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Riso in bianco? Preferirei di no. Intervista a Cecilia Invitti, edocrinologa e diabetologa


Niente dieta in bianco, per carita! E basta pure con le rassicuranti insalatone di riso bianco che ci fanno sentire a posto con la coscienza? Potrebbe essere questa la conclusione di una metanalisi, pubblicata da British Medical Journal, condotta su quattro lavori clinici riguardanti un totale di 13.284 casi  accertati di diabete di tipo 2 in una casistica complessiva 352.384 partecipanti, con periodi di follow-up compresi tra 4 e 22 anni. Sun Q , Hu EA , Pan A, Malik V (Department of Nutrition, Harvard School of Public Health, Boston,  USA) autori della metanalisi concludono che “un consumo più elevato di riso bianco è associato ad un aumento significativo del rischio di diabete di tipo 2, soprattutto nelle popolazioni asiatiche (cinese e giapponese)”.

In considerazione del fatto che il consumo a persona di riso bianco (raffinato) è molto diverso in Asia rispetto ai Paesi occidentali (in Cina la media è di 4 porzioni al giorno, mentre in Europa la media è di 5 porzioni a settimana), lo studio ha compreso una larga fascia di popolazione asiatica e occidentale per un adeguato numero di anni. E le valutazioni conclusive indicano un rischio maggiorato del 10% per ogni dose giornaliera in più di riso bianco. Cioè a dire: se proprio dovete, consumatene poco, e non più volte al giorno.

Vale la pena ricordare che le prime coltivazioni “addomesticate” di riso, di cui quello bianco è il più consumato al mondo, risalgono a 8000-9000 anni fa da parte delle popolazioni della valle dello Yangtze, in Cina. Esistono più 140.000 varietà di riso ma, alla base, è possibile distinguere tra riso raffinato (bianco) e riso integrale: il primo è sottoposto a lavorazione per privarlo dalle parti tegumentali (pula o lolla). Il riso bianco è però “incriminato” da tempo come alimento con alto indice glicemico (IG), indice che sempre più viene associato ad un rischio maggiore di ammalarsi di diabete 2. E mettere in relazione cibo e malattia (o, al contrario, cibo e salute) è un orientamento sempre più praticato, tanto dai medici quanto da ognuno di noi nella vita quotidiana. 

Dal punto di vista del rapporto causa-effetto, dose-risposta, essendo una questione riguardante molteplici variabili nell’ambito dell’epidemiologia nutrizionale, i commentatori dell’analisi riso bianco-diabete2 preferiscono essere cauti parlando di correlazione molto significativa. Nel suo editoriale Bruce Neal, senior director di BMJ, dice che seppure i risultati dello studio siano interessanti, ne derivano poche implicazioni immediate per medici, pazienti, o servizi sanitari pubblici, non in grado di sostenere un’azione su larga scala. Inoltre, come da formula cautelare, “ulteriori ricerche sono necessarie per sviluppare e dimostrare l’ipotesi di ricerca”. Sarà. Ma intanto, nell’attesa dei tempi della scienza, dato che passare dal riso bianco a quello integrale non è poi sto’ gran sacrificio, meglio non rischiare.

E proviamo ad approfondire ancora un po’ la questione con Cecilia Invitti, endocrinologa, diabetologa e ricercatrice dell’Auxologico di Milano.

Fino a non molti anni fa i medici, in certi casi, suggerivano una “dieta in bianco” per il decorso di certe malattie: sembra che il consiglio non sia più così valido…

Sì, meglio il cibo integrale.  Il riso integrale ha una superficie più larga è meno scindibile in molecole più piccole di zuccheri, fa aumentare meno la glicemia postprandiale. Questo è importante nel diabetico. Inoltre, i cibi integrali sono una sorta di “probiotico” che modifica la flora intestinale in senso benefico, in termini di infiammazione indotta nell’organismo.

Nel caso del riso, o della pasta, è quindi indicato consumare solo e unicamente il tipo integrale?

E’ consigliabile in particolare nel soggetto con alterazioni della tolleranza glucidica e nei soggetti con alvo tendenzialmente stitico, ma non bisogna estremizzare, basta preferire i carboidrati integrali.

Perché l’indice glicemico sta assumendo sempre maggiore importanza nella prevenzione delle malattie metaboliche, e secondo alcuni non solo in queste?

Perché l’assunzione di cibi a basso indice glicemico porta ad una minor stimolazione della produzione di insulina che è un ormone anabolizzante, quindi nel diabetico preserva la beta cellula pancreatica verso l’esaurimento. Nel non diabetico riduce la secrezione di un ormone che può aumentare la lipogenesi (accumulo di grasso).

L’industria alimentare, raccogliendo una maggiore consapevolezza e richiesta pubblica orientata al rapporto cibo-salute, si sta gradualmente spostando verso la produzione di cibi che non siano dannosi e addirittura “favoriscano” la salute: cosa si sentirebbe di suggerire in questo senso?

Personalmente sono favorevole alla manipolazione genetica del cibo (per esempio aumentando l’amilosio degli amidi si fa diventare il cibo meno viscoso, più fermentabile e quindi con minor indice glicemico). Fino a quando non capiremo la causa dell’esplosione dell’obesità questo è un mezzo per fermarla che vale la pena di esplorare. Nella sperimentazione ci sono dimostarzioni che questo tipo di manipolazione porta a miglioramento della glicemia, nell’uomo ancora no, anche se alcuni lavori dimostrano che migliora la sensibilità all’insulina.

Riferimenti:

BMJ. 2012 Mar 15;344:e1454. doi: 10.1136/bmj.e1454.
White rice consumption and risk of type 2 diabetes: meta-analysis and systematic review.
Hu EA, Pan A, Malik V, Sun Q.
SourceDepartment of Nutrition, Harvard School of Public Health, Boston, MA 02115, USA.

Cibo e cervello: intervista a Filippo Ongaro


Nutrirci e curarci. Il binomio sta diventando sempre più evidente. Ciò che facciamo ogni giorno, ai pasti e alle colazioni, d’ora in poi non dovrà essere visto unicamente come introduzione di “carburante”, ma piuttosto come la principale occasione per  mantenere e magari accrescere lo stato di salute, oppure recuperarla se l’abbiamo perduta.

Il cibo come veleno oppure come medicina. La sapienza popolare l’ha sempre intuito e saputo. Ma oggi ne abbiamo le evidenze scientifiche. E la risposta arriva da quella nuova disciplina che si chiama “nutrigenomica”. In pratica come le sostanze biochimiche contenute negli alimenti entrano a fare parte delle nostre cellule e fanno esprimere i nostri geni. Nel bene o nel male. Se questo avviene, ed avviene, è semplice intuire come nell’arco di un’interva vita, da prima della nascita fino alla vecchiaia – attraverso 30-60 tonnellate di alimenti che ingeriamo in una vita media – sia possibile favorire l’insorgenza di malattie che non sono “semplicemente” l’obesità, ma pure patologie che hanno a che vedere con le alterazioni infiammatorie del nostro organismo.

Di tutto ciò si sta occupando da anni Filippo Ongaro, che ha scritto un libro chiaro ed efficace sulla nutrigenomica. Se lo avesse intitolato con il nome della nuova scienza della nutrizione, lo avrebbero letto ben pochi. Invece il volume ha un titolo altrettanto chiaro ed efficace: Mangia che ti passa. Uno sguardo rivoluzionario sul cibo per vivere più sani e più a lungo (Piemme).

Filippo Ongaro è considerato uno dei pionieri europei della medicina funzionale e anti-aging. Ha vissuto per molti anni all’estero, dove ha lavorato come medico degli astronauti presso l’Agenzia spaziale europea (Esa). Ha collaborato con la Nasa e l’Agenzia spaziale russa allo sviluppo di metodologie preventive e terapeutiche per contrastare l’invecchiamento accelerato a cui sono esposti gli astronauti in orbita. È vicepresidente dell’Associazione medici italiani anti-aging (Amia) e direttore sanitario dell’Istituto di medicina rigenerativa e anti-aging (Ismerian) di Treviso. Nel 2008 ha pubblicato Le 10 chiavi della salute (Salus Infirmorum).

Gli abbiamo rivolto alcune domande su cervello e alimentazione.

In che rapporto sono alimentazione e cervello?

Sono in un rapporto strettissimo. La ricerca ci suggerisce da tempo di abbandonare i vecchi concetti che separano mente e corpo. Il cervello è l’organo più importante e complesso del nostro corpo e necessita non solo di carburante ma della miscela corretta di nutrienti per funzionare al meglio.

Quali sono gli alimenti, sostanze dannose e quali quelle benefiche per il cervello?

In primo luogo è necessario ridurre il carico glicemico assumendo meno zuccheri e meno carboidrati raffinati. Sembra strano ma i muscoli e il cervello hanno bisogno di una glicemia il più possibile costante e vengono invece destabilizzati dai picchi alti così come da quelli bassi. Poi vanno assunte quantità sufficienti di acidi grassi omega 3 che sono un costituente fondamentale del sistema nervoso centrale. Aumentiamo quindi l’introito di pesce azzurro cercando il pesce pescato come gli sgombri, le sarde, le sardine.

Nel suo libro accenna al ruolo degli alimenti e dell’infiammazione nelle concause di malattie neurodegenrative come sclerosi multipla e Alzheimer, oppure di disturbi dell’umore come la depressione: quali sono gli alimenti che proteggono e quali quelli che danneggiano il sistema nervoso?

 L’infiammazione assieme a glicazione e stress ossidativo sono i 3 fenomeni fisiopatologici alla base della degenerazione e della maggior parte delle malattie croniche. Occorre quindi agire per lo meno su questi 3 fronti anche con il cibo. Le regole sommariamente dette sopra vanno in questa direzione. Poi esistono numerose sostanze come l’aminoacido triptofano che hanno effetti sull’umore e il sonno aumentando serotonina e melatonina. Per aumentare la quantità di triptofano che entra nel cervello servono i carboidrati ma anche qui scegliamo quelli integrali. Se invece si cerca la concentrazione in quantità non esagerate sono ovviamente utili caffè e tè, se poi si sceglie il tè verde esso è ricco di catechine anti-ossidanti che riduranno lo stress ossidativo anche a livello cerebrale

Quali sviluppi futuri vede nel cibo come farmaco, in particolare nella sfera del buon funzionamento  cerebrale-emotivo?

 Io credo e mi auguro che la nuova scienza della nutrizione continui a soprenderci con gli effetti curativi di molti alimenti. Quello che conta però è che questo sapere si trasformi rapidamente e da subito in protocolli di cura migliori. L’anello mancate è in questo caso è il medico che deve acquisire maggiori competenze in questo settore.