 10.1136/bmj.h6266.

Pierangelo Garzia, Il cervello natalizio, MIND, dicembre 2018 

 

 

 

 

 

 

 

 

Depressione e infiammazione: il cervello cambia?


Jeffrey MeyerLa depressione ha a che fare con la chimica del cervello? Domanda retorica: non c’è dubbio. Altrimenti i farmaci, ma pure le psicoterapie, che modificano le la biochimica cerebrale non avrebbero alcun senso. Se questo è vero, la domanda immediatamente successiva è: una depressione maggiore non curata, nel corso degli anni, modifica la biochimica cerebrale? Secondo una nuova ricerca pubblicata da “The Lancet Psychiatry” che indaga le funzione della microglia, la risposta pare essere affermativa. Dopo anni il cervello dei depressi non curati si modifica. Già, potrebbe commentare qualcuno. Ma pure il cervello di un soggetto non sofferente di depressione dopo dieci anni si modifica. Allora qual è il discrimine della ricerca?

Microglia e cervello infiammato 

Il discrimine è l’attivazione della microglia. La microglia è stata definita la “difesa” del cervello. In sostanza, le cellule microgliali rappresentano il sistema di difesa immunitaria del cervello. Le cellule microgliali si attivano ogni volta che c’è qualche tipo di sofferenza nervosa. Anche perché le cellule microgliali non si trovano soltanto nel cervello, ma sono pure distribuite nel midollo spinale. E le cellule microgliali sono pure “dinamiche”: si muovono alla ricerca di cellule nervose danneggiate da proteggere e riparare. Sono anche state definite cellule “spazzine” del sistema nervoso. Le loro funzioni, un tempo ignorate, sono sempre più studiate. Anche grazie alle moderne tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale.

E proprio grazie a una tecnica di imaging cerebrale, la PET (tomografia a emissione di positroni) un nuovo studio che ha preso in esame per anni un gruppo di soggetti sofferenti di depressione clinica, mostra che la depressione non trattata si associa a una costante attivazione della microglia. Attivazione microgliale che è ormai consuetudine definire come marker, segno distintivo, della neuroinfiammazione. E siccome la neuroinfiammazione, a sua volta, si associa a tutta una serie di malattie neurodegenerative, una sua presenza nel tempo nei pazienti depressi non curati, comporta un significato clinico non trascurabile.

«L’attivazione microgliale – scrivono gli autori – è più alta in pazienti con disturbo depressivo maggiore cronologicamente avanzato con lunghi periodi senza trattamento antidepressivo rispetto ai pazienti con disturbo depressivo maggiore con brevi periodi di trattamento antidepressivo, che è fortemente indicativo di una diversa fase della malattia. Coerentemente con questo, l’aumento annuale dell’attivazione microgliale non è più evidente quando viene somministrato un trattamento antidepressivo».

In buona sostanza, siccome l’infiammazione in generale è indice di qualche forma di sofferenza, ma pure di meccanismo biologico protettivo, non curare una depressione è un po’ come gettare della benzina sul fuoco della neuroinfiammazione. Viceversa, curare la depressione, corrisponderebbe a “spegnere”, o quantomeno a limitare i danni, prodotti da questo tipo di neuroinfiammazione.

La neuroinfiammazione del resto, come qualsiasi tipo di infiammazione presente nel corpo, se protratta, se addirittura cronica, porta ad alterazioni biochimiche ed anche funzionali. Ecco perché nel caso di questa ricerca del Campbell Family Mental Health Research Institute (CAMH, centro per le dipendenze e la salute mentale di Toronto, Canada) si commenta dicendo che la depressione maggiore non curata per più di dieci anni “cambia il cervello”. Come lo cambi, oltre all’attivazione della microglia, è una questione ancora aperta e da indagare. Si può già da ora iniziare a sostenere, tuttavia, che la depressione maggiore, in base a questi marker, può essere una malattia progressiva e, come tale, necessiti, per essere efficaci, di approcci e cure differenti negli anni.

Le ricerche di Jeffrey Meyer sulla neuroinfiammazione 

L’autore senior di questo lavoro è Jeffrey Meyer (nella foto) che al CAMH è a capo del programma di imaging neurochimico nei disturbi dell’umore e dell’ansia, nonché professore ordinario di neurochimica della depressione maggiore all’università di Toronto, dipartimento di psichiatria.

«Una maggiore infiammazione nel cervello –  commenta  Jeffrey Meyer – è una risposta comune nelle  malattie degenerative del cervello mentre progrediscono, come nel caso del morbo di Alzheimer e del morbo di Parkinson». In base ai risultati di questa ricerca di Meyer e collaboratori, ora l’attivazione microgliale, spesso considerata un marker di malattia neurodegenerativa e di neuroprogressione nel più ampio campo della malattia neuropsichiatrica, lo è anche nei riguardi della depressione maggiore.

A quanto se ne sappia, aggiungono gli autori, «questo è il primo studio a indagare un marker di attivazione microgliale in relazione alla durata della malattia e al trattamento in pazienti con disturbo depressivo maggiore». Va infine tenuta in considerazione la possibilità se questa sia la conseguenza o il terreno sui cui si sostiene la depressione maggiore non trattata. E, come sottolinea Hugh Perry, professore di neuropatologia sperimentale all’università di Southampton (Regno Unito), va valutato se tutto ciò sia «una risposta protettiva nel cervello piuttosto che l’evidenza di un fenotipo proinfiammatorio e dannoso per il tessuto». In ogni caso, come rilevato sia dagli autori che dai commentatori di questo lavoro, si riconferma il «crescente interesse per il ruolo dell’infiammazione, in particolare della microglia, nei disturbi psichiatrici».

Elaine Setiawan, Sophia Attwells, Alan A Wilson, Romina Mizrahi, Pablo M Rusjan, Laura Miler, Cynthia Xu, Sarita Sharma, Stephen Kish, Sylvain Houle, Jeffrey H Meyer
Association of translocator protein total distribution volume with duration of untreated major depressive disorder: a cross-sectional study. The Lancet Psychiatry (Available online 26 February 2018, In Press, Corrected Proof).

Aggiornamento (1 aprile 2019). Proprio al tema dei rapporti tra infiammazione e depressione, è dedicato il libro dell’immuno-psichiatra (si definisce proprio così) britannico Edward Bullmore La mente in fiamme. Un nuovo approccio alla depressione (Bollati Boringhieri). «Nei prossimi cinque, dieci o vent’anni assisteremo forse a un progresso accelerato nello sviluppo di un approccio radicalmente nuovo alla cura della depressione e di altri disturbi psichiatrici», sostiene Bullmore sulla base dei nuovi studi sulla psiconeruroimmunologia, un tempo derisa negli ambienti della ricerca biomedica. Avremo modo di tornare a parlare di questo libro e di questo tema.

Psicologia e scienza della magia: intervista a Gustav Kuhn


GustavKuhnOKUna nuova categoria di studiosi avanza. Quella degli specialisti della mente che si occupano, e magari praticano professionalmente, anche la magia. Certo, bisogna vincere quella naturale resistenza e ritrosia che il termine “magia” suscita nella nostra cultura, come mi fa notare uno dei grandi maestri italiani dell’illusionismo e della prestigiazione, Aurelio Paviato. Magia viene ancora confusa con cartomanzia, con gente che dichiara di avere poteri sovrannaturali e paranormali. Mentre nei paesi di lingua inglese, “magic” e “magician”, definiscono la materia e la pratica professionale in questo campo. Del resto un altro termine usatissimo, “misdirection”, tradotto in italiano diventa “depistaggio”, che evoca trame spionistiche e criminali e, di conseguenza, viene utilizzato anche da noi senza tradurlo.

Le illusioni magiche per studiare la mente

Allo stesso modo tutta l’ampia messe di articoli scientifici che stanno uscendo sui rapporti tra psicologia, neuroscienze e magia, impiegano abitualmente questi termini. Entrati ormai a fare parte del lessico scientifico internazionale. Persino l’articolo più recente dello psicologo e illusionista britannico Gustav Kuhn, scritto con lo psicologo e informatico canadese Ronald A. Rensink, fa appello alla magia come strumento per studiare la mente (“A framework for using magic to study the mind”).

In definitiva, dato che la lingua inglese la fa da padrone a livello internazionale, soprattutto in campo scientifico, gli illusionisti, i prestigiatori e i mentalisti italiani dovrebbero non dico capitolare, ma fare un po’ di didattica pubblica per fare comprendere cosa sia la magia spettacolare, e oltretutto, in quanto maghi, oggi sono non solo gli antesignani della scienza, ma oggi pure dei collaboratori.

Abbiamo perciò rivolto a Gustav Kuhn (“psicologo e mago dell’Università di Durham, in Inghilterra”, come viene citato ne I trucchi della mente. Scienziati e illusionisti a confronto, Codice Edizioni) alcune domande per chiarirci come vede questo crescente interesse della scienza per la magia. Più altre questioni relative al suo percorso formativo, al mentalismo e alla cultura magica in generale.

Lei fa parte di una categoria, una volta impensabile: specialisti della mente, scienziati che sono pure maghi. Come interpreta questa tendenza?

Ho iniziato ad occuparmi di questa linea di ricerca nel 2003. In quel periodo la maggior parte degli scienziati riteneva che il legame tra magia e scienza fosse potenzialmente interessante, ma non riusciva a vedere come le due aree potessero essere direttamente collegate. Da allora noi, e altri, abbiamo pubblicato numerosi lavori scientifici in cui è stata impiegata la magia per studiare una vasta gamma di aree di conoscenza, dimostrando in tal modo che questo link è davvero possibile. Oggi il legame tra magia e scienza è molto più stabilito. Abbiamo definito paradigmi che possono essere utilizzati per studiare la magia scientificamente, ed è diventato accettabile usare la magia per studiare il cervello. Molti libri di testo di psicologia stanno utilizzando la magia per spiegare la psicologia cognitiva. Quindi la scienza della magia sta diventando parte della psicologia “mainstream”, e come tale ha attirato molti nuovi scienziati ad usarla nella loro ricerche. Inoltre, la magia è diventata molto popolare e ora ci sono molti maghi che hanno pure studiato psicologia, e sono stati ispirati a unire i loro due interessi.

Si dice spesso che i maghi sanno più sulla percezione degli psicologi: cosa ne pensa?

I maghi hanno molta esperienza nel manipolare la percezione della gente, e sono molto bene informati su come funzionano le tecniche. Tuttavia noi, come scienziati, siamo generalmente interessati ai meccanismi percettivi e di come il cervello risolve i problemi percettivi. I maghi non hanno necessariamente le risposte a queste domande. In altre parole, essi sanno che cosa funziona, ma non necessariamente perché funziona. Per questo riteniamo che solo la scienza della magia possa capire i reali meccanismi che sono coinvolti nella magia.

Perché il mentalismo, che utilizza anche vecchi trucchi, è oggi tanto di moda?

La magia genera un senso di meraviglia nello sperimentare l’impossibile, e come tale espande i limiti di ciò che crediamo essere possibile. La magia si è sempre occupata di temi che sono stati ai margini della nostra comprensione. Attualmente siamo affascinati dalla psicologia, e mentre abbiamo imparato molto su come funziona il cervello, ci sono ancora molte domande senza risposta. E ci sono un sacco di misteri su come funziona il cervello. Penso che le persone siano affascinate dal mentalismo perché permette loro di esplorare alcuni di questi misteri psicologici.

Quanto è importante una buona storia in una routine magica? Perché?

Una buona storia è molto importante. Permette al mago di accompagnare lo spettatore in un viaggio, creando un magico mondo di meraviglie. I maghi usano spesso la misdirection per evitare che il pubblico faccia attenzione al metodo utilizzato. La misdirection si basa sulla manipolazione dei pensieri e delle aspettative della gente, e una buona storia fornisce un valido strumento per farlo.

Qual è il mago del passato verso cui nutre maggiore ammirazione ? Perché? E oggi?

Tony Slydini è stato uno dei miei più grandi ispiratori, un vero maestro di misdirection. Molto di quello che so di misdirection viene dalla sua scuola di magia. Ci sono così tanti grandi maghi oggi che è difficile sceglierne uno. Tuttavia, se costretto a farlo, sceglierei Juan Tamariz, un fantastico mago spagnolo, che non è solo un brillante conoscitore di teorie magiche, ma anche uno dei più grandi performer.

Sta scrivendo un libro su questi argomenti?

Non al momento, ma ho intenzione di farlo nel prossimo futuro.

Cosa possiamo aspettarci nel prossimo futuro dalla collaborazione tra scienziati e maghi?

Negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di studi sulla scienza della magia e molti ricercatori stanno concentrando sempre più le loro ricerche in questo settore. Abbiamo un numero considerevole di ricercatori in questo campo che consentono un dibattito costruttivo e quindi un progresso della conoscenza. C’è anche un numero crescente di maghi interessati a questo sforzo che sono attivamente alla ricerca di collaborazioni con gli scienziati. In questa collaborazione, entrambe le parti possono beneficiare gli uni dagli altri. Gli scienziato possono incorporare l’esperienza del mondo reale dei maghi nella loro ricerca scientifica. E, come abbiamo indicato nel nostro recente articolo uscito su Frontiers, la magia può essere utilizzata per indagare una vasta gamma di principi psicologici. Ma pure i maghi possono beneficiare di tale collaborazione. La comprensione dei meccanismi coinvolti nella magia fornirà ai maghi nuove intuizioni e conoscenze su come migliorare i loro trucchi magici, o addirittura creare illusioni che sembravano impossibili.

Ronald A. Rensink, Gustav Kuhn, A framework for using magic to study the mind

Now you see it – now you don’t (servizio su Gustav Kuhn con video e intervista audio su BBC Radio 4 – Today)

Vedi anche:

Psicologia e scienza della magia

Il cervello innocente: intervista a Giuseppe Sartori


Viviamo in piena neurocultura secondo alcuni, neuromania per altri. Ci sono neuroscienziati e neurofilosofi. I secondi cercano di spiegare ai primi le conseguenze, soprattutto etiche, delle loro scoperte. Facciamo qualche esempio. Se le tecniche di visualizzazione cerebrale consentono di scovare alterazioni nel cervello di un criminale, ciò potrà influenzare il nostro giudizio sulla sua responsabilità e, di conseguenza, la pena che gli commineremo? Il dibattito è aperto, e già oggi vi sono procedimenti in tal senso. Le perizie a carico di neurologi, psichiatri o psicologi clinici si avvalgono della competenza professionale e sui mezzi che il periodo storico rende disponibili. Se in futuro le tecniche diagnostiche (e non semplicemente i test proiettivi, ad esempio) consentiranno di valutare modificazioni o alterazioni neuronali, anche minime, addirittura molecolari, dovremo tenerne conto nel giudizio sul comportamento di un criminale?

Lombroso partiva dalle caratteristiche fisiche dell’uomo delinquente, la criminologia successiva dagli aspetti psicologici e, oggi, addirittura da quelli neurobiologici. Altro elemento, a lungo dibattuto, è quello a carico dell’accertamento strumentale della testimonianza veritiera o fasulla. Esistono, o potranno esistere procedure di lie-detection (anche attraverso l’imaging cerebrale e non solo la registrazione dei parametri fisiologici) in grado di accertare se un teste mente o dice la verità? E, di nuovo, perché insistiamo a non riconoscere validità alle  moderne tecniche di lie-detection, il cui margine d’errore può essere inferiore al trenta per cento, quando una diagnosi crimolologica vecchio stile può sbagliare per oltre il cinquanta?

Anche prendendo in esame il solo campo neurogiuridico, ulteriore neologismo col prefisso “neuro”, è evidente che la massa di conoscenze, dati e scoperte mediati dalle neuroscienze è talmente vasta, intrecciata e complessa, da rendersi indispensabili strumenti di analisi critica, riflessione e, soprattutto, sintesi. Le neuroscienze ci prospettano una immagine di noi stessi che, per certi versi, si discosta, a volte in maniera radicale, da quelle ricavate dalla storia del pensiero precedente.

Dunque potremo un giorno sostenere, come il titolo di un recente saggio (Il delitto del cervello, Codice Edizioni), che è il cervello ad essere “colpevole” di un delitto o di un crimine? Se noi siamo il nostro cervello, una alterazione anche minima della biochimica cerebrale, non può essere alla base di un comportamento criminale? Insomma è sotto accusa il nostro cervello o la nostra personalità? Dove sta il confine? Enormi ed infiniti quesiti che il panorama aperto dalle neuroscienze ci fa solo intravedere. Abbiamo cercato di chiarirci le idee con Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia clinica presso l’Università di Padova e direttore del Master in Psicopatologia e neuropsicologia forense.

Proprio in questi giorni, si sta svolgendo a Padova, anche su iniziativa di Sartori, un convegno internazionale di neuroetica sul tema “Le neuroscienze tra spiegazione della vita e cura della mente”.

La sintesi grossolana di questa conversazione con Sartori, che dà anche il titolo a questo post, sembra comunque essere che il cervello è “sempre” innocente. Scoprite perché.

Professor Sartori vedo dal programma che affronterà il caso della cosiddetta “mano aliena”: di cosa si tratta?

Io come altri ci occupiamo di libero arbitrio. Da neuropsicologo lo affronto dal punto di vista di come lo studio delle patologie neurologiche può farci capire come noi prendiamo decisioni volontarie. Partendo dalla patologia, deduciamo, inferiamo il funzionamento normale della mente e come si produce l’azione volontaria. Ad esempio se ora preme un pulsante, lei ha un senso di proprietà della mano che preme ed è un tutt’uno con il senso della mano che preme, la finalità della mano che schiaccia, la finalità di premere il bottone e voler iniziare l’atto. Cioè è un’unica cosa. In realtà la sindrome della mano aliena dimostra che le cose sono scorporate. Nel senso che il soggetto con mano aliena che, ad esempio, potrebbe colpirsi la faccia, ha la sensazione che la mano sia sua, che l’azione sia finalizzata, cioè tirarsi delle sberle, ma non è lui a volersi tirare delle sberle. Praticamente la mano non obbedisce alla sua volontà.

Quali aree cerebrali sono interessate nella sindrome della mano aliena?

È poco studiata ed è considerata una condizione instabile, nel senso che non rimane a lungo immutata. Trattandosi di azioni volontarie, è riconducibile alla funzionalità del lobo frontale. Tutti i disordini dell’incapacità di iniziare un comportamento, sono riconducibili ad alterazioni del lobo frontale. Uno dei relatori del nostro convegno, Dylan Jones,  ha studiato approfonditamente le attività cerebrali legate alle azioni volontarie. E’ riuscito in particolare prevedere in base a una particolare attività del cervello, riferita all’area del lobo frontale, ancor prima che la persona ne sia direttamente consapevole, se è in procinto di muovere la mano destra o sinistra. Il lobo frontale contiene l’informazione che andrò a muovere la mano destra ancor prima che a me sembri di aver deciso di muovere la mano destra.

Nel recente Il delitto del cervello viene fuori questo paradosso che recita “Non sono stato io, ma il mio cervello”: è probabile che qualcuno prima o poi tenti di scagionarsi da un delitto in questo modo? 

Quel libro è il migliore che c’è in circolazione su questi temi, ma un concetto del genere non è assolutamente sostenibile. La posizione che sta portando avanti il gruppo di cui faccio parte è che le questioni di responsabilità sono svincolate da quelle relative al cervello. Dal punto di vista scientifico esiste la possibilità teorica di ricostruire il nesso di causa che determina ogni nostra azione. Ci avviciniamo sempre di più al lavoro di Dylan Jones, però dal punto di vista della responsabilità è una questione che ha a che fare con l’aspetto cognitivo e non col cervello. Le faccio un esempio. Se un soggetto è pedofilo, cioè agisce con azioni di natura sessuale nei confronti di un minore, può essere o non essere responsabile indipendentemente dal suo cervello. Ad esempio, vi sono delle pedofilie acquisite a causa di lesioni nella regione dell’ipotalamo, per tumori nella zona ipotalamica, che possono interferire con i nuclei dell’ipotalamo coinvolti nell’orientamento sessuale, dando origine a questo comportamento. Però dal punto di vista della questione se la pedofilia sia acquisita o congenita, è piuttosto irrilevante. Ciò che conta è la capacità di fare diversamente. I test sulla responsabilità sono di tipo psicolegale, non di tipo neurologico. Test di tipo psicolegale significa che si vada ad accertare la seguente questione: il soggetto è in grado di fare diversamente, se solo avesse voluto? Questo è il discrimine.

E la risposta finale qual è? Se parto dal concetto che una lesione o una alterazione del cervello potrebbe essere alla base di un comportamento criminale, posso dimostrare sia che un soggetto è innocente quanto colpevole, dal punto di vista della responsabilità personale.

Dipende. Prendiamo il caso Stevanin, privo di mezzo lobo frontale a causa di un incidente. Stevanin strangolava le sue vittime, durante incontri di sesso estremo. Qualcuno potrebbe dire: “la sua lesione gli provoca l’incapacità di fermarsi”. E’ un ragionamento logico, ma non è questa la dimostrazione. La domanda da porsi a monte è: “se lui vuole, può fermarsi quando vuole?”. I periti hanno risposto affermativamente, perché questi giochetti li faceva anche con la sua fidanzata e se voleva si fermava. Tant’è vero che non l’ha uccisa. Quindi che questo soggetto avesse o non avesse il cervello danneggiato nel lobo frontale, rispetto al crimine commesso è un fatto secondario. La questione del cervello è più che altro legata alla simulazione della malattia mentale. Prendiamo il caso di Breivik, il colpevole della strage di Oslo. Un gruppo di periti sostiene che non è imputabile perché schizofrenico, un altro gruppo invece che è imputabile perché non ha nulla. Breivik stesso non vuole essere considerato malato di mente. Si trova, eventualmente, nella condizione in cui nasconde, dissimula una sua psicopatologia. Nella condizione processuale il soggetto tende sempre a trasformare un po’ la sua psicopatologia, nella direzione che gli conviene. Breivik nella direzione di negarla, qualcun altro nella direzione di farla emergere. Studiare il cervello ci può aiutare a sapere se una psicopatologia è reale oppure no. Esistono tecniche, come la “voxel based morphometry” (VBM, una tecnica di neurorimaging che misura variazioni molto fini), che ci consentono di capire se Breivik ha un cervello schizofrenico, oppure no. In questo senso le neuroscienze aiutano.

In pratica, di un soggetto accusato di un crimine, va valutato tutto il percorso di vita, non soltanto gli aspetti neuropsicologici di quel determinato momento.

Il criterio per decidere se la sua azione è stata libera e volontaria, quindi responsabile, oppure se la sua azione è avvenuta al di fuori della sua volontà, quindi non è responsabile, non è un criterio di tipo neurologico, ma bensì di tipo cognitivo.  Prendiamo il caso di un paziente con ballismo, una patologia neurologica che provoca movimenti improvvisi e incontrollabili. Se un paziente del genere impugnando un coltello uccide per errore la moglie, è responsabile del suo movimento che ha determinato la morte? La risposta è no. Perché non è lui che l’ha voluto, ma è la malattia che si è sostituita alla sua volontà nel determinare il movimento. Facciamo un ragionamento per assurdo: immaginiamo che a causa del singhiozzo si possa uccidere. Una persona che ha il singhiozzo e a causa di esso uccide, è responsabile? La risposta è no. Perché, quella persona se anche avesse voluto non avrebbe potuto non singhiozzare. Il criterio della “mental insanity” è unicamente cognitivo, rispetto alla responsabilità.

E se quella persona ha una sindrome premestruale?

Qui entriamo nella zone grigie, perché sono esempi “né carne né pesce”. Quando i giuristi discutono lo fanno usando sempre degli esempi estremi, come quelli che ho appena fatto.

Ne Il delitto del cervello c’è un intero capitolo dedicato al caso dello psicopatico. E si cita l’assunto di quel giurista americano secondo cui, pur riconoscendo la psicopatologia del soggetto che ha commesso un crimine e ritenendo che ciò non costituisca attenuante, lo condanna in quanto “è necessario che la legge mantenga le sue promesse”. Ora se da una parte le neuroscienze sostengono che noi siamo il nostro cervello e i processi cognitivi sono un prodotto del cervello, come faccio a distinguere se ciò che commetto è frutto della “cognizione” oppure di una “disfunzione” del cervello? Non è la stessa cosa?

No, non lo è. Il criterio in base al quale lo decido è fenomenologico, riguarda i sintomi, non il cervello.

Mi sta dicendo che c’è un momento in cui il soggetto può decidere se compiere una certa azione oppure no. Il famoso libero arbitrio: pur alterato da qualcosa, mi rendo conto che sto per fare qualcosa di male, e decido di farlo comunque.

Esattamente. E questo è un criterio di tipo cognitivo, non neurologico. Lo psicopatico è perfettamente consapevole del fatto che sta facendo qualcosa di male. E lo fa comunque.

In base ai suoi studi, alle sue riflessioni e al confronto con i colleghi, come definirebbe oggi il libero arbitrio?

In realtà più che i filosofi e gli scienziati, sono i giuristi che in centinaia d’anni hanno seghettato minuziosamente il libero arbitrio. Perché i giuristi introduco delle sfumature particolari, ad esempio su concetto di “dolo eventuale”. Il dolo eventuale è un reato per cui, facendo un esempio, una persona passa con il rosso ed uccide un’altra persona. Cosa significa? La persona che non ha rispettato il rosso non voleva in realtà uccidere. Non aveva l’intenzione di uccidere, però passando col rosso la persona sa che si espone ad un rischio e decide liberamente di assumersi il rischio. Questa è una sfumatura ulteriore del libero arbitrio. Questo per dire che il libero arbitrio lo hanno analizzato molto meglio i giuristi che gli scienziati. Perché è una approssimazione progressiva di un sistema giudiziario che da centinaia d’anni, quotidianamente, si trova ad affrontare tutte le cose possibili ed immaginabili dell’agire umano. Di tutti i tipi di reato che rendono conto di un aspetto che prima non era previsto, e così via.

Tornando al semaforo rosso, si potrebbe fare l’esempio della nave da crociera che va a sbattere contro lo scoglio per una bravata: so di rischiare, ma lo faccio comunque. A rischio dei passeggeri , del mezzo e dell’ambiente.

Certo, e qui è ancora più grave. Perché se passo col semaforo rosso so che metto repentaglio, al massimo, la vita di tre o quattro persone, nel caso della nave so che rischio la vita di centinaia di persone.

Nel corso del convegno vengo anche discusse le tanto citate ricerche di Benjamin Libet, sull’attività cerebrale che anticiperebbe la volontà di agire. Vi sono state molte valutazioni di tali ricerche, e soprattutto delle conclusioni tratte: lei cosa ne pensa?

Ho lavorato con dei colleghi sulle questioni sollevate dalle ricerche di Libet, il quale dimostra che la nostra azione attiva e consapevole viene preceduta da una attività cerebrale che esiste e ci predispone all’atto prima che ne diveniamo consapevoli. E’ certamente un dato di partenza molto interessante. Nel nostro campo, riguarda un gamma di comportamenti delittuosi molto limitata: il cosiddetto “reato d’impeto”. L’agire d’impulso. Certamente non riguarda comportamenti pianificati come decidere dove andare in vacanza la prossima estate. Riguarda azioni elementari, ma dal punto di vista processuale conta anche quello. Perché c’è tutta una gamma di reati, chiamati “reazioni a corto circuito”, per cui ad esempio la moglie dice al marito che l’amante è più bravo di lui, e questo non capisce più nulla e l’uccide.

Oppure le aggressioni urbane per futili motivi: l’urtarsi sul mezzo pubblico, la lite per strada, il parcheggio.

Precisamente. Sono tutte situazioni in cui il colpevole del crimine poi dice: “mi sono trovato col coltello in mano e non so perché”.

Com’è dunque il rapporto tra neuroscienziati e giuristi?

Ci sono due filoni. C’è un filone estremista che dice: le neuroscienze stanno dimostrando che il libero arbitrio non esiste, quindi bisogna ripensare l’intero sistema della responsabilità e della punizione. C’è invece una corrente più cauta, a cui penso di appartenere, secondo cui le neuroscienze contribuiscono ad introdurre un po’ più di oggettività in un mondo in cui le tecniche argomentative, e non oggettive, la facevano da padrone. Perché più che neuroscienze o non neuroscienze, nel campo giudiziario c’è la differenza tra “evidence based” e “non evidence based”. Prenda il caso di Garlasco. Cosa dice il Pm? Dice qualcosa di intuitivo: “Stasi mente perché sostiene di essere andato dall’ingresso alla defunta immediatamente. Ma siccome lì c’erano delle chiazze di sangue e le sue scarpe non sono sporche di sangue, racconta balle”. Questa è una intuizione che si basa sull’assunto che uno cammini in linea retta. I periti hanno fatto un vero e proprio esperimento in cui hanno chiesto a trenta persone di compiere un certo tragitto su un piano macchiato. Ebbene: le persone non pestavano le macchie, stanno attente a non pestare le macchie di sangue. Ecco che la ricerca empirica ci dice qualcosa di diverso rispetto alla nostra intuizione, che è fallace. Questo è un bell’esempio di scienza nel processo. Dunque le neuroscienze contribuiscono a spostare l’asse dalla cultura filosofica-argomentativa alla cultura della verifica empirica.

Però diventa sempre più complesso condurre in porto un processo.

Certamente. Un altro bell’esempio è quello della testimonianza. Dico: “lo riconosco”. Ma la scienza dimostra che il riconoscimento è molto fallace e dipende da molti fattori.

Quindi le neuroscienze sono ben viste nei tribunali? E cosa vede nel prossimo futuro?

Sono la novità del momento e vedo un aumento esponenziale del loro contributo a livello legale e giuridico. Siamo soltanto all’inizio. Un altro esempio di applicazione è poter decidere se una persona simula oppure no la malattia mentale. Siamo all’intuizione rispetto al fatto di avere delle basi scientifiche per affermare che una persona simula o non simula la malattia mentale.

Cosa abbiamo a disposizione oggi oltre alla classica testistica di personalità?

Abbiamo anche una testistica  neuropsicologica molto accurata sull’identificazione del simulatore. Soprattutto abbiamo la logica della cosiddetta correlazione anatomo-clinica. Cioè andando a vedere il cervello di Breivik possiamo capire se ha un cervello da schizofrenico o da normale. C’è tutto un pattern di attivazione e di morfologia che coinvolge il lobo frontale piuttosto distintivo del paziente schizofrenico.

 Vuole dire che il base al neuroimaging possiamo dire se una persona è schizofrenica oppure no?

No. In base al sintomo, possiamo dire se quel cervello è congruente con quel sintomo.

Ma solo dall’immagine radiologica non possiamo dire se un cervello è schizofrenico oppure no.

Certo che no. Ma questo vale per qualsiasi sindrome neurologia. Se io vedo una lesione nell’area di Broca, non posso dire che quel soggetto è un afasico di Broca. Perché potrebbe non esserlo. Posso sostenere invece che quelli con una lesione nell’area di Broca tendono a sviluppare un quadro clinico che è simile a quella che conosciamo come afasia di Broca.

Cosa si aspetta da questo convegno?

E’ ormai arrivato alla quarta edizione e ogni volta cerchiamo di affrontare temi diversi. Quest’anno ad esempio affrontiamo anche l’argomento della psicoterapia che cambia il cervello. Perché funziona la psicoterapia quando funziona? Quando funziona i cosiddetti “responder” cambiano il cervello come lo cambiano a seguito di una farmacoterapia. Ovviamente rimane un grosso mistero come le due cose agiscano in modo più o meno simile nel cervello.

Come facciamo a stabilire se il cervello è cambiato a seguito della psicoterapia o, tanto per dire, del tempo che passa e delle circostanze di vita che si modificano?

Perché ci sono ormai modelli sperimentali appositi per verificarlo.

E le caratteristiche dei “responder” sono definibili?

Non tanto. Sono ricerche che vengono condotte su sintomatologie che vengono provocate, col metodo di “symptom provocation approach”. Patologie che possono essere provocate sono ad esempio la fobia. Se lei è fobico verso il ragno, mettendole davanti un ragno le induco una reazione fobica. Patologie che non possono essere provocate sono le allucinazioni. Non posso dire ad uno schizofrenico: “al mio via fatti venire un’allucinazione”. L’allucinazione viene per i fatti suoi. In sostanza, quello che si sa rispetto alle caratteristiche dei responder è su patologie che possono essere provocate. Quindi, disturbi ossessivo-compulsivi, fobie, reazioni ansiose.

Però, tornando alla questione della psicoterapia efficace o meno, pare che non sia tanto la tecnica quanto la figura dello psicoterapeuta a fare la differenza.

Vale a dire che è una questione relativa alla relazione, più che alla tecnica adottata. Entriamo in un ambito un po’ complesso. Riguarda la quantità di effetto placebo presente nella psicoterapia.

Quindi chi cambia il cervello andando dallo sciamano o in pellegrinaggio in un luogo sacro, anziché dallo psicoterapeuta?

Beh certo, il cambiamento non è mica specifico al discorso della psicoterapia. Se lei guarda le ultime ricerca nell’ambito della depressione, le ultime metanalisi dimostrano che il novanta per cento del beneficio dell’antidepressivo viene duplicato dall’effetto placebo. Per cui quanto di effetto specifico antidepressivo vi sia nel farmaco, è molto poco. Lo stessa cosa per quanto riguarda la psicoterapia.

Perché ritiene le ricerche di Dylan Jones così interessanti?

Perché utilizza le cosiddette tecniche di “mind reading” , cioè di decodificazione dello stato mentale sulla base dell’attività cerebrale. In pratica, dimmi come funziona il tuo cervello e ti dirò ciò che pensi. Si tratta di un altro filone in crescita. Vi sono tecniche molto sofisticate in tal senso oggi.

Ultima domanda: diceva che questo settore, le applicazioni giudiziarie delle neuroscienze, è in crescita esponenziale. Ma dove si formano gli specialisti in questo settore?

Un po’ alla volta si formeranno. Rientrano all’interno di professioni classiche come la psichiatria forense, la psicologia e la neuropsicologia forense. Ci sono poi avvocati che utilizzano queste tecniche per costruire teorie giuridiche, strategie processuali. Ma è un’altra questione. A Padova, da quest’anno, è stato introdotto il primo corso di psicologia del giudizio e della decisione alla facoltà di  giurisprudenza, a cura del professor Rino Rumiati. Vengono insegnati ai giuristi i meccanismi della mente e del cervello nell’ambito giudiziario. Un po’ alle volte le cose stanno cambiando.

* All’indirizzo www.fondazionebassetti.org è possibile seguire i lavori del convegno in diretta streaming.

Addio a Carlo Lorenzo Cazzullo, psichiatra


Se ne è andato ieri a 95 anni Carlo Lorenzo Cazzullo, nella sua Milano. Era nato a Gallarate (Varese) il 30 gennaio 1915

Ora tutti parleranno del “padre della psichiatria italiana”. E in effetti lo era, essendo riuscito a separare la neurologia dalla psichiatria attraverso una legge che, dopo molte peripezie e anticamere, si vide approvare, lui democristiano, anche dai comunisti (aveva curato, da par suo, il figlio di un parlamentare del PC e questi gli fu riconoscente). E successivamente a creare, in pratica, tutte le cattedre e gli istituti di psichiatria esistenti in Italia.

Memorabili le sue lezioni e i suoi seminari all’Istituto di psichiatria, da egli fondato nel 1959, e all’Ospedale psichiatrico Paolo Pini, quartiere milanese di Affori (solo “Affori” per Cazzullo), a cui, negli anni Sessanta e Settanta, oltre agli studenti e specializzandi, poteva accadere partecipassero anche giornalisti come Giampaolo Pansa. O, come egli stesso rammentava divertito, un vigile urbano “appassionato di psichiatria”. Erano gli anni dell’antipsichiatria, di Basaglia, e Cazzullo seguiva invece una via psichiatrica più cauta, conscia delle difficoltà che la disciplina avrebbe dovuto ancora affrontare. Sia sul piano scientifico che clinico.

Erano gli anni in cui arrivò una delegazione di psichiatri dalla Cina comunista (c’è una bella foto di Cazzullo che parla ai colleghi del celeste impero, tutti riuniti attorno ad un tavolone). Oppure studiosi diventati di culto, come lo psicoanalista Michael Balint. Per tutta la vita Cazzullo è stato un entusiasta, pur con momenti di stanchezza e malinconia. Da cui però sapeva riprendersi, grazie al suo grande amore per la psichiatria, la neurologia e, in seguito, le neuroscienze. Ma anche per la cultura in generale, specialmente quella classica, storica e filosofica. E per la musica. Sempre attento e vigile sulle nuove scoperte in campo scientifico e medico, non soltanto psichiatrico. Sempre pronto ad ascoltare persone di ogni età, anche giovanissime. Sempre rapido nell’apprendere qualcosa di nuovo.

Ho avuto la fortuna di frequentare la sua casa e l’ampio studio ricolmo di libri e onorificenze,  all’ultimo piano di Piazza Duse 1 a Milano, in coincidenza della fermata metrò di Palestro, percorrendo l’arco proprio di fronte al museo di Storia naturale. Lo incontrai a lungo, raccogliendo ore e ore di registrazione, difficoltosamente trascritte, e copie di documenti, per ricavarne una biografia. Ai due lati del vasto, elegante e raffinato appartamento vecchio stile, con bellissime balconate, vi erano i due studi: il suo e quello della moglie, la neuropsichiatra infantile Adriana Guareschi Cazzullo.

Con quella sua voce particolare, riconoscibilissima, quel suo modo di essere burbero e dolce, Cazzullo era unico. Anzi, “il Cazzullo”, come amava definirsi con un sorrisino ironico. Adorava l’ironia sottile e la battuta fulminante. Anche ultraottantenne non risparmiava giudizi e critiche, sempre motivate, ma lapidarie. Era un uomo, oltre che uno scienziato della psiche, generoso, irruento, creativo, coraggioso, energico, preparatissimo. Non da tutti amato, certo, ma come accade a coloro che hanno carattere e fanno storia.

Un anno mi mostrò sconfortato una lettera della Società italiana di neurologia in cui gli veniva negata l’associazione onoraria. Una nota di un amico neurologo aggiungeva che ne era molto dispiaciuto, ma la votazione era andata così. “E’ una vita che pago la quota – commentò Cazzullo – alla soglia dei novant’anni e dopo tutto quello che ho fatto, ho semplicemente chiesto che mi riconoscessero come socio onorario. Pazienza”.

Che cosa aveva fatto di tanto sconvolgente Cazzullo? Ci aveva messo vent’anni per separare le due discipline: la neurologia dalla psichiatria. Prima esisteva solo la neuropsichiatria. Ma una volta laureatosi con Besta a Milano e recatosi appena terminata la guerra, nel 1946, come ricercatore in neurofisiologia, grazie a una borsa,  al Rockefeller Institute for Medical Research di New York, studiosi del calibro di R. Lorente de Nò e A. Ferraro, oltre al premio Nobel Herbert Gasser, lo convinsero che era giunto il momento, anche per l’Italia, di far percorrere differenti strade accademiche e scientifiche a due discipline così complesse e vaste, pur con evidenti punti di contatto e sovrapposizione, come la neurologia e la psichiatria.

Ed è così che Cazzullo inizia la sua lunga e tribolata, ma anche entusiasmante, avventura per far nascere la psichiatria italiana.  Formando intere generazioni di psichiatri. Oltre a tracciare percorsi di ricerca e intervento clinico, come ad esempio quello attualissimo della riabilitazione psichiatrica, assolutamente innovativi. Ma, come la psicoanalisi ci insegna, Cazzullo era conscio di rappresentare, nel bene e nel male, la figura paterna. Per alcuni versi da temere, rispettare, ma anche rimuovere. Finché ha potuto Cazzullo ha rappresentato l’autorità e l’autorevolezza nelle sessioni nazionali e internazionali di psichiatria. Ma al di là di questo, ritengo, soprattutto un esempio di serietà professionale, rettitudine, coerenza e dedizione al lavoro con cui confrontarsi.

La vita di Cazzullo è un film. A New York incontrò Don Luigi Sturzo, rifugiato, e Arturo Toscanini. Da entrambi venne ricevuto per la raccolta fondi che il giovane Cazzullo stava facendo per far avanzare la neuropsichiatria italiana. Sempre a New York, con i fondi raccolti acquistò uno dei primi elettroencefalografi da inviare al Besta di Milano (chissà se in qualche scantinato c’è ancora: sarebbe ottimo per una mostra rievocativa). Ci aveva messo un mese, in nave, per raggiungere la Grande Mela. E trovò ospitalità in una trattoria con annessa camera gestita da italiani a Little Italy. Toscanini accettò di dare un contributo economico solo a patto che Cazzullo, nell’arco di una settimana, riuscisse a raccogliere una certa cifra. Il giovane Cazzullo riuscì ovviamente nell’impresa, e Toscanini aggiunse la sua parte.

E’ già un film la vita di Cazzullo. Mi tornano alla mente le immagini che sapeva evocare con i suoi appassionati racconti. Lui all’Ospedale militare di Milano che riesce a salvare un buon numero di ricoverati dalla deportazione in campo di concentramento. Cazzullo aveva fatto ragioneria, prima di iscriversi a medicina, e aveva studiato, bene, il tedesco. Questo gli permise di cogliere una telefonata in cui il comandante tedesco – con il quale aveva contatti in qualità di ufficiale medico – diceva ai suoi che l’indomani avrebbero fatto un rastrellamento all’Ospedale militare. Cazzullo si precipitò all’ospedale e convinse ad andarsene quanti più poté (non tutti avevano ancora la consapevolezza di cosa volesse dire “campo di concentramento”, alcuni pensavano di poter andare a lavorare in Germania e quindi stare meglio).

“Il giorno dopo – mi raccontò Cazzullo – arrivò il comandante con le camionette. Entrò nei reparti e li trovò semivuoti. Vestito di tutto punto, con la divisa, il berretto con la visiera e gli stivali, si voltò verso di me e mi lanciò uno sguardo che mi gelò il sangue. Carlo sei morto, ho pensato. Invece, si voltò verso i suoi e urlando Schnell Schnell!, se ne andarono”.

Cazzullo tra l’altro aveva militato nelle fila partigiane di Giustizia e Libertà: da quei ricordi, a cui teneva molto, ricavò un volumetto pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2005 (Un medico per la libertà). Una volta, mi raccontò, dovette starsene nascosto all’interno di un altare. Un’altra scampò, oltre a quella dell’Ospedale militare, ad una esplosione. “Ho evitato la morte almeno due o tre volte”, commentava con un sorriso.

Grandissimo il suo amore per la famiglia e gli adorati nipoti. Centinaia le storie relative ai suoi pazienti, anche famosi, che ha seguito e curato nell’arco di una vita. Anche negli ultimi anni, finché ha potuto. Molti di loro si sono sentiti e si sentiranno orfani. Ad un paziente che gli avevo inviato, disse: “Lei non ha bisogno di farmaci. Esca di più e vada a ballare”. Lo congedò con una terapeutica pacca sulle spalle. E il paziente seguì, con successo, il suggerimento del professore. Dopo una vita trascorsa con pazienti psichiatrici, sapeva ben distinguere tra il paziente bisognoso di psicofarmaci e quello che si nega all’esistenza. Ma tutti – più volte ne sono stato testimone – lo potevano raggiungere  con una telefonata, a cui cercava sempre di rispondere e rassicurare.  Lo stesso Cazzullo, del resto, vedovo della prima giovane moglie e giovane padre, aveva ben conosciuto la notte oscura dell’anima. “Ne venni fuori – raccontava – quando gli americani mi invitarono a tenere un ciclo di lezioni negli Stati Uniti. Sulla depressione”.

E’ stato un maestro. Ha aperto molti fronti in psichiatria biologica e psicofarmacologia. Era nato scienziato e ricercatore, ed era diventato pure un ottimo clinico e un grande docente. Molto saggio. Mi risuonano nella mente alcune sue sollecitazioni. Tipo: “Perché non mi hai chiamato ieri?”. “Professore, pensavo di disturbarla”. “Non pensare, verifica!”

Aggiornamenti – Nel Dizionario delle Scienze psicologiche di Luciano Mecacci (Zanichelli, 2012) alla voce dedicata a Carlo Lorenzo Cazzullo si legge: “Seppure di orientamento biologico (fu tra i primi studiosi italiani della psichiatria di indirizzo pavloviano), ha contribuito a uno sviluppo della psichiatria italiana aperto alle nuove correnti psicoterapeutiche di impostazione clinica e relazionale”.