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Renato Casana, angiologo e chirurgo vascolare: “Infiammazione, citochine, trombosi. Ecco cosa abbiamo capito sui danni vascolari da Covid-19 e sulle possibili cure”


RenatoCasana_NeurobioblogCosa abbiamo imparato in questi mesi sull’infezione da Covid-19? Molte cose. A volte contraddittorie. Ma alcuni punti fermi condivisi a livello internazionale possiamo dire di averli stabiliti. Abbiamo capito come il virus possa colpire vari organi e apparati del nostro corpo, non soltanto a livello polmonare e delle vie respiratorie. Ma anche cuore, vasi sanguigni, reni, intestino e sistema nervoso. Abbiamo compreso come alla base si scateni una forte reazione immunitaria.

Questa condizione è stata tecnicamente definita “sindrome da rilascio di citochine” (cytokine release syndrome, Crs) e, in termini popolari, “tempesta di citochine”. Si tratta, in pratica,  di un forte aumento del livello di citochine pro-infiammatorie. Tale aumento del livello di citochine pro-infiammatorie si traduce in una risposta infiammatoria sistemica. La sindrome da rilascio di citochine è più comune nelle malattie legate al sistema immunitario, nella  sepsi da trapianto di organi, nelle terapie antitumorali con cellule Car-T (Chimeric Antigen Receptor T-cell) e nelle infezioni da virus.

In un lavoro scientifico cinese in uscita sull’ “International Journal of Antimicrobial Agents” si legge: «Il Sars-CoV-2 si lega alle cellule epiteliali alveolari, quindi il virus attiva il sistema immunitario innato e il sistema immunitario adattivo, provocando il rilascio di un gran numero di citochine, tra cui IL-6. Inoltre, a causa del ruolo di questi fattori pro-infiammatori, la permeabilità vascolare è aumentata, portando a un gran numero di fluidi e cellule del sangue negli alveoli, con conseguente dispnea e persino insufficienza respiratoria. Il primo rapporto di esame grossolano di un’autopsia di morte Covid-19 suggerisce che dopo l’incisione si può vedere l’aspetto bronzato di entrambi i polmoni e una grande quantità di trabocco liquido viscoso bianco-grigio».

Tale rilievo autoptico, anche se grossolano, rende ragione di quanto riferito da alcuni familiari di pazienti deceduti al proprio domicilio. Ricordo in particolare la drammatica intervista alla figlia di un paziente deceduto la quale riferì tra le lacrime: “Era come se mio padre stesse affogando. Ma noi non potevamo fare nulla per salvarlo. Se vedi una persona affogare, ti butti per salvarla. Ma in questo caso era come se mio padre affogasse davanti ai miei occhi e io non potevo fare nulla per salvarlo”.

Un passaggio importante del brano del lavoro cinese sopra citato è il seguente: “Il Sars-CoV-2 si lega alle cellule epiteliali alveolari”. L’altro aspetto è quello relativo all’endotelio,  in stretto rapporto con l’epitelio (il tessuto endoteliale è un tipo particolare di tessuto epiteliale).  L’endotelio è il tessuto costituito di cellule, dette appunto endoteliali, che funge da rivestimento interno delle pareti del cuore e dei vasi sanguigni e linfatici. Secondo le autopsie e gli studi che via via si stanno effettuando sui pazienti colpiti dall’infezione Covid, quest’ultima sembra avere un bersaglio nel tessuto endoteliale. Tanto da essere definita da alcuni una “endotelite”. Con tutte le conseguenze sopra accennate riguardo la tempesta di citochine, la superinfiammazione e l’attacco per combattere il virus che diventa auto-diretto, facendo sì che le cellule si suicidino nel tentativo di arrestare l’infezione.

Come riferisce la giornalista scientifica Brenda Goodman sulla testata medica “WebMD” di qualche giorno fa: “In tutto il mondo, i medici che si prendono cura dei pazienti Covid-19 stanno cercando di dare un senso alla stessa cosa. Quando prelevano sangue da pazienti Covid, si coagula nelle provette. Quando gli infermieri inseriscono cateteri per dialisi renale e per prelevare il sangue attraverso accesso venoso periferico (PIV), le provette si intasano rapidamente con grumi”.

L’aspetto vascolare e degli ormai tristemente famosi “coaguli” emerge sempre più spesso anche a livello di quanto ognuno di noi discute empiricamente col prossimo riguardo l’infezione da Covid-19. A questo punto, abbiamo perciò preferito chiarirci le idee con Renato Casana, responsabile del servizio di chirurgia vascolare e angiologia di Auxolologico Capitanio di Milano e direttore del laboratorio sperimentale di ricerche di chirurgia vascolare dell’Auxologico.

Dottor Casana, quali sono le principali severe manifestazioni cardiovascolari in corso di infezione da Covid-19?

Secondo i dati italiani raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) oltre alle numerose pubblicazioni emerse recentemente sull’infezione da Covid-19, le categorie di malati cronici in assoluto più a rischio di sviluppare forme gravi di infezione sono i pazienti anziani con preesistenti malattie cardiovascolari.

Questi pazienti attraverso diversi meccanismi patogenetici in grado di alterare il meccanismo della coagulazione (pro-trombotici) o creando un severa infiammazione endoteliale de vasi, vanno incontro ad un drammatico quadro clinico spesso fatale causato da: trombosi polmonare massiva, infarto del miocardio, scompenso cardiaco e ictus cerebrale.

Diversi studi clinici hanno recentemente evidenziato i motivi di questa predisposizione e potrebbero indicarci nuove modalità di intervento prima dell’identificazione di un vaccino protettivo nei confronti del virus.

Quali sono i principali meccanismi d’azione che provocano la trombosi e il danno endoteliale responsabili delle gravi manifestazioni cardiovascolari nei pazienti affetti da Covid-19? 

La difesa dell’organismo contro gli organismi estranei come il virus Sars-CoV-2 è mediata da una risposta immune che coinvolge proteine ormonali, chiamate citochine. Queste rappresentano un gruppo eterogeneo di glicoproteine solubili con la funzione di mediare e regolare le risposte immunologiche ed infiammatorie.

Tra questo gruppo eterogeneo di citochine l’Interleuchina (IL-6) è stata ritrovata in altissime concentrazioni nel sangue dei Pazienti affetti da Covid-19 per cui ha destato grande interesse nello spiegare alcune manifestazioni severe della malattia quali la trombosi massiva polmonare che è risultata spesso fatale per molti pazienti. L’IL-6 viene prodotta dalle  cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni giocando un importante ruolo nei processi ematologici e infiammatori.  Tra le varie sue funzioni è in grado di aumentare la concentrazione del fibrinogeno, del  fattore  attivante  il  plasminogeno,  di inibire l’aggregabilità piastrinica alterando la coagulazione del sangue in senso protrombotico. Gli effetti biologici di questa Interleuchina dipendono dalla sua interazione con dei recettori di membrana IL-6R, localizzati sulla superficie di linfociti T di cui è ricco l’endotelio. Pertanto alcuni studi sono rivolti ad utilizzare anticorpi monoclonali in grado di spiazzare il recettore della IL-6 e inibire così la sua attività contrastandone gli effetti sull’apparato cardiovascolare.

Ci sono attualmente farmaci che possono ridurre il danno vascolare causato dal virus SARS-CoV-2?

In seguito all’infezione virale questa citochina infiammatoria (IL-6) una volta prodotta, si lega al suo recettore (IL-6R), presente sulla superficie di varie cellule, ingaggiandole in questo modo in numerose azioni pro-infiammatorie della parete dei vasi e pro-coagulanti. Il risultato è quello che abbiamo visto come principale manifestazione della malattia nelle sue forme più severe quali: l’embolia polmonare massiva, l’infarto, l’ictus e tutte le manifestazioni vascolari oramai ben note.

Da qui la possibilità di sperimentare un farmaco che sia in grado di inibire il legame di questa citochina con il suo recettore utilizzando un anticorpo monoclonale comunemente utilizzato per il trattamento di malattie autoimmuni (tocilizumab) che è stato ingegnerizzato in laboratorio. In questo modo l’Interleuchina-6, con un meccanismo di “inibizione recettoriale” non è in grado di legarsi al recettore e quindi di attivare le cellule bersaglio ad esercitare la propria azione pro-infiammatoria e procoagulante.

Altri farmaci che hanno suscitato grande interesse in corso di infezione da covid-19 sono le eparine a basso peso molecolare impiegate a dosaggi diversificati per provare a ridurre l’aspetto pro-trombotico e proaterogeno che queste citochine generano causando trombosi e severe malattie vascolari.

Infine vi sono alcuni studi legati ai recettori ACE-2 (enzima 2 di conversione dell’angiotensina), particolarmente espresso sia dalle cellule dei polmoni che dalle cellule del tessuto cardiaco, attraverso il quale il nuovo coronavirus (Sars-CoV-2) sarebbe in grado di legarsi grazie a una sua proteina di superficie denominata “Spike”. Quindi nuovi studi sono indirizzati ad identificare eventuali molecole in grado di bloccare questo legame come possibile strategia terapeutica.

Cosa ci si aspetta in futuro dalla ricerca per combattere l’infezione da Covid-19? 

In attesa di farmaci antivirali specifici  diretti verso Sars-CoV-2 e nell’attesa di un vaccino protettivo specifico questi studi di ricerca avviati su vari farmaci impiegati nella sperimentazione clinica  potrebbero rappresentare una preziosa alternativa terapeutica. Ulteriori studi su larga scala faranno luce sui numerosi interrogativi ancora aperti su questa infezione virale.

In che modo l’Auxologico partecipa alla ricerca scientifica nella lotta all’infezione da Covid-19? 

Facendo fede alla missione del nostro Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) dotato di 24 laboratori di ricerca l’Auxologico si sta impegnando fattivamente attraverso la gestione di numerosi protocolli di ricerca inerenti l’infezione Covid-19. Attraverso il proprio comitato etico che si è riunito da remoto numerose volte in questi ultimi mesi ha valutato e promosso numerosi studi di ricerca nell’ambito delle manifestazioni cardiovascolari dell’infezione virale oltre che respiratorie, immunologiche e neurologiche.

Un altro aspetto importante nell’ambito della ricerca dell’Istituto è l’impiego di una piattaforma REDCap (Electronic Data Capture) che permette di progettare, costruire e mettere in opera, in tempi rapidi, database per raccolta dati mono o multicentrici nell’ambito dei vari studi.  La piattaforma permette inoltre gestire la qualità dei dati clinici, creare query per il monitoraggio dello studio ed esportare i dati raccolti nei formati utili per le elaborazioni statistiche.

Quindi l’importante lavoro svolto dall’Auxologico è pemettere un una vasta collaborazione tra la ricerca di base la ricerca clinica e la ricerca applicata al fine di ottenere importanti risultati applicabili nel breve medio futuro nella terapia contro l’infezione da Covid-19.

Chi Zhang, Zhao Wu, Ji-Wen Li, Hong Zhao, Gui-Qiang Wang, “The cytokine release syndrome (CRS) of severe COVID-19 and Interleukin-6 receptor (IL-6R) antagonist Tocilizumab may be the key to reduce the mortality”. 
International Journal of Antimicrobial Agents. Available online 29 March 2020.

Luca Annoni e il Covid-19: “Io medico, cardiologo, ho avuto molti momenti di paura, ma non mi sono arreso”


AnnoniLuca_NeurobioblogMedici che si ammalano di Covid-19. Ho scritto in un post precedente che quanto stiamo vivendo rimarrà nella storia della medicina anche per il grande numero di medici che nello svolgimento della professione ci hanno rimesso la vita e per tutti coloro che, ammalandosi, hanno raccontato in diretta cosa hanno passato, come sono stati curati, come ne sono usciti e quale lezione ne hanno tratto.

Lo ha raccontato qui Enzo Soresi. Ed ora è la volta del cardiologo interventista Luca Annoni che, tra l’altro, collabora da anni anche con Soresi. Luca Annoni, come dice anche in un suo video, “corre”. Corre nella vita. Nel lavoro. Nella professione. Ha intrapreso l’attività sportiva di “runner” alcuni anni fa, su stimolo della moglie, anche lei medico ospedaliero, e non ha più smesso.

Luca è persona di grandi qualità umane e professionali. Te lo trovi accanto come medico e ti senti già meglio. Alto, ben piazzato, sempre calmo, rassicurante, sorridente. A dispetto delle foto che lo mostrano sempre imbronciato. Luca, con la sua squadra di volontari, nutre pure una grande passione nel trasmettere le conoscenze relative alle tecniche di rianimazione cardiopolmonare e di defibrillazione (corsi Blsd, Basic life support defibrillation) alla gente comune, agli sportivi, ai ragazzi delle scuole.

Consapevole del fatto che apprendere queste tecniche equivalga a salvare la vita alla gente, anche giovani, quando se ne presenti la necessità. E più gente conosce le tecniche Blsd, più capacità e possibilità di intervento rapido ci sono. Casi in cui il confine tra la vita e la morte è questione di attimi. Luca Annoni è aiuto primario di cardiologia all’Auxologico San Luca di Milano. E lo si trova soprattutto in pronto soccorso e in Unità di terapia intensiva coronarica. Il fatto di vere contratto il Covid-19 lo ha fatto soffrire anche per non avere potuto continuare a curare i suoi pazienti ricoverati per la stessa ragione.  In compenso può dire di avere tagliato un nuovo traguardo. Con successo.

Dott. Annoni, come si è accorto di essersi infettato con Covid-19? Che sintomi ha avuto?

Mi sono accorto di essermi infettato perché una mattina, in ospedale, durante la riunione dell’unità di crisi per il Covid, ho cominciato a sentire dei brividi lungo la schiena, che poi hanno cominciato a diffondersi in tutto il corpo. Ho lasciato la riunione e mi sono precipitato a casa dove, misurata la temperatura, ho scoperto di avere 37,3, una lieve iperpiressia. Da notare che di solito i brividi mi vengono quando la mia temperatura corporea supera i 39. Eppure qui erano presenti. Non c’era alcun sintomo di accompagnamento, non tosse, respiravo bene, la saturazione era normale. Ho preferito comunque restare a casa, ed attendere l’evoluzione della malattia. Nei giorni successivi la febbre si è mantenuta sugli stessi valori, e l’unico sintomo comparso in più è stata una cefalea lieve ma persistente, non rispondente al paracetamolo, che peraltro non riusciva a far scendere la temperatura. Dopo circa una settimana la situazione clinica era invariata, ma non regrediva. Anzi una sera ho avuto una puntata febbrile a 38 e la mattina tale quadro persisteva.

Come si è regolato per la diagnosi di quanto le stava accadendo?

Mi sono recato presso il nostro pronto soccorso, dove sono stato sottoposto a tampone nasofaringeo e alla TC toracica. Entrambi hanno confermato la presenza di infezione da Covid con un modesto interessamento polmonare tipo polmonite interstiziale. Sono stato ricoverato e immediatamente trattato con idrossiclorochina e antivirali. I miei sintomi non sono variati di nulla, non ho avuto bisogno neanche di un supplemento di ossigeno, dato che sia la saturazione basale che quella durante il walking test erano assolutamente normali. Dopo tre giorni la febbre è scomparsa. E dopo altri tre sono stato dimesso al domicilio, e posto in quarantena.

Anche sua moglie è medico ospedaliero: come ha vissuto la sua condizione?

Dopo il mio ritorno al domicilio, nei confronti dei miei familiari abbiamo attivato subito un isolamento ferreo, ho occupato una stanza libera dell’appartamento, con bagno annesso, e le poche volte che ne uscivo indossavo mascherina e guanti. E’ stato difficile perchè ho consumato per molti giorni i pranzi da solo, e ho condotto una vita da reclusoall’interno della mia casa. Mia moglie, medico ospedaliero anche lei, ed anche lei positiva, ha vissuto questa condizione con compartecipazione, dato che si trovava nelle mie stesse condizioni. Abbiamo per fortuno potuto godere dell’aiuto dei figli, che hanno provveduto alla maggior parte dei rifornimenti.

In base alla sua esperienza cosa si sente di consigliare?

Il consiglio che posso dare sulla base della mia esperienza è quello di non sottovalutare anche sintomatologie lievi o sintomi non usuali per un virus influenzale (cefalea, congiuntivite, la comparsa di ageusia) e ricorrere il più precocemente possibile al proprio medico di base. Sopratutto ora che le terapie si sono evolute, è risultato evidente che i pazienti meno gravi possono essere curati a domicilio, con successo, evitando il passaggio nelle fasi più impegnative della malattia in cui è necessario ricorrere all’ospedale. Credo uno dei grossi goal cui puntare attualmente sia estendere il più possibile l’effettuazione dei tamponi e le cure domiciliari.

Un’altra considerazione che ho fatto, basandoci sui dati in letteraura ed anche sull’esperienza dei malati transitati presso in nostro ospedale, è che l’assenza di comorbidità sia uno dei fattori determinanti la prognosi più favorevole. Non avendo io alcuna patologia cronica, praticando regolarmente sport (maratona, ciclismo), non fumando ed alimentandomi in modo corretto, credo di aver contribuito in modo significativo al decorso favorevole della mia malattia. Per questo è assolutamente necessario che la popolazione recepisca l’importanza della prevenzione mediante Luca Annoni_Neurobioblogstili di vita corretti, e curando sia l’alimentazione che praticando con costanza un’attività fisica, anche blanda (bastano 30 minuti di cammino veloce al giorno).

L’ultimo dato che mi sento di ricordare è l’impegno psicologico che questa malattia comporta: da medico, soprattutto, ho avuto molti momenti di paura: paura dell’evoluzione della malattia, ben conscio che nelle prime fasi le cure erano praticamente sperimentali, sofferenza per il distacco dalle persone care, paura per gli esiti, qualora ce ne fossero stati. Non ho mai soggiaciuto a tutti quei momenti, facendomi forza per reagire, sapendo perfettamente che ogni cedimento alla depressione avrebbe portato anche ad un calo delle difese immunitarie, già impegnate contro il Covid.

Giuseppe Riva: “L’aiuto della rete e dei social nella pandemia da Coronavirus”


GiuseppeRIva_NeurobioblogCosa sarebbe accaduto se questa pandemia ci avesse colpiti quando non esistevano la rete, la posta elettronica, i social? Se non avessimo avuto la possibilità di scambiarci informazioni in tempo reale, possibili soluzioni ai problemi, possibili interventi terapeutici? Sarebbe stato tutto molto, ma molto peggio.

È vero che la rete, e in particolare i social, sono anche veicolo di informazioni fasulle, ingannevoli, fuorvianti, di fake news, ma sono contemporaneamente una straodinaria conquista umana in grado di venirci in soccorso in questo drammatico frangente storico. Possiamo lavorare a distanza. Possiamo dialogare e farci vedere a distanza. Possiamo fare consulti medici a distanza. Possiamo divertirci, leggere, vedere film senza limiti. Possiamo studiare e persino laurearci a distanza. Insomma, se usati nel modo corretto, Rete e social contribuiscono in modo determinante a farci superare l’attuale emergenza mondiale.

Ma come possiamo usare in modo sano e corretto rete e social, in questi momenti di ansia, angoscia e, a volte, persino isteria collettiva? Lo abbiamo chiesto a uno dei maggiori ricercatori mondiali in fatto di Rete, social, nuovi media e Realtà Virtuale: Giuseppe Riva, professore ordinario  di Psicologia generale e Psicologia della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano e responsabile del Laboratorio di tecnologia applicata alla neuropsicologia dell’Auxologico di Milano, presidente dell’International Association of CyberPsychology, Training, and Rehabilitation.

Prof. Riva, quale aiuto  e quali problematiche ci possono dare la rete e i social in questo periodo?

Il principale elemento che la quarantena da Coronavirus ha messo in crisi è il senso di comunità. Come ha spiegato da tempo la psicologia sociale, il concetto di comunità è strettamente legato a quello di luogo: un ambito spaziale idealmente e materialmente delimitato. In parole più semplici le comunità nascono e si sviluppano nei luoghi. E in effetti, come hanno dimostrato recentemente i coniugi Moser, con una scoperta che gli ha portato a vincere il premio Nobel per la Medicina nel 2014, la nostra mente è in grado di riconoscere intuitivamente la presenza di luoghi fisici. Nel cervello sono presenti infatti diversi neuroni che sono in grado di riconoscere immediatamente sia i confini che ci circondano (place cells e grid cells), sia la posizione di altre persone al loro interno (social place cells).

Non solo. La memoria autobiografica, che unifica le nostre diverse esperienze di vita dandogli un senso, utilizza proprio i luoghi per costruire una storia comune con gli altri membri della comunità. Nel momento in cui, per la quarantena,  la possibilità di frequentare i luoghi scompare gli effetti psicologici sono due. Da una parte la nostra memoria autobiografica non si rinnova e la sensazione è quella di passare tante giornate sempre uguali. Dall’altra parte si indebolisce il senso di essere parte della stessa comunità. Non basta infatti parlare quotidianamente con le persone a noi vicine per ricostruire il senso di comunità perduto. Per farlo bisogna riuscire a fare qualcosa insieme. E in questo la rete e i social aiutano molto. Dai flash mob, che consentono di sentirsi parte di un gruppo più ampio che ha lo stesso obiettivo – non arrendersi all’isolamento del coronavirus nel rispetto delle regole che garantiscono la non diffusione del virus – riempiendo di contenuti la nostra memoria autobiografica, alla costruzione di “comunità di pratiche digitali”, gruppi di persone che utilizzano la rete per raggiungere insieme un obiettivo comune.

Come andrebbero usati la rete e i social in questo periodo? 

Come racconto nel mio volume sui “Nativi Digitali” uno dei paradossi dei social media è che possono essere utilizzati in due modi completamente diversi. Attivamente, come strumento espressivo in grado di sostenere le relazioni e di facilitare l’attività comune. Oppure, passivamente per la ricerca di informazioni sulla cronaca o sulle altre persone presenti nella nostra rete. Come ha spiegato David Ginsberg, direttore della ricerca di Facebook in un lungo articolo disponibile qui gli effetti psicologici di queste due modalità di utilizzo dei social media sono molto diversi. Se l’uso attivo dei social, come strumento espressivo e relazionale, fa bene alle persone, l’utilizzo passivo genera ansia e depressione.

Questo perché le persone tendono principalmente a cercare online informazioni che confermino il proprio punto di vista, rimanendo bloccati su un’unica e parziale visione del mondo. La situazione attuale può anche potenziare gli aspetti negativi dell’uso passivo. Infatti, le emozioni di paura e insicurezza che il Coronavirus genera possono essere ulteriormente aumentate da una ricerca compulsiva di informazioni sulla situazione. E questo genera un effetto contagio. Attraverso la condivisione delle informazioni più allarmanti o dei rimedi più improbabili, il rischio è quello di generare una vera e propria cortina fumogena sociale spesso basata su fake news che oltre a far perdere un sacco di tempo – cercando le ultime notizie sul coronavirus riuscire a telelavorare diventa impossibile – può aumentare il senso di isolamento e generare depressione.

Per questo le strategie efficaci di utilizzo dei social sono due. Da una parte limitare la ricerca di informazioni sul Coronavirus a specifici momenti della giornata, per esempio prima di pranzo o dopo cena. E poi cercare di utilizzare i social per fare insieme qualcosa. Non è necessario che sia qualcosa di significativo. Basta anche cantare insieme sul balcone una canzone alle 12, per ritornare a sentirsi parte di una comunità. E lo stesso vale per il telelavoro. Riuscire non solo a vedersi sull’ennesima Skype, ma usare la connessione per pianificare insieme un’attività comune consente di trasferire ai luoghi digitali il senso di comunità che prima avevamo costruito nei luoghi fisici.

In quest’ottica, per fare qualcosa insieme, segnalo il mio video su TikTok: all’interno dell’iniziativa della Cattolica di spiegare in modo divertente e leggero il Coronavirus.

Giorgio Lambertenghi Delilier: “Il mio parere sul plasma da guariti nei malati Covid-19”


Neurobioblog_ Giorgio_LambertenghiCurare la sindrome da coronavirus. Tutti siamo nella spasmodica attesa che si trovi una cura valida. Un trattamento che salvi la vita alla gente. Nell’attesa che venga sviluppato un vaccino. Tra le molteplici proposte terapeutiche di cui di giorno in giorno, di ora in ora, si stanno inseguendo, in una mondiale corsa contro il tempo, c’è anche quella ricavata dal sangue dei pazienti guariti dall’infezione, il cosiddetto “plasma di convalescenza”. Di cosa si tratta?

La teoria che ne è alla base non è recente, anzi, risale a oltre 100 anni fa. «Si basa sul presupposto  secondo cui», spiega “The Scientist”, «un sopravvissuto ha sviluppato anticorpi nel corso della propria infezione, le donazioni di sangue a coloro che si sono recentemente ammalati darebbero un vantaggio al sistema immunitario dei riceventi, riducendo la gravità della malattia e aumentando la probabilità di sopravvivenza. Durante la pandemia di influenza spagnola del 1918, il tasso di mortalità è diminuito del 50% tra i pazienti che hanno ricevuto il trattamento da convalescente, secondo una meta-analisi delle cartelle cliniche disponibili in quel momento e pubblicata negli Annals of Internal Medicine nel 2006».

Teniamo però conto che 100 anni fa non avevano le possibilità terepeutiche di oggi. Non si  disponeva della rapidità di ricerca, dei mezzi tecnologici per sviluppare e per testare nuove terapie.  Dovevano sopperire con quello che c’era. E gli anticorpi dei guariti potevano essere una possibilità. Tuttavia l’impiego del plasma di convalescenza è anche oggi preso in considerazione, seppure in pazienti gravemente compromessi, in base a un protocollo di sperimentazione di emergenza.

Ma più che agli ammalati, secondo alcuni il plasma di convalescenza potrebbe essere utile per proteggere chi è sovraesposto al rischio di contagio, cioè a chi si prende cura dei malati di Covid-19. «I sostenitori del trattamento», riporta “The Scientist”, «hanno affermato che potrebbe essere molto utile per i medici e gli infermieri in prima linea, che devono affrontare esposizioni ripetute e la cui assenza dal lavoro influirebbe notevolmente sulla salute pubblica, oltre a coloro che lavorano nelle case di cura, prendendosi cura delle persone che sono più a rischio di sperimentare complicazioni letali dall’infezione».

Abbiamo chiesto di chiarirci  le ieee a un grande medico e ricercatore che si è occupato a lungo di problematiche ematologiche e ancora fornisce il suo prezioso contributo alla medicina interna: Giorgio Lambertenghi Deliliers, direttore dell’Unità operativa di Medicina generale dell’Auxologico Capitanio di Milano e, tra i moltepli incarici ospedalieri, scientifici e istituzionali rivestiti, già direttore del Dipartimento di ematologia e oncologia della FondazioneI Irccs Ca’ Granda – Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e direttore del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Milano.

Prof. Lambertenghi il cosidetto “plasma dei guariti” può essere una opzione terapeutica, se non per tutti, per certi malati Covid-19? 

La somministrazione di plasma provenienti da donatori sani è raccomandata per i pazienti in condizioni critiche (shock settico, ipovolemico, cardiogeno ecc.), e quindi anche per i soggetti Covid-19 con gravi complicanze soprattutto cardiache.

Diverso è il razionale dell’uso del plasma proveniente da pazienti Covid-19 convalescenti e guariti, a scopo profilattico o terapeutico. L’ipotesi (ma è solo una ipotesi) è che questi concentrati siano ricchi di anticorpi specifici utili per eliminare il virus. La letteratura riferisce infatti una “possibile” efficacia dei plasmi di soggetti convalescenti in altre endemie del passato, come quella più recente dell’Ebola. Non si può peraltro escludere che questi risultati siano legati solo alla ricostituzione del volume circolante e non alla reazione anticorpale.

In conclusione la somministrazione di plasma di soggetti convalescenti a pazienti con malattia Covid-19 attiva non è da rifiutare a priori, ma deve essere praticata nell’ambito di una sperimentazione controllata (in accordo con i centri trasfusionali), per stabilire la dose da somministrare e soprattutto testare oltre la sua efficacia clinica anche soprattutto la sua sicurezza. Bisogna poi dimostrare con certezza che questi concentrati contengano una dose terapeutica di anticorpi specifici anti-Covid-19!

La terza considerazione è in relazione alla possibilità che nei pazienti Covid-19 (per definizione immunodepressi) la temperatura elevata e altre complicanze, soprattutto polmonari, siano sostenute da microrganismi concomitanti. Pertanto, in base all’esperienza ormai acquisita in altre condizioni di grave immunodepressione, sarebbe utile considerare l’infusione di immunoglobuline ad alte dosi, facilmente reperibili nel prontuario terapeutico. Il problema è il loro costo elevato, ma questo non deve diventare un problema quando si tratta di salvare una vita. Mi sono permesso di ricordare questa alternativa terapeutica anche sulla base della mia esperienza, positiva, nei pazienti leucemici con gravi infezioni, soprattutto polmonari.

 

 

Neurocovid: le manifestazioni neurologiche del Covid-19


VincenzoSilani_NEUROBIOBLOGL’infezione da Covid può dare anche manifestazioni neurologiche? Per Vincenzo Silani, professore ordinario di neurologia e direttore della scuola di specializzazione in neurologia dell’Università di Milano, direttore dell’Unità Operativa di Neurologia e Stroke Unit dell’Auxologico di Milano, non ci sono dubbi. Ciò che molti medici hanno già constatato sul campo è di fatto un interessamento neurologico del sistema nervoso centrale e periferico da parte dell’infezione da Covid. Tra le manifestazioni rilevate ci sono ad esempio alterazioni del gusto, dell’olfatto e della coscienza. In alcuni casi anche manifestazioni psicologiche e psichiatriche. C’è da chiedersi, secondo i neurologi, se l’infezione da Covid possa, in taluni casi, dare anche conseguenze neurologiche successive alla risoluzione della fase acuta dell’infezione. Emerge sempre di più il fatto che l’infezione da Covid non colpisca unicamente le vie respiratorie, di cui il polmone è il bersaglio primario e di più urgente e vitale risoluzione, ma, potenzialmente, l’organismo nel suo complesso.

La neuroinvasione del Covid 

Vincenzo Silani è tra i  sette superspecialisti nazionali interpellati per stilare un documento denominato “SIN – Covid 19” divulgato in queste ore dalla Società Italiana di Neurologia e scaricabile dal sito della Sin. Documento che elenca i vari passaggi, sulla base delle evidenze scientifiche e cliniche, che vanno dalle caratteristiche peculiari di questo virus, alle vie di ingresso del virus nel nostro organismo – una sorta di “Alien” che cerca di colonizzare e compromettere i vari distretti del nostro corpo. Ad esempio, la via ematogena, del circolo sanguigno, che potrebbe determinarne quello che gli stessi superspecialisti definiscono una “neuroinvasione” da parte del Covid e la conseguente variegata sintomatologia che depone a favore di un possibile coinvolgimeno delle vie nervose periferiche e centrali. 

Se da una parte il Covid è un virus di tipo respiratorio, tuttavia differisce dai comuni virus stagionali che provocano l’influenza: «Oltre ai comuni virus che infettano milioni di persone annualmente, causando patologie a prognosi benigna, ciclicamente emergono infezioni virali a carattere epidemico o pandemico quale conseguenza di trasmissione zoonotica (cioè attraverso animali). Tali infezioni coinvolgono virus Rna quali i coronavirus umani e l’influenza A, agenti che possono colpire organi e sistemi extra-respiratori, incluso il sistema nervoso».

Naso e intestino come vie di accesso Covid 

Ma quali sono le vie di ingresso del virus? Il fatto che ad esempio venga inalato dal naso o dalla bocca, non potrebbe portare direttamente dal naso al cervello, oppure transitare dall’intestino? Dalla letteratura scientifica si deduce che «l’interessamento del sistema nervoso centrale, periferico e muscolare è presente nei pazienti Covid-19 ed una attenta interpretazione dei medesimi auspicabile. In particolare, l’iposmia (diminuzione o assenza dell’olfatto) riportata suggerisce una via di infezione nasale con accesso diretto al sistema nervoso centrale. Questa via potrebbe essere alternativa alla via respiratoria e a quella intestinale e teoricamente potrebbe manifestarsi, come in alcuni casi di Sars-Cov, con sintomatologia prevalentemente neurologica».

Il ruolo del neurologo nella sindrome da Covid

Alla luce di tutto ciò  è fin troppo evidente il ruolo del neurologo nella gestione di ciò che forse, almeno in taluni casi, sarebbe più opportuno definire “sindrome da Covid-19” anziché un singolo evento patologico. Come sottolinea il documento congiunto della Sin: «Infine, poiché circa il 10% dei pazienti ospedalizzati necessita di assistenza in reparti di terapia intensiva, il monitoraggio neurologico deve essere volto anche a verificare l’insorgenza di problematiche neuro-periferiche a tipo “criticall illness neuro-myopathy”, ma anche quella di eventuali complicanze a distanza, post infettiva a tipo sindrome di Guillain-Barré. Ulteriore ruolo del neurologo è quello di collaborare con gli infettivologi nell’eventuale scelta delle terapie, in base alle importanti interazioni farmacologiche, quali ad esempio quelle tra anti-virali ed antiepilettici o anticoagulanti orali».

Il commento finale di Vincenzo Silani 

«Il documento Sin sancisce la consapevolezza della neurologia italiana per un aspetto sottostimato della infezione Covid-19, cioè il sistema nervoso centrale e periferico, compreso il muscolo scheletrico, con una rilevanza clinica potenzialmente sottostimata sia nella conduzione dell’acuto che nelle sequele successive alla infezione», ci dice Vincenzo Silani, coautore del documento, con mandato ufficiale della Sin (Società Italiana di Neurologia) ad una rapida consultazione in tempo reale, ci tiene a sottolineare per correttezza professionale e scientifica, del gruppo “Neurocovid-19” e in quanto segretario del Collegio dei professori ordinari di neurologia impegnati nel supporto della neurologia italiana alla lotta contro l’infezione da Covid-19.

Sin Società Italiana di Neurologia