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Terapie psichedeliche e neuroplasticità


Giorgio Samorini

L’etnobotanico Giorgio Samorini, grande studioso di sostanze psicoattive, ha pubblicato tre anni fa, con Adriana D’Arienzo, medico anestesista e rianimatore, due documentatissimi volumi sulle “Terapie psichedeliche” (Shake Edizioni). E non passa giorno che non si aggiunga qualche nuova ricerca, qualche nuovo studio clinico sugli effetti terapeutici delle sostanze psichedeliche. Ne era consapevole anche Albert Hofmann, scopritore dell’LSD, che incontrai e intervistai molti anni fa durante un convegno a Rovereto, quando diceva che queste sostanze, messe al bando per il loro uso ludico di massa, sarebbero state riscoperte in seguito per i loro potenti effetti terapeutici. E così è stato, tanto che oggi si parla di “rinascimento psichedelico”, ovviamente riferito al loro uso in ambito terapeutico controllato. Ma magari lo stesso Samorini non sarà completamente d’accordo su questo.

Fatto ne sia, che una delle più recenti ricerche cliniche, pubblicata da  JAMA Psychiatry (mica un giornalucolo qualunque), ha evidenziato che la psilocibina (composto psichedelico contenuto nei funghi allucinogeni) può aiutare le persone con dipendenza da alcol ad astenersi dal bere. Secondo i risultati del più ampio studio condotto fino ad oggi su psilocibina e dipendenze, quasi la metà 95 adulti a cui era stata diagnosticata la dipendenza da alcol che hanno assunto il farmaco a base di psilocibina come parte di un programma terapeutico di 12 settimane, non ha toccato alcol più di otto mesi dopo. Come si spiega? In base alle ricerche di laboratorio,  David Yaden del Center for Psychedelic & Consciousness Research della Johns Hopkins University nel Maryland, reputa che le sostanze psichedeliche possono aumentare la neuroplasticità, la capacità del cervello di cambiare e adattarsi. E questo potrebbe spiegare perché le sostanze psichedeliche possono aiutare le persone a cambiare i loro comportamenti. Tutti temi di cui stiamo discutendo ormai da anni anche con Enzo Soresi, e chissà che non ne nasca qualche nuova pubblicazione, a quattro mani e due cervelli.

Percentage of Heavy Drinking Days Following Psilocybin-Assisted Psychotherapy vs Placebo in the Treatment of Adult Patients With Alcohol Use Disorder. A Randomized Clinical Trial. Michael P. Bogenschutz, MD; Stephen Ross, MD; Snehal Bhatt, MD; et al. JAMA Psychiatry. Published online August 24, 2022.

Default mode network e psilocibina


Poco tempo fa su questo blog avevo postato un pezzo sul marcatore somatico e su come si costituisce attraverso la costruzione del default mode network (DMN). DMN.jpg

Per meglio chiarire questo scoperta di un hub cerebrale in cui è costruita la “identità del sé”  riporto una parte di quello scritto “la psilocibina potenzia la funzione cognitiva e promuove stati di coscienza superiore, aumentando la circolazione cerebrale. Partendo da questo presupposto Carhart-Harris studiò le immagini di risonanza magnetica sul cervello dopo la somministrazione di psilocibina ed i risultati che emersero furono sconcertanti in quanto si evidenziò una riduzione del flusso ematico cerebrale nella zona della corteccia del cingolo posteriore  . Ciò che fu messo a fuoco negli studi successivi , fu che la riduzione del flusso vascolare è concentrata in una particolare rete cerebrale, scoperta da poco tempo e nota come DMN (default mode network)”.

Il DMN costituisce per l’attività cerebrale l’equivalente di un hub localizzato centralmente al cervello , di importanza fondamentale , che connette alcune  regioni corticali a strutture più profonde e più antiche implicate nella memoria e nelle emozioni. Queste aree cerebrali mostravano , alle immagini RMN un aumento della loro attività e quindi della vascolarizzazione, proprio quando i soggetti non stavano facendo nulla. In altre parole , queste aree cerebrali , sono il luogo in cui la mente si ritira a vagabondare a sognare ad occhi aperti, a riflettere su noi stessi, a preoccuparsi. È possibile quindi che il flusso della coscienza si trovi proprio in queste zone. Si può pertanto dedurre che la DMN eserciti come una specie di controllo sulle altre parti del cervello, gerarchicamente inferiori .

La funzione di questo hub è sostanzialmente quella  di evitare che il cervello , per un eccesso di stimoli , possa precipitare in un’ anarchia che indurrebbe malattia mentale. Alcuni scienziati chiamano la DMN “ la rete del sé “ in quanto all’interno di questa struttura sono contenuti gli elementi della nostra memoria autobiografica. A conferma di queste deduzioni emerge il dato che questa rete si costruisce tardivamente , nello sviluppo del cervello , in un periodo fra i 10 e i 30 anni. Recenti studi , in ambito psicologico , hanno messo a fuoco che noi ci ricordiamo in prevalenza gli eventi accaduti in queste due decadi che occupano , di conseguenza , la maggior parte della memoria autobiografica. Fino a quasi il 50% dei ricordi di vita di un adulto è collocabile in questo periodo. Tanto che si parla di “bump della memoria autobiografica” che in italiano si potrebbe tradurre come bozza o protuberanza . Andando avanti con le sue ricerche , Harris ed altri neuroscienziati hanno elaborato una teoria  unificata delle malattie mentali in grado appunto di spiegare la maggior parte di queste malattie.

Secondo Robin Carhart – Harris, un cervello felice è un cervello flessibile ed elastico ; la depressione, l’ansia, e il fortissimo desiderio tipico delle dipendenze sono ciò che si prova ad avere un cervello troppo rigido o fissato nelle sue vie e nei suoi collegamenti : un cervello con più ordine del giusto sullo spettro da lui tracciato parlando del cervello entropico.

connessioni

La depressione, la dipendenza ed i disturbi ossessivi coincidono tutti con l’estremo del troppo ordine.

La psicosi invece si troverebbe all’estremo opposto ed è questo il motivo per cui non risponderebbe alla terapia con gli psichedelici.

Nella Visione di Carhart-Harrys il valore terapeutico di queste sostanze è insito nella loro capacità di aumentare temporaneamente le entropia di un cervello troppo rigido cancellando transitoriamente il suo DMN  di controllo. I ricercatori della Hopkins University sostengono che la terapia psichedelica crea un intervallo di massima plasticità in cui con una guida appropriata è possibile apprendere nuovi schemi di pensiero e comportamento riprogrammando sostanzialmente il DMN. Studi con la risonanza magnetica eseguiti all’Imperial college hanno confermato che modificazioni della DMN  sotto psichedelici consentono di osservare alterazioni in quest’area correlabili alla sofferenza del soggetto. Un intervento terapeutico per tanto che sia in grado di rimodulare quell’area potrebbe portare a notevoli vantaggi nel campo delle terapie per le malattie mentali. Sulla base di questi presupposti è  in corso al John Hopkins Hospital di Londra uno studio randomizzato sulle depressioni gravi e farmaco resistenti che mettono a confronto escitalopran e psilocibina.  Alla New York University invece la psilocibina dal 2016 viene somministrata a pazienti oncologici  , in una unica dose di 10 mgr,  con la finalità di eliminare l’angoscia di morte . Fra i vari casi clinici riportati da Michael Pollan nel libro edito da Adelphi “ Come cambiare la tua mente” il più singolare è quello di una donna che dopo l’assunzione della psilocibina ebbe la sensazione di essere ridotta in polvere  e che le sue ceneri venissero  sparse in mezzo alle piante , riportando lei da questa visione , quasi mistica ,  una profonda serenità.