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Covid e infiammazione: il ruolo delle terapie con immunomodulatori


Pierluigi Meroni

Sin dall’inizio della pandemia è emerso che i danni maggiori in corso di Covid-19 erano da ascriversi all’esagerata risposta infiammatoria dell’organismo. Qualcosa di simile a quanto succede nelle malattie autoimmuni in cui il sistema immune innesca una risposta contro il proprio organismo e determina un danno dei tessuti legato all’infiammazione. Inoltre è stato visto che pazienti con malattie autoimmuni ed in terapia con farmaci immunosoppressori non manifestavano una malattia più grave  ed anzi, in alcuni casi presentavano forme più lievi. Da queste osservazioni è nata l’idea di utilizzare questi stessi farmaci anche in corso di Covid-19. L’Alleanza Europea delle Associazioni di Reumatologia, EULAR, è l’organizzazione che rappresenta le persone affette da malattie reumatologiche (incluse quelle autoimmuni), gli operatori sanitari in reumatologia e le società scientifiche di reumatologia di tutte le nazioni europee.

«L’EULAR ha radunato un gruppo di esperti europei, tra i quali il sottoscritto», spiega il prof. Pierluigi Meroni, direttore del Laboratorio sperimentale ricerche immunologia clinica e reumatologia dell’Auxologico «ed ha chiesto loro di analizzare tutti i dati riguardanti l’uso di farmaci anti-infiammatori ed immunosoppressori disponibili nelle pubblicazioni scientifiche relative a pazienti con Covid-19.  Il gruppo era costituito principalmente da reumatologi con larga esperienza nell’utilizzo di questi farmaci e da epidemiologi e statistici che hanno contribuito ad analizzare i dati raccolti. L’obiettivo è stato quello di fare il punto obiettivo su quali di questi farmaci si erano dimostrati efficaci e quali no sulla base di dati oggettivi e controllabili. Inoltre è stato chiesto al gruppo di esprimere delle linee guida e suggerimenti per l’utilizzo di questi farmaci nella pratica clinica. Il gruppo ha  pubblicato una prima relazione  sulla rivista  “Annals of the Rheumatic Diseases” (dell’importante Gruppo British Medical Journal) all’inizio del 2021 ed un successivo aggiornamento a settembre». 

In estrema sintesi, si è dimostrata l’inefficacia dell’utilizzo di antimalarici (Plaquenil) inizialmente creduti utili sulla base di modelli sperimentali non confermati dagli studi clinici. Inoltre si è visto che alcuni farmaci biologici (ad esempio gli inibitori del TNF) non sono dannosi e possono essere utilizzati con cautela nei pazienti reumatici in remissione con questi farmaci. Il dato più importante è tuttavia risultato quello della dimostrazione di come l’utilizzo di biologici che bloccano l’interleuchina 6 (uno dei principali mediatori dell’infiammazione) e del cortisone abbia un effetto positivo sulle forme moderate/severe di Covid-19 indipendentemente dalla presenza di una malattia reumatica autoimmune associata. Lo stesso è stato riscontrato per l’uso di inibitori della Janus chinasi (baricitinib e tofacitinib), farmaci da poco disponibili per il trattamento di artriti infiammatorie.  Viceversa, gli anticorpi monoclonali anti-Sars-CoV-2 e il plasma convalescente possono trovare applicazione nelle prime fasi della malattia e in sottogruppi selezionati di pazienti immunosoppressi. In conclusione, l’esperienza acquisita dai reumatologi/Immunologi clinici nel campo delle malattie autoimmuni si è rivelata di aiuto per disporre di farmaci che non hanno un’azione diretta  sul virus Sars-CoV2 ma che sono in grado di spegnere il processo infiammatorio conseguente al virus e dannoso per il nostro organismo.

2021 update of the EULAR points to consider on the use of immunomodulatory therapies in COVID-19

Annals of the Rheumatic Diseases 2022 Jan;81(1):34-40.

Enzo Soresi: “Per me medico da 55 anni il Covid è una malattia come le altre”


Ospedale di Niguarda, 1968, influenza di Hong Kong, una pandemia che fece 22.000 morti ! In quegli anni ero assistente in Anatomia patologica e la prevalenza delle autopsie evidenziava come causa di morte le polmoniti batteriche. Il virus influenzale infatti induceva una severa caduta delle difese immunitarie ed i pazienti che morivano erano i più compromessi perché diabetici , cardiopatici, defedati o vecchi (allora la vecchiaia iniziava a 60 anni).  Al riscontro autoptico  i  polmoni si trovavano infarciti di sangue ed i lobi polmonari interessati dalla polmonite  potevano anche essere più di uno, in quel caso l’inadeguatezza della medicina era un uso degli antibiotici improprio cioè inadeguato, insufficiente.  Ricordo che nel 1970, mio padre, 67enne, colpito da infarto morì  dopo una quindicina di giorni  di polmonite fra lo sconcerto dei cardiologi .

Nel protocollo terapeutico standard  dell’unità coronarica, la terapia antibiotica prevedeva amoxacillina un grammo endovena due volte al giorno quindi totalmente insufficiente per una polmonite lobare franca insorta in un paziente con infarto in atto. Quando  negli anni ’80  lavoravo   nel reparto di pneumologia il protocollo per le polmoniti prevedeva 2 grammi tre volte al giorno di cefalosporina + gentamicina 80 mgr per due, il tutto per via endovenosa, difficilmente con questa terapia perdevamo malati anche  se compromessi per altre malattie. Oggi le broncopolmoniti vengono in prevalenza trattate al domicilio dal medico di famiglia in genere con due antibiotici e la quota di pazienti che deve essere ricoverata per inadeguata terapia è minima e comunque quando il paziente viene ricoverato in ospedale il più delle volte guarisce  con una terapia  antibiotica di secondo livello.

Come medico con oltre 55 anni alle spalle di professione come specialista in pneumologia ed oncologia clinica  mi pare di rivivere con il Covid 19 la  stessa inadeguatezza terapeutica di quegli anni. Ciò che scatena   infatti questo virus è una polmonite infiammatoria ed una microembolia polmonare  sostenuta in prevalenza da una aggregazione delle piastrine. I due presidi terapeutici di conseguenza sono i farmaci  antiaggreganti ed il cortisone. Quando nel marzo scorso mi sono ammalato di questa forma virale , dopo 9 giorni di febbre a 39 gradi, avendo iniziato al domicilio la terapia con calcieparina sottocute a scopo antiaggregante  mi sono  ricoverato in ospedale e qui  dopo la prima endovenosa di 60 mgr di prednisone è avvenuto lo sfebbrameno ed in pochi giorni con un dosaggio di cortisone  progressivamente ridotto sono guarito senza  alcuna conseguenza, ho proseguito quindi il cortisone al domicilio per complessivi 15 giorni a dosi scalari fino a sospenderlo. A 7 mesi di distanza dall’inizio della malattia mi ritrovo con il test sierologico che conferma la elevata presenza di immunoglobuline. Quindi quale è la logica deduzione?

Primo, che di fronte a una forma virale di questo tipo  con febbre elevata è opportuno iniziare tempestivamente  enoxocalcieparina  sottocute alla dose di 1mgr per kgr  associata a prednisone  25 mgr al giorno da aumentare progressivamente anche a 100 mgr al giorno se non si ottiene lo sfebbramento.

Quali le controindicazioni? Le solite ben note i clinici e cioè diabete e gastropatie ben controllabili con adeguate terapie e chiaramente nessuna terapia antiaggregante se il paziente è già in terapia anticoagulante per problemi cardiovascolari.   

Con questo approccio si  eviterebbero la prevalenza dei ricoveri ospedalieri lasciando di conseguenza il posto ai pazienti più critici come avviene in  tutte le malattie infettive. In sostanza a distanza di circa 70anni stiamo commettendo gli stessi errori commessi con la pandemia influenzale di Hong Kong e cioè un inadeguato uso dei farmaci ed in particolare del cortisone. Per inciso di fronte ad una sindrome mediastinica sostenuta da un tumore polmonare con metastasi ai linfonodi , al fine di fare respirare il paziente  si arriva a dosaggi cortisonici molto più elevati  senza esitazioni.

I pazienti da me curati al domicilio con questo approccio  terapeutico sono ormai un certo numero ed in un solo caso ho dovuto ricorrere al ricovero del paziente  per un deficit di ossigeno ed anche in questo caso è stato sufficiente una degenza  in reparto con  una adeguata  assistenza senza necessità di ricorrere a terapia intensiva.

Per quanto riguarda poi i dubbi  che questo virus non inducesse la produzione di anticorpi , personalmente a distanza ormai di 8 mesi dalla malattia mi ritrovo  , come già detto , con un esame sierologico ricco di immunoglobuline G a conferma della mia buona risposta immunitaria nonostante sia un ottuagenario. Quale è la logica deduzione?

La  febbre elevata sottintende un contagio con  elevata carica virale ed  una conseguente attivazione dei linfociti B responsabili della produzione di anticorpi specifici , esattamente come avviene con qualsiasi virus influenzale.  

Enzo Soresi intervista Alberto Beretta: “sarà assolutamente consigliabile vaccinarsi contro l’influenza” e molto altro su Covid-19, immunità e salute


valerioberetta_neurobioblogPerché hai affermato in un tuo intervento su facebook di qualche tempo fa che non è opportuno stimolare il sistema immunitario adattativo in quanto potrebbe peggiorare la risposta al COVID-19? In un momento in cui tutti si impegnano a potenziarlo con vari tipi di integratori mi sembra una affermazione controtendenza. 

Oggi sappiamo che La COVID-19 è una malattia infiammatoria acuta causata dal virus SARS-CoV-2. Sappiamo anche che il virus, quando infetta le cellule, riesce in brevissimo tempo a spegnere completamente la risposta dell’immunità innata (in modo particolare gli interferoni di tipo I e III) e attivare tutte le citochine e chemochine infiammatorie in un colpo solo. Il risultato è che la cellula chiama su di sé le cellule dell’immunità chiamata Th1 (prima i linfociti, poi i monociti-macrofagi e via dicendo). Il risultato è una reazione infiammatoria che può arrivare fino alla cosiddetta “tempesta citochinica”, spesso mortale per il paziente. E che, nei pazienti che sopravvivono, lascia delle sequele molto gravi. Il lavoro recente del gruppo di Andrea Cossarizza pubblicato su Nature Communications dimostra che tutte le sottopopolazioni linfocitarie T, anche quelle che in una risposta immunitaria normale si bilanciano fra di loro in modo molto preciso, sono contemporaneamente attivate. Il risultato è un caos immunologico da iper-attivazione. Una iper-attivazione che è tanto più potente quanto più il sistema immune del soggetto è stato precedentemente stimolato e si trova in uno stato di attivazione-esaurimento cronico. Non a caso gli anziani sono più suscettibili alla COVID-19. E’ ormai accertato che il sistema immune dell’anziano soffre di una condizione chiamata inflamm-aging (letteralmente infiammazione-invecchiamento) caratterizzata dalla coesistenza di due fenomeni apparentemente contradditori: da una parte il sistema immune è iper-attivato e dall’altra è incapace a reagire in modo appropriato. Una condizione favorita anche da stili di vita scorretti come la sedentarietà e le diete ipercaloriche, peraltro osservata anche nei pazienti COVID giovani. In questo contesto, l’impiego di integratori nutrizionali con attività immunostimolanti (estratti di papaya, echinacea e altri) potrebbe rivelarsi controproducente. Molti di questi immunostimolanti sono di fatto degli attivatori policlonali della risposta T. Proprio quello che non vuoi avere quando incontri il SARS-CoV-2. D’altra parte che senso ha stimolare il sistema immunitario in una malattia per la quale, l’unico farmaco con confermata efficacia è un cortisonico?

Questo non vuol dire che dal mondo delle sostanze naturali non possa emergere una risposta al problema. Nel caso specifico, a mio parere, l’impiego della curcuma come anti-infiammatorio potrebbe rivelarsi utile. Ma mancano sperimentazioni adeguate. E bisogna fare attenzione al prodotto che contiene la curcuma. Solo pochi integratori hanno una curcuma che funziona correttamente perché è una molecola che ha una scarsa biodisponibilità. Un’altra molecola da tenere sotto osservazione è il resveratrolo che, oltre ad agire sui meccanismi infiammatori attivando le sirtuine, ha anche una attività anti-virale diretta (per lo meno in esperimenti in vitro). Anche per il resveratrolo il problema è la scarsa biodisponibilità. Ma esiste un’alternativa, la polidatina, che altro non è che resveratrolo dotato di un gruppo glucidico che gli permette di entrare nelle cellule. Stiamo però sempre parlando di ipotesi scientifiche che necessitano di validazioni cliniche.

Sulla mia pagina facebook Immunologia Oggi ho affrontato questo argomento in varie occasioni.

Puoi spiegare ai nostri lettori in modo semplice la differenza fra immunità innata ed adattativa? Se il primo livello di difesa è l’immunità innata come possiamo potenziarla?

L’immunità “classica” come tutti la conosciamo, che noi immunologi chiamiamo “immunità acquisita o adattativa” ci permette con una semplice vaccinazione di essere immuni a un virus o un battere per molti anni. Oppure, di diventare immuni ad un virus dopo averlo incontrato e sviluppato o no la malattia. Può essere molto efficace (anche se nel caso del coronavirus ancora non lo sappiamo con certezza) ma richiede un certo tempo per entrare in funzione. Almeno 8-10 giorni. Questo perché le cellule che producono gli anticorpi, i linfociti B, hanno bisogno di tempo per proliferare e diventare abbastanza numerose da produrre una quantità sufficiente di anticorpi. Questo tipo di immunità è comparsa in un secondo tempo nel corso dell’evoluzione. E’stata preceduta da una altra forma di immunità, chiamata “innata” che rappresenta il primo livello di difesa contro i virus e altri patogeni. Si tratta di una linea di difesa pronta all’uso che non ha bisogno di tempo per organizzarsi come l’immunità acquisita. Le cellule che ne fanno parte sono di diversi tipi e producono vari tipi di molecole capaci di bloccare il virus. Non entro nei dettagli. Gli studi in corso per capire come funziona e come potenziarla sono numerosi. Ma ancora non sappiamo come misurarla. Sappiamo che ha un ruolo fondamentale contro il coronavirus ma non sappiamo esattamente con quale meccanismo e non possiamo dire ad una persona se è o non è naturalmente protetta dal virus. Per questo motivo non può essere presa in conto per valutare lo stato di “immunità di gregge” di una popolazione che può essere solo conferito da una copertura quasi totale della popolazione da parte dell’immunità conferita dagli anticorpi capaci di neutralizzare il virus.

L’ipotesi che emerge dagli studi in corso sui soggetti contagiati dal coronavirus è che il risultato  iniziale dell’infezione dipende in larga misura da un equilibrio fra il numero di copie virali che infetta la persona (la “carica virale”) e la forza della sua immunità innata. Poco virus e un buon livello di immunità innata uguale protezione (infezione asintomatica o semplicemente transitoria con controllo immediato del virus). Tanto virus e una debole immunità innata invece risulta in un mancato controllo del virus e, a questo punto, la palla passa all’immunità adattativa che però ha bisogno di 8-10 giorni per entrare in funzione. Nel frattempo il virus scende nelle vie respiratorie fino agli alveoli polmonari e causa quello che sappiamo. L’immunità innata è molto efficiente nei bambini ma molto carente negli anziani. La speranza è che un vaccino efficace possa accelerare l’entrata in funzione dell’immunità acquisita e sopperire alla mancata efficacia dell’immunità innata.

Da notare che negli ultimi anni si è fatta avanti una ipotesi molto interessante: quella di stimolare l’immunità innata e “allenarla” a essere più efficiente. La chiamiamo “trained immunity”, immunità allenata. E’ una ipotesi nata dall’osservazione che soggetti vaccinati con un determinato vaccino, come per esempio il BCG, risultano protetti contro malattie virali che con il vaccino non hanno nulla a che vedere. Nel caso specifico del coronavirus, un illustre collega americano, Robert Gallo, ha per esempio proposto di utilizzare, nell’attesa di avere un vaccino specifico, il vaccino della polio. Proposta che difficilmente verrà accolta. Ma sono in corso sperimentazioni per verificare se l’impiego del vaccino trivalente MPR (morbillo, parotite, rosolia) può “allenare” l’immunità innata. Nel caso specifico dell’MPR abbiamo una evidenza indiretta di efficacia: quella dell’epidemia scoppiata a bordo della portaerei americana Roosevelt, dove il 90% dei soggetti positivi al tampone erano asintomatici. Militari che avevano fatto il vaccino MPR. Gli autori della ricerca sull’MPR hanno anche avanzato l’ipotesi che il motivo per cui i bambini sono così resistenti al coronavirus è che sono tutti vaccinati con l’MPR. Siamo ovviamente nel campo delle ipotesi ma non così lontane da una possibile applicazione clinica.

Contro il bacillo di Koch è il macrofago che ingloba il batterio e lo costringe all’interno della necrosi caseosa in cui può sopravvivere mantenendo una immunità attiva . È possibile qualcosa di analogo contro il COVID-19 in prospettiva? 

Non credo si possano paragonare due patogeni così diversi. Purtroppo nel caso del SARS-CoV-2 il ruolo dei macrofagi sembra essere patogenetico e non protettivo. Questo perché il virus, quanto entra nella cellula non solo spegne i geni dell’immunità innata (interferoni) ma addirittura attiva tutti i geni delle citochine e chemochine infiammatorie con il risultato di scatenare la reazione infiammatoria. I macrofagi normalmente non sono infettabili dal SARS-CoV-2 ma sulla base dei risultati degli studi sierologici disponibili da pazienti COVID, SARS e MERS è emersa la possibilità che gli anticorpi prodotti nelle fasi molto precoci dell’infezione possano indurre la fagocitosi del virus da parte dei macrofagi alimentando la reazione infiammatoria.

Esiste un marker indiretto per capire l’efficienza della immunità innata ?

Purtroppo non ancora. E’ la parte più importante che manca al nostro bagaglio diagnostico. Occorre tenere presente che l’immunità innata gioca un ruolo molto importante a livello delle mucose del naso e dell’orofaringe. Trovare un marker sistemico (per esempio nel sangue periferico) che ci indichi lo stato dell’immunità mucosale è una sfida seria.

Se l’infiammazione dell’organismo è alla base della nostra salute e’ giusto sviluppare uno stile di vita che la riduca e consenta di affrontare il COVID-19 con minor rischio?

Se, come dice Ilaria Capua, dobbiamo abituarci a convivere con questo virus (opinione che condivido) agire sui fattori che aumentano la morbidità del virus è l’unica cosa che possiamo fare per ridurre gli effetti di un eventuale contagio. L’infiammazione cronica asintomatica tipica del soggetto sedentario e sovrappeso è di certo un fattore di rischio. Il vantaggio che abbiamo su questo fronte è che sappiamo molto bene come misurarla, come prevenirla e come curarla. Per misurarla si utilizzano alcuni markers ematici come la PCR ad elevata sensibilità e la interleuchina IL-6, che sono molto sensibili a variazioni minime dello stato infiammatorio. Per prevenirla basta agire in modo serio e costante sugli stili di vita. Una dieta appropriata che riduca l’apporto calorico e sia sufficientemente ricca di “smart food” capaci di ridurre l’infiammazione è un tassello fondamentale. Personalmente consiglio a tutti di adottare alcune regole di digiuno intermittente, che non vuole necessariamente dire restare una settimana ogni tanto con un apporto calorico giornaliero sotto le 1.000 calorie. Si ottengono ottimi effetti con altri protocolli più facilmente praticabili. Senza parlare del ruolo sempre più importante del microbiota intestinale che può alimentare l’infiammazione sistemica quando ospita determinate specie batteriche. Anche qui la diagnostica ci viene in aiuto perché i sistemi di misurazione delle specie batteriche intestinali sono ormai disponibili a tutti. E non dimentichiamo l’esercizio fisico regolare. Tutti questi fattori contribuiscono sostanzialmente a ridurre l’infiammazione sistemica. Non solo questo. E’ molto importante allenare i muscoli della respirazione e la capacità polmonare con esercizi specifici. Non dimentichiamo che la COVID-12 colpisce duramente i polmoni e, nei convalescenti può lasciare deficit permanenti molto gravi. Un buon allenamento respiratorio può preparare il nostro organismo ad un eventuale infezione con il virus e aiutarci a passarla senza troppe conseguenze. Trovate molti dettagli e informazioni su questi aspetti nel mio sito SoLongevity.

Perché i soggetti obesi sono più a rischio ammalandosi di COVID-19 di pagare più danni ?

Mi ricollego alla domanda precedente. L’obesità, in modo particolare l’obesità viscerale, è un generatore di infiammazione cronica che a sua volta danneggia i tessuti e crea quello stato di inflamm-aging di cui ho parlato in precedenza. Questo è uno degli aspetti più studiati dagli immunologi negli ultimi anni, al punto che si parla oggi di una nuova area di ricerca: l’immuno-metabolismo. Dati acquisiti recentemente hanno dimostrato che nella tempesta citochinica che caratterizza la terza fase della malattia (quella più grave) due citochine giocano un ruolo importante: la IL-6 e la IL17. Entrambe le citochine sono coinvolte negli stati infiammatori tipici del soggetto obeso. Per tutte e due abbiamo farmaci efficaci in fase di sperimentazione. Ma non dobbiamo contare troppo sui farmaci. Meglio prevenire. Il modo migliore di prevenire è tenere sotto controllo il peso con diete e attività fisica. In Italia abbiamo moltissimi professionisti, medici e nutrizionisti, molto competenti in materia. Affidiamoci ai loro consigli.

Cosa pensi della corsa al vaccino scatenatasi nel mondo occidentale ?

Se devo essere sincero la stessa parola “corsa” mi spaventa. Di questo virus e di come il sistema immunitario lo tiene sotto controllo sappiamo ancora troppo poco per “correre” a sviluppare un vaccino. Un esempio su tutti. E’ di pochi giorni fa la notizia dei risultati della prima ricerca che ha posto la domanda: quanto tempo durano gli anticorpi nei soggetti dopo l’infezione? Il risultato è stato abbastanza sconcertante. Si parla di due, forse tre mesi. Fino a due settimane fa si parlava di uno o due anni facendo analogie con quanto osservato nei pazienti SARS e MERS. Ottimismo smentito dai fatti. Ora mi chiedo: quanto riuscirà un vaccino a indurre una risposta anticorpale protettiva che duri almeno un anno se il virus stesso non ci riesce? Una domanda che richiederà esperimenti di lunga durata e alla quale non si può rispondere “di corsa”. I vaccini attualmente in fase di sperimentazione utilizzano tre tecnologie differenti: vettori virali (per esempio il vaccino di Oxford), RNA (il vaccino della MODERNA), e proteine ricombinanti. Non prendo in considerazione le differenze tecnologiche. Tutti sono basati sull’induzione di anticorpi contro la proteina “spike” (quella che vedete come un funghetto sui pittogrammi del virus) che serve al virus per entrare nelle cellule. Non sappiamo ancora con che frequenza questa proteina muterà nei prossimi anni. Due mutazioni sono già state osservate, e non sono poche se si tiene in considerazione che l’epidemia è solo all’inizio. Questo non vuole dire che non avremo un vaccino. Sono già stati sperimentati con successo nei modelli animali vaccini che sfruttano sequenze conservate del virus per indurre una immunità a livello delle mucose. Penso che dovrebbero essere presi in considerazione. Ma qui entra in gioco il fattore tempo. I vaccini a base di spike sono già stati sviluppati per i due coronavirus precedenti e sono più facili da fare. Ma la fretta può indurci a prendere la strada sbagliata.

Perché è opportuno vaccinarsi contro l’influenza nel prossimo autunno?

Per una serie di motivi. Tutti serissimi. L’influenza si manifesta con sintomi molto simili, almeno nelle fasi iniziali, a quelli della COVID-19. Un’eventuale co-infezione con i due virus o anche una prima influenza seguita dall’infezione con il coronavirus dopo qualche settimana possono creare serie difficoltà nelle decisioni su come diagnosticarle o come curarle (facilmente immaginabili). Un esempio su tutti: mal di gola e febbre, chiamo il medico, probabile influenza, ma non si può escludere COVID, forse per sospetti contatti o comportamenti a rischio. Cosa fa il medico? I nostri laboratori di virologia saranno abbastanza attrezzati per fare tamponi a tutti i sintomatici quando i sintomi non ci indicheranno con chiarezza se abbiamo a che fare con una banale influenza o con una COVID-19? Se non siamo risusciti a diagnosticare l’infezione da coronavirus in un periodo, quello di marzo-aprile 2020, in cui l’epidemia di influenza era già quasi terminata, come possiamo immaginare di riuscirci nell’eventualità che le due epidemie esplodano contemporaneamente?. Corriamo il rischio di lasciare progredire l’infezione da coronavirus quando sappiamo tutti che un intervento terapeutico tempestivo può salvarci la vita.

Non solo, sappiamo che il virus dell’influenza induce nelle cellule del polmone un aumento del recettore per il coronavirus. E’ dunque molto probabile che l’influenza aggravi l’andamento della COVID.19. Credo che a breve avremo dati epidemiologici chiari su questo soggetto.
Terzo ma non meno importante motivo. Mi ricollego a quanto detto prima. Il ruolo degli stati infiammatori cronici nella patogenesi della COVID-19. L’influenza è una delle cause più comuni di infiammazione sistemica in stagione invernale. Una influenza presa a novembre può scatenare un processo flogistico sistemico, che, soprattutto nel soggetto anziano, si può protrarre per settimane e predisporlo ad una risposta infiammatoria esagerata al contatto con il SARS-CoV-2.

Per tutti questi motivi sarà assolutamente consigliabile vaccinarsi contro l’influenza.

Alberto Beretta è un medico ricercatore immunologo. Ha svolto le sue prime ricerche all’Istituto Karolinska di Stoccolma, dove ha conseguito il suo dottorato di ricerca, e all’Istituto Pasteur di Parigi dove ha collaborato con il gruppo di ricerca che ha scoperto il virus HIV. E’ stato poi responsabile di una unità di ricerca su HIV all’Ospedale San Raffaele di Milano. Da due anni ha fondato, con un gruppo di colleghi medici e ricercatori, una iniziativa per promuovere l’invecchiamento in salute facendo leva sulle nuove ricerche sulla longevità e sui meccanismi che portano il sistema immune del soggetto anziano a non essere più competente a rispondere alle aggressioni virali.

Francesco Cavagnini: “Desametasone e Covid, un punto fermo sull’utilità della terapia”


FrancescoCavagnini_NEUROBIOBLOG

La ricerca nella cura del Covid continua a fare progressi. Siccome l’infiammazione è un aspetto saliente della malattia da coronavirus, nelle metodologie tipiche della ricerca clinica e farmacologica nel testare varie soluzioni terapeutiche, ora è la volta di un cortisonico noto e impiegato dai medici da molto tempo e di basso costo: il desametasone. Ma quali sono stati i passaggi che hanno individuato anche questo trattamento terapeutico che, è bene sottolinearlo, al momento si è dimostrato efficace in una quota di pazienti Covid? Inoltre lo studio è preliminare e il lavoro da destinare a pubblicazione non è ancora stato sottoposto alla revisione degli esperti. Non è neppure questa, dunque, la “pallottola magica” contro il Covid, come non lo è l’idrossiclorochina, la plasmaterapia o altre terapie rivelatesi a oggi di qualche efficacia. Sono terapie personalizzate da usare a seconda dei pazienti e dei vari momenti di intervento terapeutico. Suscettibili, come sempre, di ulteriori verifiche da parte di altri centri ospedalieri nel mondo.

Ho rivolto alcune domande relative all’impiego del desametasone nell’infezione da Covid-19 a un grande nome della medicina nazionale e internazionale: Francesco Cavagnini, già professore ordinario e direttore della Scuola di specializzazione in endocrinologia dell’Università di Milano, già primario di endocrinologia e direttore del Laboratorio di ricerche in neuroendocrinologia dell’Auxologico di Milano. Conosco il prof. Cavagnini da molti anni e ne ho sempre apprezzato, come tutti coloro che lo conoscono e lo hanno frequentato, la grande preparazione medico-scientifica, la costante volontà, anzi il piacere, di mantenersi aggiornato, la disponibilità a confrontarsi, la straordinaria capacità di sintesi tra evidenze cliniche e risultati della ricerca biomedica, la proprietà di linguaggio e la chiarezza nell’esporre anche le conoscenze più complesse, virtù non scontate negli scienziati.

Prof. Cavagnini cosa ne pensa dell’impiego del desametasone in una quota di pazienti Covid? È un farmaco che lei, come endocrinologo, sicuramente conosce molto bene, anche per essere impiegato nel Cushing. 

In questi giorni, sta facendo grande clamore la notizia, per nulla sorprendente, dell’efficacia di un farmaco cortisonico, il desametasone, in pazienti colpiti da Covid. Dati recentemente divulgati dallo studio inglese RECOVERY, anche se non definitivi, vengono a validare scientificamente quanto già segnalato nelle prime fasi dell’epidemia dai medici di prima linea, che riscontravano effetti benefici della somministrazione di cortisonici in alcuni di questi pazienti. Lo studio, condotto su oltre 2000 pazienti, fornisce inoltre informazioni sull’efficacia del trattamento in relazione alla gravità della malattia, segnatamente alla compromissione respiratoria. La somministrazione di 6 mg al giorno di desametasone per dieci giorni è stata infatti accompagnata da una riduzione del tasso di mortalità di circa il 35% nei pazienti richiedenti ventilazione meccanica e di circa il 20% in quelli che necessitavano di solo ossigeno, mentre non è stato di alcun beneficio nei pazienti in terapia standard, senza bisogno di ossigeno. Lo studio mette quindi un punto fermo sull’utilità di questa terapia, chiarendo inoltre come questa non trovi indicazione nei pazienti paucisintomatici.

Sarà interessante prossimamente poter stabilire se il desametasone, oltre che sulla complicanza polmonare dell’infezione, sia anche in grado di agire su altre compromissioni d’organo, come quella renale.

Che differenze ci sono tra il desametasone e gli altri cortisonici?

Il desametasone è un preparato cortisonico impiegato da molti anni per via generale, come spray nasale e per uso topico, in una larga serie di patologie quali asma, affezioni reumatiche, allergiche e dermatologiche, per contrastare gli effetti collaterali di chemioterapie e per ridurre l’edema cerebrale. Rispetto al cortisonico naturale prodotto dai surreni, il cortisolo, l’introduzione di un atomo di fluoro in posizione 9 alfa della molecola conferisce ad essa un potenziamento di 20/40 volte della sua attività antinfiammatoria mentre – di particolare importanza – annulla la sua capacità sodio-idro ritentiva, comune agli altri cortisonici. Questa caratteristica rende il desametasone particolarmente indicato in quei pazienti portatori di un compenso cardiaco precario. Potenza anti infiammatoria e assenza di ritenzione idrosalina sono le ragioni della scelta di questo cortisonico nel trattamento di questi pazienti in gravi condizioni generali. Il basso costo del preparato è poi un gradito valore aggiunto.

Consapevoli del fatto che non esiste il “farmaco magico”, la singola terapia efficace per tutti i pazienti Covid, emerge sempre più la necessità di protocolli terapeutici personalizzati e soprattutto l’importanza del “timing” nella somministrazione delle terapie: cosa ci può dire al riguardo? 

Come per gli altri farmaci impiegati, ancora tentativamente, nei pazienti colpiti da Covid, è emersa precocemente l’importanza del momento della loro somministrazione. Il desametasone, come altri antinfiammatori quali il Tocilizumab, deve essere introdotto nel momento in cui si sta per scatenare la cosiddetta “tempesta citochinica” per la quale diversi indicatori clinici possono fare da guida. Al di fuori di questo evento, questa terapia non apporterebbe alcun beneficio mentre, in questi pazienti in equilibrio delicato, potrebbe far pagare il prezzo di spiacevoli effetti avversi come una brusca elevazione dei valori di pressione arteriosa e di glicemia.

 

Covid-19: la pandemia e il narcisismo


AgnesTegnell_NEUROBIOBLOGLa pandemia ci ha mostrato molti sistemi fragili. Dissoltisi come un ghiacciolo al sole. Molte criticità personali, sociali, politiche, economiche. Ma pure di attendibilità e credibilità scientifiche. Se c’è un aspetto “anche” istruttivo oltre che distruttivo nel coronavirus, andrebbe visto nella necessità di una maggiore cautela, attenzione, riflessione, confronto. Da cui dovrebbe poi scaturire una sintesi condivisa tra pari.

Proprio perché la medicina è complessa, sfaccettata e multifattoriale, in continua e quotidiana evoluzione, tra clinici e ricercatori si è soliti parlare ma soprattutto indire delle “consensus conference”: confronti spesso estesi, nazionali e internazionali, articolati, persino vivaci su come studiare, diagnosticare e trattare una determinata patologia. Su cui si raggiunge però un “consenso” di uso pubblico. Perché non è avvenuto, soprattutto a livello di dichiarazioni pubbliche, col covid-19? A parte la quotidiana conferenza stampa indetta dalla protezione civile, perché abbiamo dovuto assistere a una parata di narcisismi con informazioni contrastanti, persino dichiarazioni apodittiche più confacenti a un politico che a uno scienziato?

Si sa che apparire in tv o sui giornali, essere continuamente cercati e ricercati dai giornalisti, può dare alla testa. Capita persino ai più navigati artisti, figuriamoci a un medico o a uno scienziato, abituati a ben altre vite che a quella del palcoscenico. Al massimo al podio di un congresso internazionale. Ma per il minutaggio rigidamente concesso alla relazione, assieme a molti altri colleghi. Tutt’altra roba dalla ribalta  del palcoscenico. Qui invece abbiamo assistito, e ancora assistiamo,  a una vera e propria  “febbre mediatica”: certi medici e certi scienziati si sono calati testa e piedi nel ruolo della star, della prima donna, con tutte le bizze, le isterie e il make up del caso. Persino con un agente personale che tratta per la comparsata. Ma soprattutto ci è mancata una cosa determinante: perché nessuna di queste star si è mai sognata di chiedere scusa per le minchiate che ha detto? Per gli errori che ha fatto?

Onore e merito, dunque, all’infettivologo ed epidemiologo di stato svedese Anders Tegnell della Public Health Agency of Sweden che ha fatto ammenda per avere cannato nelle sue valutazioni della pandemia. Ha pubblicamente ammesso che la sua strategia per combattere il covid-19 ha provocato troppi decessi, dopo aver convinto il suo paese a evitare un blocco rigoroso. Ricordiamo che il tasso di mortalità in Svezia per covid è tra i MortiPer100000_Neurobioblogpiù alti a livello globale e supera di gran lunga sia quello della vicina Danimarca che quello della Norvegia. Nessun essere umano, nessuno scienziato, neanche premio Nobel, ha la sapienza e la conoscenza assolute, specie di fronte a un nuovo fenomeno. Quindi può sbagliare e commettere errori che, nel caso della sanità pubblica, possono tradursi in tragedia. Quindi ben vengano le ammende e scuse pubbliche. Ma si sa, ammettere pubblicamente i propri errori richiede coraggio più che narcisismo.

Alberto Beretta, ricercatore immunologo: “Ecco come il coronavirus entra nelle cellule e come possiamo batterlo”


ValerioBeretta_NEUROBIOBLOG(Post di Alberto Beretta) Condivido con voi alcune considerazioni di medico ricercatore su questo nuovo virus che sta sconvolgendo le nostre vite. Inizio con una precisazione etimologica: il virus, dopo un paio di modifiche, è ora chiamato SARS-Cov-2. Il numero 2 lo distingue dal virus che ha causato la prima epidemia di SARS nel 2003 che si chiama SARS-Cov. Il termine Covid-19 si riferisce alla malattia causata dal virus (Covid = coronavirus-disease-2019).

Il SARS-Cov-2, come del resto il suo predecessore, entra nelle cellule sfruttando una proteina che si trova sulla membrana delle cellule chiamata ACE2 (ACE= Angiotensin Converting Enzyme, e 2 perché abbiamo anche un’altra proteina chiamata ACE). L’ACE2 funziona, occasionalmente, come porta di entrata del virus nella cellula (lo chiamiamo recettore) ma la sua vera funzione, quella per cui è stata selezionata dall’evoluzione della specie umana ma anche di tutti i mammiferi, consiste nel “accorciare” l’angiotensina2 (AT2), di un piccolo pezzo generando l’angiotensina 1-7 (AT1-7) e impedendo in questo modo all’AT2 di svolgere il suo ruolo normale, che è quello di aumentare la pressione arteriosa (una funzione ovviamente negativa per il nostro corpo). Non mi addentro nei dettagli perché rischio di non essere più comprensibile. Provo però a spiegare le implicazioni di questi dettagli molecolari.

Per prima cosa devo chiarire perché ho sottolineato la parola “occasionalmente”. I virus sono parassiti intracellulari, in altre parole non sono capaci di vivere da soli all’esterno di una cellula, ma hanno bisogno di entrare nella cellula per replicarsi e generare altri virus che poi infettano altre cellule. Per entrare nelle cellule sfruttano porte di entrata, i recettori, che si trovano sulla membrana della cellula per svolgere funzioni che tutto hanno a che fare tranne che aiutare il virus ad entrare. Da qui parte una prima considerazione per come potremo, si spera, in un futuro non lontano, battere il virus.

Entrando nella cellula legandosi allì’ACE2 il virus blocca l’ACE2 e gli impedisce di esercitare la sua funzione, positiva, di controbilanciare gli effetti della AT2 generando AT1-7. In altre parole, il furbissimo virus, si intromette in un equilibrio molto delicato fra due braccia di un sistema biologico che vedono da una parte l’AT2 e dall’altra l’AT1-7 controbilanciarsi a vicenda. La prima aumenta la pressione arteriosa, induce risposte infiammatorie e fibrotiche, genera stress ossidativo. La seconda fa esattamente il contrario: riduce la pressione arteriosa, ha un effetto anti-infiammatorio e anti-fibrotico ed è una potente antiossidante. Utilizzando l’ACE2 per entrare nelle cellule il virus lo blocca e gli impedisce di svolgere la sua funzione più importante che è quella di spostare l’equilibrio a favore della AT1-7. Una ricerca pubblicata nel 2005 sulla rivista “Nature” sul virus SARS-Cov (che è molto simile al nuovo virus) ha dimostrato che è proprio alterando questo meccanismo che i virus della SARS fanno saltare il sistema di difesa del polmone e causano la polmonite interstiziale.

Cosa ci insegna tutto questo? Per prima cosa che se troviamo il modo di bloccare il sistema di aggancio del virus a ACE2 prendiamo i classici “due piccioni con una fava”: da una parte gli impediamo di entrare nella cellula, dall’altra gli impediamo di bloccare la generazione di AT1-7 e di spostare l’equilibrio dalla parte sbagliata della bilancia. Attualmente in fase sperimentale si stanno testando molecole ACE2 ricombinanti che bloccano l’adesione del virus alla membrana cellulare (uno studio clinico è già in corso negli Stati Uniti) ma anche si stà puntando molto sui vaccini perché con la vaccinazione possiamo indurre anticorpi che bloccano il legame fra il virus e ACE2 e gli impediscono sia di entrare nella cellula che di bloccare la funzione di ACE2. In altre parole, un vaccino efficace, sarebbe in grado sia di bloccare la replicazione del virus, sia di impedirgli di mandare in tilt il sistema di difesa.

Da queste conoscenze nascono però altre direzioni di ricerca. Si potrebbe per esempio provare a riattivare il sistema di molecole e recettori che funzionano a valle di ACE2 ottenendo in questo modo l’effetto di cortocircuitare gli effetti del virus su ACE2 e riattivare i meccanismi di difesa. Tutto questo ovviamente richiederà tempo. Ma, nella prospettiva purtroppo ormai concreta, che ci troviamo di fronte ad un virus che diventerà endemico, occorre seguire tutte le piste possibili, anche quelle che non ci daranno risultati a breve.

Concludo con una raccomandazione pratica. Avete forse sentito parlare degli eventuali effetti negativi delle terapie con i farmaci che bloccano l’AT2, i famosissimi Sartani. Queste notizie sono apparse sui social per dare seguito ad alcune ricerche che riportavano un effetto dei Sartani sull’espressione di ACE2, che sarebbe aumentata e potrebbe facilitare l’entrata del virus nella cellula. Questi effetti sono stati osservati solo in esperimenti sui topi. A oggi non abbiamo ancora dati sicuri sugli uomini. Non solo, anche se così fosse, non è detto che l’effetto dei sartani su ACE2 non sia addirittura positivo perché aumenterebbe la sua disponibilità a spostare la bilancia a favore dell’asse AT1-7, quello protettivo. Sono in corso ricerche per chiarire questi aspetti. Nel frattempo tutte le società nazionali e internazionali di cardiologia hanno raccomandato di non sospendere le terapie anti-ipertensive con Sartani in corso perché potrebbe avere ripercussioni molto negative sull’andamento della malattia.

Per approfondimenti e aggiornamenti sulle tematiche immunologiche di Covid-19 potete consultare la mia pagina facebook “Immunologia Oggi”.

Alberto Beretta è un medico ricercatore immunologo. Ha svolto le sue prime ricerche all’Istituto Karolinska di Stoccolma, dove ha conseguito il suo dottorato di ricerca, e all’Istituto Pasteur di Parigi dove ha collaborato con il gruppo di ricerca che ha scoperto il virus HIV. E’ stato poi responsabile di una unità di ricerca su HIV all’Ospedale San Raffaele di Milano. Da due anni ha fondato, con un gruppo di colleghi medici e ricercatori, una iniziativa per promuovere l’invecchiamento in salute facendo leva sulle nuove ricerche sulla longevità e sui meccanismi che portano il sistema immune del soggetto anziano a non essere più competente a rispondere alle aggressioni virali.