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L’intelligenza umana e quella delle macchine


Neil Lawrence è professore di Deep Mind e di Machine Learning (apprendimento profondo e automatico) presso l’Università di Cambridge. Lavora su modelli di machine learning da oltre 20 anni. Di recente è tornato al mondo accademico dopo tre anni come direttore di Machine Learning presso Amazon. Il suo interesse principale è l’interazione del machine learning con il mondo fisico. 

Dovrebbe essere uno dei grandi sostenitori e paladini dell’intelligenza artificiale. Invece nel suo nuovo libro The Atomic Human: Understanding ourselves in the age of AI , argomenta quanto siano differenti non solo l’intelligenza umana, ma pure quella diffusa in natura, persino in una pianta o in un insetto, da quella che definiamo artificiale. E che dovremmo prima comprendere, come stanno sostenendo altri (ad esempio Max S. Bennett nel suo Breve storia dell’intelligenza. Dai primi organismi all’AI: le cinque svolte evolutive del cervello, Apogeo 2024) cosa si debba davvero intendere per intelligenza.

In una intervista sul numero della scorsa settimana di “New Scientist” Lawrence sostiene che solo comprendendo meglio la nostra intelligenza, e quanto sia incredibilmente diversa dalla sua controparte artificiale, possiamo trarre il massimo da entrambe.

Lawrence a questo punto preferisce parlare di “elaborazione delle informazioni” piuttosto che di un termine così vago ed esteso come “intelligenza”.

Ma soprattutto ci tiene a sottolineare la differenza tra noi umani e le macchine: «Il fatto che moriremo, il fatto che chi ci è vicino possa morire, che possiamo essere traditi da altri esseri umani, che possiamo perdere la nostra reputazione: sono queste cose che un computer non può sperimentare che ci rendono speciali. Sono queste cose che rendono unica l’intelligenza umana».

Alex Wilkins, The AI expert who says artificial general intelligence is nonsense, New Scientist, 16 September 2024.

AI Scientist, l’era dello scienziato IA


L’avanzata delle intelligenze artificiali procede inarrestabile, grazie al supporto delle competenze e dell’addestramento umani. Ma ormai le IA hanno fatto il passaggio successivo: sono in grado di autoaddestrarsi e di autoapprendere.

Tanto che non si rischia di passare per apocalittici nel sostenre che quanti non si terranno al passo con gli ormai rapidissimi sviluppi delle IA nel volgere di pochi anni saranno professionalmente defunti o comunque sopravvivranno a malapena.

Del resto, da che mondo è mondo, è invalso il concetto dell’allievo che ha superato il maestro. Nel caso dei maestri umani e allieve IA tale concetto non può risultare maggiormente vero.

Un altro concetto, diffusosi soprattutto nell’era della tecnologia digitale, è quello della “killer application”, cioè la nuova applicazione tecnologica che surclassa e addirittura elimina dal mercato e dall’uso le applicazioni divenute rapidamente obsolete.

Ne sono un esempio le foto digitali nei confronti delle vecchie macchine fotografiche con i relativi procedimenti di sviluppo e stampa, le piattaforme di film e serie tv nei confronti delle catene di distribuzione prima di videocassette e in seguito di dvd, e potremmo citare altre decine di esempi noti a tutti.

Così sta accadendo e accadrà con l’impiego delle IA, con la differenza che non andrà a toccare soltanto oggetti di largo consumo, ma bensì le nostre stesse vite, in ogni aspetto, a partire da quello professionale.

Perché il fenomeno della killer application dovrebbe riguardare solo i mezzi e gli strumenti tecnologici? Accadrà anche tra umani e IA. Queste ultime saranno la killer application professionale in molti settori fin qui gestiti esclusivamente da umani, compresi quello scientifico e biomedico.  

Sakana AI all’assalto della ricerca scientifica

Parte dal Paese del Sol Levante, più esattamente da Tokyo, il primo assalto all’esclusività del ricercatore e dello scienziato umani, da parte della Sakana AI, società di ricerca e sviluppo tutta composta da giovani ricercatori, fondata da Ren Ito, imprenditore, investitore ed ex diplomatico giapponese.

Sakana AI oltre che da Ren Ito è stata co-fondata da Cong Lu, ricercatore di apprendimento automatico presso l’Università della British Columbia a Vancouver, Canada. Come dice lo stesso Cong Lu presentandosi attraverso la sua pagina online: “Sono interessato a sviluppare agenti autonomi che siano sicuri, curiosi e in grado di apprendere in modo aperto, in particolare grazie ai recenti progressi nei modelli di fondazione insieme al deep reinforcement learning”.

Il Deep Reinforcement Learning (DRL, apprendimento con rinforzo profondo) è l’associazione di due applicazioni dell’intelligenza artificiale: le reti neurali profonde e l’apprendimento per rinforzo. Tale associazione combina i vantaggi delle reti neurali basate sui dati e il processo decisionale intelligente, innescando un cambiamento evolutivo delle IA che va oltre i limiti precedenti.

Proprio da tali presupposti è nato il “primo scienziato” in grado di operare autonomamente o quasi, per ora, grazie alle IA. Conviene perciò tenere d’occhio Ren Ito e la sua Sakana AI perché è molto probabile che ne sentiremo parlare a lungo.

Oltre a Ren Ito e Cong Lu, Sakana AI è costituita da ricercatori e sviluppatori fuoriusciti da Google, tanto che all’epoca della costituzione della nuovo progetto imprenditoriale, giusto un anno fa, la testata online Tech Startups titolò: “I ricercatori di intelligenza artificiale hanno lasciato Google per lanciare Sakana AI, una startup di intelligenza artificiale generativa che sviluppa modelli di intelligenza artificiale adattabili basati sull’intelligenza naturale”.

Infine cosa significa “Sakana”? Gli appassionati di cucina giapponese hanno già orecchiato questo termine. Deriva dalla parola giapponese “sa-ka-na” che sta per pesce e simboleggia il concetto di “un banco di pesci che si riunisce a formare un’entità coerente da semplici regole”.

Ecco svelato l’arcano per il quale, se andrete a visitare la pagina di Sakana AI, troverete immagini di pesci meccanici che volteggiano nell’aria in ambienti e atmosfere steampunk.

Chi è Ren Ito

Ren Ito è il co-fondatore e chief operating officer (COO) di Sakana AI, azienda di ricerca e sviluppo con sede a Tokyo impegnata a creare un nuovo tipo di modello di intelligenza artificiale basata sull’intelligenza naturale.

Prima di Sakana, Ren Ito ha guidato l’espansione globale di Mercari, la prima start-up unicorno (cioè una nuova azienda il cui valore è superiore a un miliardo di dollari non  quotata in borsa) del Giappone. In qualità di CEO di Mercari Europe nel 2018 Ren Ito ha anche orchestrato con successo la sua offerta pubblica iniziale (IPO) da 6 miliardi di dollari.

Antecedentemente al settore tecnologico, Ren Ito è stato impegnato per 15 anni come diplomatico giapponese lavorando all’alleanza per la sicurezza con gli Stati Uniti. Ha negoziato un accordo di libero scambio con l’UE e ha rappresentato il Giappone nel consiglio della World Bank. Ren Ito è Senior Fellow presso la New York University Law School ed è il membro più giovane della Commissione trilaterale.

Sull’appartenenza di Ren Ito alla Commissione trilaterale, ovviamente, non pochi complottologi avranno da ricamarci sopra a piacimento. Se poi associamo questo con lo sviluppo delle IA “autonome”, il piatto complottista è bello che servito.

Il “primo scienziato IA” creato da Sakana AI

E arriviamo alla notizia di questi giorni e di queste ultime settimane: la Sakana AI di Ren Ito ha creato il primo scienziato IA che prende appunto il nome di “AI Scientist”. Cosa significa? AI Scientist è progettato per produrre autonomamente ricerche scientifiche, dall’idea iniziale alla relazione finale.

A detta di Sakana AI, AI Scientist è in grado di elaborare idee innovative, creare metodologie, condurre test e scrivere un rapporto. Il tutto per un costo di circa 15 dollari a documento.

Non so se ci rendiamo conto: se il grosso del lavoro routinario o di sgrezzatura può essere svolto per una cifra simile da AI Scientist, e ritornando al concetto di killer application, che fine faranno tutti i galoppini di ricerca universitaria, o di enti privati, dediti a questo tipo di attività professionale?

Sempre a detta di Sakana, il sistema può anche autoperfezionarsi, imparando dai propri report, sviluppando e migliorando le idee attraverso più report. Anche se, è corretto dirlo, nella sua fase iniziale, il sistema presenta limiti e sfide, come ha precisato la stessa Sakana AI, riferendosi all’implementazione errata di idee e di altri parametri tecnici e statistici.

Ma siamo in una fase iniziale, e programmi come questo apprendono in fretta, sono in grado tanto di autocorreggersi quanto di essere eterocorretti.

AI ​​Scientist ad esempio ha mostrato un comportamento “saggio”: ha cercato di aumentare le proprie possibilità di generare con successo un report modificando il proprio codice e i propri parametri, all’interno di procedure volte a prendersi più tempo invece di procedere più rapidamente.

Come scrive il giornalista scientifico Davide Castelvecchi su Nature di questa settimana, la rivista a cui collabora abitualmente, riguardo AI Scientist: «Finora l’output non è sconvolgente e il sistema può solo fare ricerca nel campo dell’apprendimento automatico. In particolare, AI Scientist non ha ciò che la maggior parte degli scienziati considererebbe la parte cruciale del fare scienza: la capacità di fare lavoro di laboratorio . “C’è ancora molto lavoro da fare, dall’intelligenza artificiale che fa un’ipotesi all’implementazione di ciò da parte di un robot scienziato”, afferma Gerbrand Ceder, scienziato dei materiali presso il Lawrence Berkeley National Laboratory e l’Università della California, Berkeley. Tuttavia, Ceder aggiunge: “Se si guarda al futuro, non ho dubbi che questa è la direzione in cui andrà gran parte della scienza”».

Ed è proprio questo il punto da considerare, come dicevo all’inizio, cioè in buona sostanza e in estrema sintesi: non saranno le IA a rubarci il lavoro, compreso quello in campo scientifico, ma saremo noi a consegnarglielo su un piatto d’argento se anziché capire come impiegare le IA a nostro vantaggio ci faremo surclassare dalla velocità e dalle capacità di lavoro delle IA, 365 giorni l’anno h24, senza alcun limite o problematica tipici degli umani.

Davide Castelvecchi, Researchers built an ‘AI Scientist’ — what can it do? The large language model does everything from reading the literature to writing and reviewing its own papers, but it has a limited range of applicability so far. Nature News, 30 August 2024.

La reincarnazione IA: si inizia con Alan Turing


Possiamo avere dei dubbi se la reincarnazione, cioè la credenza che si possa rinascere più volte in corpi in più tempi e luoghi differenti, magari su altri pianeti, per fare esperienze che vadano ad esaurire il fardello del karma, sia davvero reale. Ma non possiamo nutrire alcun dubbio sul fatto che grazie alle IA sia ormai possibile attuare quella che da qui in poi, in forma sempre più complessa e articolata, è già stata definita la “reincarnazione digitale”.

Vale a dire nutrire le IA con quanto più materiale disponibile di una persona defunta (foto, video, registrazioni audio, interviste, scritti) per ricreare o rigenerare il defunto in forma digitale al punto tale di potere essere anche interattivo rispetto ai suoi interlocutori.

E chi se non quello che universalmente viene definito il “padre dell’intelligenza artificiale”, Alan Turing, poteva venire in mente tra i primi da reincarnare? Tra l’altro proprio per essere sottoposto da reincarnato digitale al suo test, erroneamente definito “test di Turing”, più correttamente seguendo la sua linea concettuale “imitation game”.

Se una macchina intelligente imita l’interazione umana, in sperimentazione “cieca” cioè senza sapere se abbiamo a che fare con una macchina o con un umano, non risultando distinguibile dalla conversazione umana, il test è superato. Facciamolo subito, hanno pensato: reincarniamo in IA Alan Turing e facciamogli delle domande!

Ebbene, 70 anni dopo la sua morte, si sta effettivamente lavorando a un progetto museale in forma di chatbot. La reincarnazione digitale di Alan Turing racconterà la sua storia e risponderà alle domande del pubblico.

Ma l’interrogativo cruciale a monte, siccome la biografia di Turing è complessa e sfaccettata, è se il medesimo sarebbe stato d’accordo riguardo a un progetto simile.

Ci sono non pochi aspetti etici e morali in progetti del genere. Qualcuno potrebbe sostenere che certe problematiche sussistono anche per le biografie “non autorizzate”. Ma non è esattamente la stessa cosa, tanto che  da certi fronti arrivano già proposte legislative che la reincarnazione digitale non sia attuabile senza l’espressa volontà, una liberatoria all’uso non solo della propria immagine ma pure di tutti i materiali disponibili, da parte dell’interessato ancora in vita.

E del resto esistono ormai da anni fondazioni, istituzioni e società che gestiscono l’immagine e le opere di personaggi celebri defunti. Ad esempio, l’americana Authentic Brands Group con giro d’affari di miliardi di dollari, che detiene i diritti di immagine pubblica di diverse celebrità defunte, ha consentito una ricreazione IA di Marilyn Monroe.

Ma tornato ad Alan Turing, il nipote Dermot Turing ha sostenuto il progetto, per cui la reincarnazione digitale del padre dell’intelligenza artificiale ha il via libera. Preparate le domande.

Bletchley Park to present ‘AI’ Alan Turing in interactive display

Pensare stanca (anche fisicamente)



“Ma che hai? Ti vedo distrutta”. “Sì, guarda, mi sono talmente arrovellata sui miei problemi che mi sento come se avessi caricato dei pesi per tutto il giorno…”. Capita, che ci si senta a questo modo, anche senza avere fatto nulla di particolarmente faticoso? Eccome se capita. Lo abbiamo sperimentato tutti. Ma è solo un fatto psicologico o c’è davvero qualche corrispondenza fisica? Secondo nuove ricerche sembra proprio che impegnarsi mentalmente per troppe ore lasci debilitati pure a livello fisico, con riscontri biologici specifici. Del resto abbiamo la controprova, proprio in questi giorni: impegnarci in una bella scarpinata sui monti o con delle belle nuotate al mare, pur necessitando di sforzo fisico, ci lascia più ritemprati che non una giornata sedentaria passata a pensare. E il motivo pare risiedere in quel composto biochimico chiamato glutammato che,  dopo ore e ore passate a pensare intensamente, si accumula nelle regioni della parte anteriore del cervello.

Il glutammato, un amminoacido presente anche in gran parte di ciò che mangiamo, in misura maggiore o minore, è un importante neurotrasmettitore del nostro cervello e del nostro sistema nervoso. Ma in eccesso può fare male. Tanto che vi sono alcuni farmaci per abbassarlo. Però non c’era mai stata la dimostrazione sperimentale che si potesse accumulare glutammato nel cervello eccedendo nel fare funzionare intensamente i neuroni. E sarebbe però interessante capire pure quale tipo di impegno cognitivo faccia accumulare glutammato e quindi farci sentire esausti. Dato che non tutto il pensare alla fin fine stanca.

Ma per tornare alla ricerca, guidata dallo psicologo e ricercatore Antonius Wiehler del francese Paris Brain Institute, essa si è focalizzata su una regione della parte anteriore e laterale del cervello chiamata corteccia prefrontale laterale, che molti lavori precedenti hanno dimostrato essere coinvolta in difficili compiti mentali.  Ebbene, in questa area cerebrale, attraverso una tecnica chiamata spettroscopia di risonanza magnetica (MRS) che misura in modo non invasivo i livelli di varie sostanze chimiche nei tessuti viventi, i ricercatori hanno potuto misurati i livelli di otto diverse sostanze chimiche del cervello, incluso il glutammato, che è la principale sostanza chimica di attivazione tra i neuroni.

In che modo? Sottoponendo 40 persone a svolgere attività di memoria sdraiate in uno scanner MRS. Queste includevano la visualizzazione di sequenze di numeri che appaiono su uno schermo e l’indicazione se il numero corrente era lo stesso di quello precedente. Ventisei dei partecipanti hanno svolto una versione più difficile di questo compito, mentre agli altri 14 è stata assegnata una versione più semplice. Dopo aver completato i compiti di memoria per 6 ore, quelli che facevano la versione più difficile avevano aumentato i livelli di glutammato nella loro corteccia prefrontale laterale rispetto all’inizio dell’esperimento. In coloro che svolgono il compito più semplice, i livelli sono rimasti più o meno gli stessi. In tutti i partecipanti, non c’è stato alcun aumento nelle altre sette sostanze chimiche del cervello che sono state misurate.

Come commenta la giornalista medico Chiara Wilson su “New Scientist”: «Tra i partecipanti che svolgono i compiti più difficili, il loro livello di glutammato aumentava con la dilatazione delle pupille nei loro occhi, un’altra ampia misura della fatica. Coloro che hanno svolto il compito più semplice hanno riferito di sentirsi stanchi, ma non hanno avuto aumento del glutammato o dilatazione della pupilla. I ricercatori hanno anche studiato se l’affaticamento mentale ha influenzato il processo decisionale. Lo hanno fatto intervallando il compito di memoria con diversi esercizi, come quello in cui le persone sceglievano tra ricevere una somma di denaro immediatamente o un’altra in seguito. Poiché i partecipanti al compito più difficile si sentivano più stanchi e avevano un accumulo di glutammato, sono passati a opzioni che davano immediatamente una piccola ricompensa. Questo potrebbe essere un esempio di come evitare compiti mentali difficili, come calcolare quale scelta fare, per prevenire l’accumulo di livelli di glutammato potenzialmente dannosi». “Un modo per ridurre l’accumulo di glutammato è attivare meno la corteccia prefrontale laterale durante le scelte”, afferma Wiehler. “Se lo fai, scegli più spesso l’opzione allettante”.

Vi ricorda qualcosa delle vostre giornate? Tipo quando, dopo molte ore di lavoro al computer, migrate sui social o su altri siti piacevoli o di acquisti online? Oppure le ore trascorse a vedere la tv o una di quelle serie che vi appassionano? State disattivando la vostra corteccia prefrontale laterale. Cioè state accumulando meno glutammato nel cervello. Sempreché non abbiate mangiato troppi manicaretti della cucina cinese.

Antonius Wiehler, Francesca Branzoli, Isaac Adanyeguh, Fanny Mochel, Mathias Pessiglione, “ A neuro-metabolic account of why daylong cognitive work alters the control of economic decisions”, Current Biology, August 11, 2022.

Stress e cuore: quando le emozioni possono essere letali


Peter Schwartz con il suo team clinico e di ricerca

Spesso la cronaca riferisce della morte improvvisa di una persona a seguito di un litigio, anche per cause banali, magari per la precedenza a un parcheggio, oppure in altre circostanze di stress acuto. L’esistenza di un’importante relazione tra stress, sistema nervoso autonomo e morte cardiaca improvvisa è nota da molto tempo. In questa ricerca, a cui ha preso parte anche Auxologico, sono state esaminate il gran numero di condizioni, agenti a livello individuale o di popolazione, che sono state causalmente associate alla morte cardiaca improvvisa e sono stati discussi i vari aspetti degli studi che esplorano tali associazioni. Queste condizioni includono fattori di stress esterni (terremoti, guerre) e interni (rabbia, paura, perdita di una persona cara) ed emozioni anche di segno opposto, come una gioia improvvisa (portafoglio ritrovato).

Cosa hanno in comune lo spavento e la gioia? Tutte le emozioni forti ed improvvise hanno lo stesso effetto: i nervi simpatici liberano noradrenalina nel cuore ed è questa sostanza naturale che può scatenare, in cuori predisposti, le aritmie fatali. La maggior parte delle situazioni conferma l’antica visione secondo cui gli aumenti dell’attività simpatica sono proaritmici, possono cioè innescare aritmie, mentre gli aumenti dell’attività vagale sono protettivi, questo perché il nervo vago libera nel cuore l’acetilcolina, sostanza che antagonizza l’effetto della noradrenalina.

Tuttavia, gli autori hanno anche  discusso  una condizione in cui il colpevole sembra essere l’eccesso di attività vagale. Si tratta delle “morti voodoo”, quelle in cui lo stregone del villaggio scacciava un uomo dalla tribù e questo, perduta ogni speranza di vita, si sdraiava accanto ad un albero e – nel giro di un giorno o due – moriva. Nella nostra società la situazione equivalente   è quella dei coniugi molto anziani il cui compagno/a muore: chi sopravvive spesso perde letteralmente la voglia di vivere e non è raro che queste persone muoiano nel giro di poche settimane dalla perdita del partner di una vita intera.

Di tutti questi aspetti tratta in modo dettagliato e approfondito l’articolo scientifico “Stress, the autonomic nervous system, and sudden death” appena pubblicato dalla rivista Autonomic Neuroscience: Basic and Clinical. Ne parliamo con il prof. Peter Schwartz, direttore del Centro per lo studio e la cura delle aritmie cardiache di origine genetica e del Laboratorio di genetica cardiovascolare dell’Auxologico, considerato uno dei massimi esperti mondiali di artimie di origine genetica.

Prof. Schwartz, cosa evidenza questa ricerca?

Questa ricerca fornisce la chiave per interpretare morti improvvise di persone all’apparenza sane, in condizioni di stress psicologico. Negli anni 80’ e 90’ abbiamo proprio dimostrato, a livello sperimentale, come l’improvviso aumento di attività simpatica possa indurre aritmie fatali e come, nelle stesse condizioni, l’aumento dell’attività vagale possa prevenirle. Abbiamo già trasferito queste conoscenze dal laboratorio ai nostri pazienti e oggi la modulazione del sistema nervoso autonomo per fini terapeutici è già entrata nella pratica clinica. Questa è stata una grande soddisfazione per il nostro gruppo, sempre attivo nella ricerca e nella clinica.  

Alla luce di tutto ciò, cosa andrebbe consigliato al paziente cardiopatico?

Chiaramente le brusche emozioni possono essere pericolose, e questo vale soprattutto per i pazienti con malattia ischemica o pregresso infarto. Le gioie improvvise non sono evitabili ma molto possiamo fare per evitare inutile emozioni negative. Anger kills (“La rabbia uccide”) è il titolo di un famoso libro dello psicologo americano Redford Williams che insegna a come controllare la rabbia…e salvarsi la vita. Molte delle rabbie che ognuno di sperimenta sono evitabili. Vale davvero il vecchio detto “ma lascia perdere…”.

La telepatia che fece scoprire i ritmi cerebrali e l’EEG


Si chiama “serendipity” (serendipità in italiano): cerchi una cosa e ne scopri un’altra. È quanto accadde al neurologo tedesco Hans Berger, alla ricerca della dimostrazione scientifica della telepatia, cioè della “trasmissione del pensiero da cervello a cervello”, che invece scoprì i ritmi cerebrali e inventò uno strumento fondamentale per la diagnostica medica e neurologica in particolare: l’elettroencefalografo.

Convinto che gli scambi elettrici tra i neuroni del cervello potessero trasmettersi anche all’esterno e addirittura veicolare informazioni, Berger si mise all’opera per inventare uno strumento che lo potesse dimostrare. E ci prese. Solo che invece delle informazioni telepatiche da cervello a cervello, Berger scopri le informazioni interne al cervello: quelle “onde cerebrali” che, registrate attraverso encefalogramma (EEG), forniscono elementi per comprendere in quale stato di funzionamento, normale, alterato o patologico, si trovi il cervello.

Sebbene sia trascorso quasi un secolo dalla sua scoperta e invenzione e, di conseguenza la macchina di Berger si sia evoluta, ad esempio dalle vecchie registrazioni a pennino su carta, a quelle digitali con tutte le ulteriori possibilità di analisi, il principio di base relativo alla registrazione dell’attività endoelettrica del cervello rimane immutato.

Ma com’è che Hans Berger inventò casualmente l’EEG partendo dal paranormale  per arrivare al normale? Prima di rispondere alla domanda specifica, lancio qualche riflessione culturale. Intanto sull’incarnazione, letteraria, cinematografica e ormai fantastica, dei nostri tempi: Frankenstein. Vale la pensa ricordare che questo non era il nome della creatura, infatti all’origine era “il mostro di Frankenstein”, cioè la creatura “creata” e richiamata alla vita dallo scienziato Victor Frankenstein. Una sorta di patchwork composto da varie parti di cadaveri, richiamato alla vita. Da cosa? Dall’elettricità. Da cui l’immagine classica, iconica, del Frankenstein cinematografico, con due bulloni sul collo: punti di contatto, come la batteria dell’automobile, attraverso cui infondere l’energia elettrica del corpo della creatura assemblata.

I rapporti tra elettricità e biologia umana sono rimasti per lungo tempo qualcosa di misterioso ed affascinante, dando corpo a quella idea fino ad un certo punto appartenente al dominio della filosofia naturale più che della scienza, di “energia vitale”. E possiamo ricordare anche gli esperimenti di elettrofisiologia del medico, fisico e fisiologo bolognese Luigi Galvani con le zampe delle rane, a cui “ridava vita” attraverso induzioni elettriche.

Vignetta satirica su Galvani mentre “resuscita” un cadavere grazie all’elettricità (una specie di zombi ante litteram)

Il fatto dunque che pure il cervello generasse, al suo interno, fenomeni elettrochimici, affascinò Hans Berger alla disperata ricerca di una dimostrazione scientifica di un fatto che lo riguardò da vicino. Si tratta di un episodio risalente addirittura alla sua adolescenza, quando aveva 19 anni: nel 1893 il giovane Hans cadde da cavallo durante l’addestramento alle manovre con l’esercito tedesco e fu quasi calpestato. Quello stesso giorno sua sorella, lontana, ebbe un brutto presentimento riguardo Hans, al punto di convincere il loro padre a mandare un telegramma per sapere se fosse tutto a posto.

Erano gli anni della infatuazione per lo spiritismo, della ricerca psichica, in seguito parapsicologia. La “Society for Psychical Research (SPR)” era stata fondata a Londra nel 1882 da tre membri del Trinity College di Cambridge e proprio uno dei fondatori, il poeta, classicista e filologo Frederic Myers, nonché pioniere delle iniziali teorie psicologiche sul funzionamento della mente umana, aveva creato il termine “telepatia”. Data la rispettabilità dell’associazione britannica per lo studio dei fenomeni medianici e, in genere, paranormali, allo scienziato Hans Berger parve di ravvisare in quell’episodio della sua giovinezza un caso di “telepatia spontanea” tra consanguinei.

Si trattava solo di dimostrare scientificamente la possibilità di trasmissione di pensieri ed emozioni da cervello a cervello. Aggiungo che tale idea di “trasferimento di informazioni da cervello a cervello” affascinò pure, per una limitata parte delle sue ricerche, quello che poi divenne premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia nel 1963, con cui ebbi modo di parlare personalmente riguardo a tali interessi: il neurofisiologo australiano John Carew Eccles.

Così Hans Berger, «decise di studiare psichiatria – racconta Laura Sanders, saggista americana di neuroscienze –  iniziando una ricerca per scoprire come i pensieri potessero viaggiare tra le persone. Inseguire una base scientifica per la telepatia era ovviamente un vicolo cieco. Ma nell’inseguire questo tentativo, Berger ha finito per dare un contributo fondamentale alla medicina e alla scienza moderne: ha inventato l’elettroencefalogramma, o EEG , un dispositivo in grado di leggere l’attività elettrica del cervello. La macchina di Berger, utilizzata per la prima volta con successo nel 1924, produsse una lettura di scarabocchi che rappresentavano l’elettricità creata da raccolte di cellule nervose infiammate nel cervello».

Berger, la cui vita purtroppo si concluse tragicamente con un suicidio (e sarebbe stato candidato al Nobel, se non fosse scomparso prematuramente) e secondo ricerche recenti in storia della medicina fu pure vicino alle posizioni naziste, scrisse anni dopo la sua scoperta che le onde cerebrali non potevano spiegare il transfert psichico che cercava. Le onde cerebrali non avrebbero potuto viaggiare abbastanza lontano da raggiungere sua sorella.

Ma, come ha scritto in una bellissima tesi Caitlin Shure, “gli echi di quell’idea si propagano nel mondo di oggi, in cui siamo tutti connessi istantaneamente e digitalmente. C’è un modo in cui queste false credenze, o fantasie, sulle onde cerebrali o sulla telepatia o sul trasferimento del pensiero hanno finito per creare quella realtà. La tecnologia ha già iniziato a collegare i cervelli in modalità wireless”. E, aggiunge ancora, Laura Sanders: “Non è la telepatia di Berger. Ma la tecnologia di oggi ci sta avvicinando a qualcosa di simile”. Insomma, a volte dalle fantasie, dai sogni e dalle illuminazioni mistiche o poetiche, sorgono delle intuizioni che, nell’arco del tempo, la scienza e la tecnologia traducono in soluzioni pratiche per migliorare la nostra vita.

Lawrence A. Zeidman, James Stone, Daniel Kondziella, “New Revelations About Hans Berger, Father of the Electroencephalogram (EEG), and His Ties to the Third Reich”, Journal of Child Neurology, June 10, 2013.

Caitlin Shure, “Brain Waves, A Cultural History: Oscillations of Neuroscience, Technology, Telepathy, and Transcendence”, Doctorate of Philosophy, Columbia University 2018.

Simone Rossi, Il cervello elettrico. Le sfide della neuromodulazione, Raffaello Cortina Editore, 2020.

Laura Sanders,”How Hans Berger’s quest for telepathy spurred modern brain science. Instead of finding long-range signals, he invented EEG”, Science News, July 6, 2021.

Vedi anche:

II ritorno della telepatia alla Duke University di Durham, tra topi