La depressione ha a che fare con la chimica del cervello? Domanda retorica: non c’è dubbio. Altrimenti i farmaci, ma pure le psicoterapie, che modificano le la biochimica cerebrale non avrebbero alcun senso. Se questo è vero, la domanda immediatamente successiva è: una depressione maggiore non curata, nel corso degli anni, modifica la biochimica cerebrale? Secondo una nuova ricerca pubblicata da “The Lancet Psychiatry” che indaga le funzione della microglia, la risposta pare essere affermativa. Dopo anni il cervello dei depressi non curati si modifica. Già, potrebbe commentare qualcuno. Ma pure il cervello di un soggetto non sofferente di depressione dopo dieci anni si modifica. Allora qual è il discrimine della ricerca?
Microglia e cervello infiammato
Il discrimine è l’attivazione della microglia. La microglia è stata definita la “difesa” del cervello. In sostanza, le cellule microgliali rappresentano il sistema di difesa immunitaria del cervello. Le cellule microgliali si attivano ogni volta che c’è qualche tipo di sofferenza nervosa. Anche perché le cellule microgliali non si trovano soltanto nel cervello, ma sono pure distribuite nel midollo spinale. E le cellule microgliali sono pure “dinamiche”: si muovono alla ricerca di cellule nervose danneggiate da proteggere e riparare. Sono anche state definite cellule “spazzine” del sistema nervoso. Le loro funzioni, un tempo ignorate, sono sempre più studiate. Anche grazie alle moderne tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale.
E proprio grazie a una tecnica di imaging cerebrale, la PET (tomografia a emissione di positroni) un nuovo studio che ha preso in esame per anni un gruppo di soggetti sofferenti di depressione clinica, mostra che la depressione non trattata si associa a una costante attivazione della microglia. Attivazione microgliale che è ormai consuetudine definire come marker, segno distintivo, della neuroinfiammazione. E siccome la neuroinfiammazione, a sua volta, si associa a tutta una serie di malattie neurodegenerative, una sua presenza nel tempo nei pazienti depressi non curati, comporta un significato clinico non trascurabile.
«L’attivazione microgliale – scrivono gli autori – è più alta in pazienti con disturbo depressivo maggiore cronologicamente avanzato con lunghi periodi senza trattamento antidepressivo rispetto ai pazienti con disturbo depressivo maggiore con brevi periodi di trattamento antidepressivo, che è fortemente indicativo di una diversa fase della malattia. Coerentemente con questo, l’aumento annuale dell’attivazione microgliale non è più evidente quando viene somministrato un trattamento antidepressivo».
In buona sostanza, siccome l’infiammazione in generale è indice di qualche forma di sofferenza, ma pure di meccanismo biologico protettivo, non curare una depressione è un po’ come gettare della benzina sul fuoco della neuroinfiammazione. Viceversa, curare la depressione, corrisponderebbe a “spegnere”, o quantomeno a limitare i danni, prodotti da questo tipo di neuroinfiammazione.
La neuroinfiammazione del resto, come qualsiasi tipo di infiammazione presente nel corpo, se protratta, se addirittura cronica, porta ad alterazioni biochimiche ed anche funzionali. Ecco perché nel caso di questa ricerca del Campbell Family Mental Health Research Institute (CAMH, centro per le dipendenze e la salute mentale di Toronto, Canada) si commenta dicendo che la depressione maggiore non curata per più di dieci anni “cambia il cervello”. Come lo cambi, oltre all’attivazione della microglia, è una questione ancora aperta e da indagare. Si può già da ora iniziare a sostenere, tuttavia, che la depressione maggiore, in base a questi marker, può essere una malattia progressiva e, come tale, necessiti, per essere efficaci, di approcci e cure differenti negli anni.
Le ricerche di Jeffrey Meyer sulla neuroinfiammazione
L’autore senior di questo lavoro è Jeffrey Meyer (nella foto) che al CAMH è a capo del programma di imaging neurochimico nei disturbi dell’umore e dell’ansia, nonché professore ordinario di neurochimica della depressione maggiore all’università di Toronto, dipartimento di psichiatria.
«Una maggiore infiammazione nel cervello – commenta Jeffrey Meyer – è una risposta comune nelle malattie degenerative del cervello mentre progrediscono, come nel caso del morbo di Alzheimer e del morbo di Parkinson». In base ai risultati di questa ricerca di Meyer e collaboratori, ora l’attivazione microgliale, spesso considerata un marker di malattia neurodegenerativa e di neuroprogressione nel più ampio campo della malattia neuropsichiatrica, lo è anche nei riguardi della depressione maggiore.
A quanto se ne sappia, aggiungono gli autori, «questo è il primo studio a indagare un marker di attivazione microgliale in relazione alla durata della malattia e al trattamento in pazienti con disturbo depressivo maggiore». Va infine tenuta in considerazione la possibilità se questa sia la conseguenza o il terreno sui cui si sostiene la depressione maggiore non trattata. E, come sottolinea Hugh Perry, professore di neuropatologia sperimentale all’università di Southampton (Regno Unito), va valutato se tutto ciò sia «una risposta protettiva nel cervello piuttosto che l’evidenza di un fenotipo proinfiammatorio e dannoso per il tessuto». In ogni caso, come rilevato sia dagli autori che dai commentatori di questo lavoro, si riconferma il «crescente interesse per il ruolo dell’infiammazione, in particolare della microglia, nei disturbi psichiatrici».
Elaine Setiawan, Sophia Attwells, Alan A Wilson, Romina Mizrahi, Pablo M Rusjan, Laura Miler, Cynthia Xu, Sarita Sharma, Stephen Kish, Sylvain Houle, Jeffrey H Meyer
Association of translocator protein total distribution volume with duration of untreated major depressive disorder: a cross-sectional study. The Lancet Psychiatry (Available online 26 February 2018, In Press, Corrected Proof).
Aggiornamento (1 aprile 2019). Proprio al tema dei rapporti tra infiammazione e depressione, è dedicato il libro dell’immuno-psichiatra (si definisce proprio così) britannico Edward Bullmore La mente in fiamme. Un nuovo approccio alla depressione (Bollati Boringhieri). «Nei prossimi cinque, dieci o vent’anni assisteremo forse a un progresso accelerato nello sviluppo di un approccio radicalmente nuovo alla cura della depressione e di altri disturbi psichiatrici», sostiene Bullmore sulla base dei nuovi studi sulla psiconeruroimmunologia, un tempo derisa negli ambienti della ricerca biomedica. Avremo modo di tornare a parlare di questo libro e di questo tema.
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