Cosa sarebbe accaduto se questa pandemia ci avesse colpiti quando non esistevano la rete, la posta elettronica, i social? Se non avessimo avuto la possibilità di scambiarci informazioni in tempo reale, possibili soluzioni ai problemi, possibili interventi terapeutici? Sarebbe stato tutto molto, ma molto peggio.
È vero che la rete, e in particolare i social, sono anche veicolo di informazioni fasulle, ingannevoli, fuorvianti, di fake news, ma sono contemporaneamente una straodinaria conquista umana in grado di venirci in soccorso in questo drammatico frangente storico. Possiamo lavorare a distanza. Possiamo dialogare e farci vedere a distanza. Possiamo fare consulti medici a distanza. Possiamo divertirci, leggere, vedere film senza limiti. Possiamo studiare e persino laurearci a distanza. Insomma, se usati nel modo corretto, Rete e social contribuiscono in modo determinante a farci superare l’attuale emergenza mondiale.
Ma come possiamo usare in modo sano e corretto rete e social, in questi momenti di ansia, angoscia e, a volte, persino isteria collettiva? Lo abbiamo chiesto a uno dei maggiori ricercatori mondiali in fatto di Rete, social, nuovi media e Realtà Virtuale: Giuseppe Riva, professore ordinario di Psicologia generale e Psicologia della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano e responsabile del Laboratorio di tecnologia applicata alla neuropsicologia dell’Auxologico di Milano, presidente dell’International Association of CyberPsychology, Training, and Rehabilitation.
Prof. Riva, quale aiuto e quali problematiche ci possono dare la rete e i social in questo periodo?
Il principale elemento che la quarantena da Coronavirus ha messo in crisi è il senso di comunità. Come ha spiegato da tempo la psicologia sociale, il concetto di comunità è strettamente legato a quello di luogo: un ambito spaziale idealmente e materialmente delimitato. In parole più semplici le comunità nascono e si sviluppano nei luoghi. E in effetti, come hanno dimostrato recentemente i coniugi Moser, con una scoperta che gli ha portato a vincere il premio Nobel per la Medicina nel 2014, la nostra mente è in grado di riconoscere intuitivamente la presenza di luoghi fisici. Nel cervello sono presenti infatti diversi neuroni che sono in grado di riconoscere immediatamente sia i confini che ci circondano (place cells e grid cells), sia la posizione di altre persone al loro interno (social place cells).
Non solo. La memoria autobiografica, che unifica le nostre diverse esperienze di vita dandogli un senso, utilizza proprio i luoghi per costruire una storia comune con gli altri membri della comunità. Nel momento in cui, per la quarantena, la possibilità di frequentare i luoghi scompare gli effetti psicologici sono due. Da una parte la nostra memoria autobiografica non si rinnova e la sensazione è quella di passare tante giornate sempre uguali. Dall’altra parte si indebolisce il senso di essere parte della stessa comunità. Non basta infatti parlare quotidianamente con le persone a noi vicine per ricostruire il senso di comunità perduto. Per farlo bisogna riuscire a fare qualcosa insieme. E in questo la rete e i social aiutano molto. Dai flash mob, che consentono di sentirsi parte di un gruppo più ampio che ha lo stesso obiettivo – non arrendersi all’isolamento del coronavirus nel rispetto delle regole che garantiscono la non diffusione del virus – riempiendo di contenuti la nostra memoria autobiografica, alla costruzione di “comunità di pratiche digitali”, gruppi di persone che utilizzano la rete per raggiungere insieme un obiettivo comune.
Come andrebbero usati la rete e i social in questo periodo?
Come racconto nel mio volume sui “Nativi Digitali” uno dei paradossi dei social media è che possono essere utilizzati in due modi completamente diversi. Attivamente, come strumento espressivo in grado di sostenere le relazioni e di facilitare l’attività comune. Oppure, passivamente per la ricerca di informazioni sulla cronaca o sulle altre persone presenti nella nostra rete. Come ha spiegato David Ginsberg, direttore della ricerca di Facebook in un lungo articolo disponibile qui gli effetti psicologici di queste due modalità di utilizzo dei social media sono molto diversi. Se l’uso attivo dei social, come strumento espressivo e relazionale, fa bene alle persone, l’utilizzo passivo genera ansia e depressione.
Questo perché le persone tendono principalmente a cercare online informazioni che confermino il proprio punto di vista, rimanendo bloccati su un’unica e parziale visione del mondo. La situazione attuale può anche potenziare gli aspetti negativi dell’uso passivo. Infatti, le emozioni di paura e insicurezza che il Coronavirus genera possono essere ulteriormente aumentate da una ricerca compulsiva di informazioni sulla situazione. E questo genera un effetto contagio. Attraverso la condivisione delle informazioni più allarmanti o dei rimedi più improbabili, il rischio è quello di generare una vera e propria cortina fumogena sociale spesso basata su fake news che oltre a far perdere un sacco di tempo – cercando le ultime notizie sul coronavirus riuscire a telelavorare diventa impossibile – può aumentare il senso di isolamento e generare depressione.
Per questo le strategie efficaci di utilizzo dei social sono due. Da una parte limitare la ricerca di informazioni sul Coronavirus a specifici momenti della giornata, per esempio prima di pranzo o dopo cena. E poi cercare di utilizzare i social per fare insieme qualcosa. Non è necessario che sia qualcosa di significativo. Basta anche cantare insieme sul balcone una canzone alle 12, per ritornare a sentirsi parte di una comunità. E lo stesso vale per il telelavoro. Riuscire non solo a vedersi sull’ennesima Skype, ma usare la connessione per pianificare insieme un’attività comune consente di trasferire ai luoghi digitali il senso di comunità che prima avevamo costruito nei luoghi fisici.
In quest’ottica, per fare qualcosa insieme, segnalo il mio video su TikTok: all’interno dell’iniziativa della Cattolica di spiegare in modo divertente e leggero il Coronavirus.
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