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Il cervello elettrico: intervista a Simone Rossi

Sono gli elettricisti del cervello. Detto senza irriverenza. Ma loro percorrono un settore di studi che fino a non molti anni fa era praticamente sconosciuto, non solo al pubblico profano, ma pure ai medici. Certo, tutti i medici sanno che il cervello ha una attività elettrica, oltre che biochimica, e che tale attività può essere registrata da una apparecchiatura che traccia un elettroencefalogramma, in sigla, meglio praticabile, EEG. In pratica il cervello ha vari “ritmi”, dalla veglia al sonno profondo (e a quello con sogni), contraddistinti da altrettanti differenti tracciati, che possono essere registrati dall’EEG. Un tempo con pennino scrivente su lunghi rotoli di carta, oggi invece i tracciati sono leggibili sul monitor di un computer e comodamente archiviabili. Con tutti i vantaggi che ne derivano sia in termini di confronto clinico, sia in termini di ricerca. Anche perché i tracciati della attività elettrica del cervello possono modificarsi nel tempo nelle varie età della vita, ma anche a seguito di patologie e traumi che possono interessare la materia cerebrale.

Cosicché ci fu chi, nel secolo scorso, cominciò a chiedersi se questa attività elettrica del cervello fosse non solo correlata a patologie neurologiche (come ad esempio il Parkinson con i suoi tremori o l’epilessia), ma pure psichiatriche (come ad esempio  la depressione e i disturbi dell’umore). Da questo a passare all’intuizione che l’elettricità potesse essere utile alla cura del cervello, il passo fu breve. Peraltro l’elettricità, come si ricorderà, ridona la vita al patchwork anatomico creato dal dottor Frankenstein, idea mediata dai vari esperimenti sulla “elettricità animale” di Luigi Galvani e seguaci, e persino dagli esperimenti proto-psicoterapeutici di Franz Anton Mesmer.

Ricordo che Carlo Lorenzo Cazzullo, il padre della psichiatria italiana, nei lunghi incontri con lui durante i quali registravo delle interviste ai fini di una sua biografia, un giorno estrasse un volume dalla sua ricca biblioteca e mi mostrò la prima edizione del testo dello psichiatra Ugo Cerletti, ideatore dell’elettroshock o, intermini clinici, della “terapia elettroconvulsivante”. In buona sostanza, un scossone elettrico al cervello, usato soprattutto per le gravi forme di depressione a rischio suicidario, e per gli stati ipomaniacali. Ci vollero decenni per comprendere, dal punto di vista scientifico, gli effetti di tali correnti applicate all’esterno del cranio verso l’elettrochimica del cervello. E per constatarne gli effetti su varie capacità cognitive, ad esempio sulla memoria.

Parallelamente al progressivo perfezionamento della terapia elettroconvulsivante e soprattutto dell’avvento della neuro e psicofarmacologia, la medicina iniziò a percorrere anche la strada della cosiddetta “psicochirurgia”. Intervenire sul cervello per modificarne la struttura anatomica ai fini del trattamento di disturbi psichiatrici. Gli appassionati di cinema ricorderanno, al riguardo, il capolavoro diretto da Miloš Forman, tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey, con uno strepitoso e indimenticabile Jack Nicholson: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

Questo libro appena pubblicato da Raffaello Cortina con l’esplicito titolo “Il cervello elettrico. Le sfide della neuromodolazione” di Simone Rossi (insegna neurofisiologia all’Università degli Studi di Siena. È past-president della Società italiana di psicofisiologia e neuroscienze cognitive e attuale segretario della Società italiana di neurofisiologia clinica. Esperto internazionale di studi funzionali sul cervello e di neuromodulazione non invasiva, ha inventato, con un amico ingegnere, dispositivi robotici indossabili per migliorare la qualità della vita dei malati di Parkinson, dei pazienti con paralisi della mano e di quelli che soffrono di acufeni), parla tanto della storia, anche con accenni remotissimi, di quanto è stato fatto per intervenire sulla funzionalità del cervello, sia a scopo terapeutico che di ricerca, tanto, soprattutto di quanto si sta facendo oggi e si farà nei prossimi anni in questo affascinante campo di studi e di applicazioni.

Settore che avanzerà sempre più a ritmo sostenuto mano a mano che le tecnologie si perfezionano e sempre più si miniaturizzano: le cosiddette “nanotecnologie”. Che ci portano e ci porteranno sempre più ad applicazioni da fantascienza. Questo libro, che è anche una biografia intellettuale dell’autore, parla in modo godibilissimo, persino umoristico, del cervello elettrico, della attività elettrica del cervello. Di come registrarla, come modularla, come stimolarla, come intervenire per trattare malattie neurologiche e psichiatriche. Questo libro mi ha talmente appassionato che ho deciso di contattare subito Simone Rossi e intervistarlo. Ecco le sue risposte.

Il suo libro è anche una autobiografia intellettuale: quanto hanno influito le sue esperienze personali nella scelta di questo settore di ricerca?

Credo che abbiano influito abbastanza, magari a livello inconscio, nella scelta del tipo di ricerca che ho intrapreso. Questo si può evincere dal prologo del libro. Però, non sono mai andato in analisi per capire fino a che punto (ammesso che funzioni in questo senso, l’analisi). In sostanza, credo che la curiosità in generale abbia prevalso, instillata anche da letture illuminanti fatte al momento giusto della vita, quando si deve scegliere che cosa fare da grandi: lo studio di come funziona il cervello è uno dei campi in cui la curiosità trova più spazio in assoluto, no?

Ci vuole spiegare brevemente cosa si intende per  “neuromodulazione” e perché è così importante oggi?

La neuromodulazione è l’applicazione invasiva o non invasiva di deboli correnti elettriche a zone ben definite del cervello o del midollo spinale. Alcuni includono anche il neurofeedback fra le metodiche di neuromodulazione, perché anche con questo approccio si può modificare l’attività cerebrale, anche se non c’è nessuna stimolazione elettrica.

Quindi, con la neuromodulazione è possibile interagire con l’attività elettrica dei neuroni, modificandola transitoriamente per scopi di ricerca sulle funzioni cerebrali, o più a lungo termine per ottenere un beneficio terapeutico in alcune patologie neurologiche e psichiatriche non curabili con i soli farmaci. C’è bisogno di divulgare questa conoscenza, perché il campo “neuromodulazione” è in crescita esponenziale e rappresenterà un presidio terapeutico/riabilitativo sempre più rilevante nei prossimi anni.

Il progetto Neuralink di Elon Musk rientra in questa categoria? Cosa ne pensa di tale progetto? 

Sì certo, rientra in questa categoria, fra le metodiche invasive. Che ne penso? Bene, se penso all’evoluzione tecnologica per cercare di aiutare i tetraplegici a muoversi, sfruttando nuovi tipi di impianti cerebrali tecnologicamente avanzatissimi. Bene, se penso anche a quanti ricercatori sta dando la possibilità di esprimersi. Ho qualche dubbio sul fatto che un chip impiantato nel cervello sia utile, in un futuro, dal difendersi “dall’attacco delle intelligenze artificiali”: mi sembra un pensiero fondamentalmente paranoico, oppure dettato da esigenze di puro marketing (le due cose non si escludono).

Quali sono i settori terapeutici che maggiormente beneficiano della neuromodulazione? E cosa è ragionevolmente possibile fare con la stimolazione del cervello oggi? Cosa sarà possibile fare in futuro?

Rispondo insieme a queste due domande, distinguendo fra le metodiche invasive (cioè che richiedono un intervento chirurgico per il posizionamento degli elettrodi intracerebrali e del generatore di impulsi collegato) e quelle non invasive.

Le prime, come la stimolazione cerebrale profonda (o DBS), è ormai divenuta il gold standard del trattamento del Parkinson in stadio avanzato e del tremore invalidante, anche se non tutti i pazienti la possono fare. E’ utilizzata anche nell’epilessia farmacoresistente, nelle distonie gravi, nel disturbo ossessivo-compulsivo, nella depressione, nelle gravi emicranie, e vi sono alcuni studi pilota in corso per la Malattia di Alzheimer.

Per quanto riguarda quelle non invasive, la rTMS è approvata ufficialmente per il trattamento della depressione farmacoresistente e del disturbo ossessivo-compulsivo, anch’esso resistente ai farmaci. La medicina basata sull’evidenza ha posizionato in classe A (cioè, efficace decisamente) la rTMS per il trattamento delle seguenti condizioni cliniche: i) depressione farmacoresistente, utilizzando come bersaglio della stimolazione, effettuata ad alta frequenza, la corteccia dorsolaterale prefrontale (DLPFC) di sinistra; ii) dolore neuropatico cronico, applicando le stimolazione -sempre ad alta frequenza- sull’area motoria primaria controlaterale alla parte del corpo interessata dalla sintomatologia dolorosa; iii) recupero della funzionalità della mano nelle fasi post-acute che seguono un ictus cerebrale, utilizzando una stimolazione inibitoria, a bassa frequenza, dell’area motoria primaria dell’emisfero non colpito. Evidenze di efficacia probabile (classe B) si riscontrano in numerose altre condizioni neurologiche o psichiatriche, quali la Malattia di Parkinson (sia per il disturbo motorio che per i sintomi depressivi che spesso si associano a questa patologia), la sintomatologia dolorosa connessa alle sindromi fibromialgiche, per i disturbi motori agli arti inferiori in pazienti con sclerosi multipla, nel disturbo post-traumatico da stress e nel recupero del linguaggio nelle afasie post stroke.

Per il futuro, non credo tanto che vi saranno delle nuove indicazioni (ormai queste metodiche sono state provate in moltissime condizioni) quanto invece potremo assistere a miglioramenti tecnologici che consentano una maggiore precisione di stimolazione, con meno effetti collaterali (soprattutto nel caso della DBS, la rTMS non ha infatti grandi effetti collaterali) ed una migliore personalizzazione dei parametri di intervento.

Alla luce delle sue ricerche, occorrerebbe introdurre questo tipo di conoscenze nell’ambito della formazione specialistica in neurologia e psichiatria? Quali vantaggi apporterebbero allo specialista? Oppure è pensabile un intero settore specialistico dedicato alla neuromodulazione? 

Senz’altro si, sarebbe utile e necessario. Stanno fiorendo molti Masters in questo senso, ma nelle scuole di specializzazione “tradizionali” la neuromodulazione è sempre un argomento di nicchia, e se ne parla solo se in un determinato centro formativo viene praticata.

La neuromodulazione non invasiva sta crescendo a vista d’occhio, soprattutto privatamente, visto che il Sistema Sanitario Nazionale è un po’ lento nel recepire questi avanzamenti scientifici. Sarebbe quindi fondamentale istituire dei corsi ad hoc da parte delle società scientifiche (e magari istruire i dirigenti sanitari, che spesso non sanno niente di queste cose). Poi, se la vogliamo vedere in un altro modo, quando diamo un farmaco che agisce sul sistema nervoso centrale, neuromoduliamo lo stesso l’efficacia delle sinapsi…quindi basterebbe allargare un po’ la visione del problema, eliminando le settorializzazioni. Secondo questa visione, non vedrei utile un settore specialistico a se stante a livello di formazione base: meglio integrare, anche fra neurologia e psichiatria.

Cosa si intende per “oscillopatia” e perché è così importante in campo neurologico e psichiatrico?

Il termine oscillopatia non è ancora molto familiare nella comunità neurologica e tantomeno in quella psichiatrica, nonostante che si aggiri nella letteratura specifica da circa una ventina di anni. Si riferisce al fatto che i nostri network neurali, per comunicare fra di loro, utilizzano una debole attività elettrica autoprodotta (quella che viene comunemente chiamata elettroencefalogramma) composta di segnali più o meno sinusoidali che hanno un periodo variabile di oscillazioni al secondo. Sappiamo ormai con certezza che queste oscillazioni elettriche variano in rapporto a stati fisiologici differenti (veglia, diverse fasi del sonno) ma anche a stati patologici (per esempio, nella morte cerebrale non si rileva attività oscillatoria).

Senza arrivare ad un caso così estremo, è ormai chiaro che alcune patologie, sia neurologiche che psichiatriche, sono accompagnate da variazioni loco-regionali di questi ritmi cerebrali, in aree o network abbastanza specifici. Per esempio, nella malattia di Parkinson prevale l’attività in banda beta (oscillazioni a circa 20 cicli/secondo) nelle regioni deputate al controllo del movimento, e la correzione -tramite neuromodulazione, ma anche farmacologica- di questa attività eccessiva può portare alla correzione dei sintomi motori. Un altro esempio classico di oscillopatia è l’epilessia, che è rappresenta da scariche elettriche anomale, che possono essere localizzate o diffuse: quando si trova la terapia adatta, questa attività elettrica patologica tende a scomparire. Anche in psichiatria cominciano ad emergere sindromi cliniche legate a disfunzioni di particolari ritmi cerebrali, su tutte la schizofrenia e il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, meglio conosciuto come ADHD.

Oltre alle stimolazione delle memorie, a  che punto siamo con la “cancellazione” delle memorie traumatiche?

Questa è una bella domanda. Negli sudi sperimentali sull’animale sembra sia possibile cancellare le memorie traumatiche, grazie a studi basati sulll’optogenetica, una metodica che consente di vedere il funzionamento di singoli neuroni “in vivo”. Nell’uomo, siamo sempre un po’ indietro, perché non è per ora possibile applicare queste metodiche, e non è detto che i circuiti delle memorie del topolino funzionino esattamente allo stesso modo di quelli dell’uomo.

Diverse storie della scoperta di Hans Berger, inventore dell’EEG, riportano che egli era alla ricerca di una “dimostrazione scientifica della telepatia”. Lei parla nel suo libro di “sintonia emotiva tra cervelli” e un ricercatore come Miguel Nicolelis sta lavorando da anni al tentativo di una comunicazione “diretta” cervello-cervello. Sarà mai possibile una cosa del genere: cioè conoscere direttamente i contenuti di un altro cervello senza l’intermediazione della comunicazione linguistica o simbolica? 

Boh! Per ora non mi sembra che ci siano evidenze solide in questo senso. La mia opinione personale (non basata su argomentazioni scientifiche, che fondamentalmente non esistono al momento) è che sarebbe veramente triste conoscere i contenuti di un altro cervello senza l’intermediazione linguistica o simbolica. Credo che una gran parte del “succo della vita” scomparirebbe; e magari senza empatia, o senza la propensione a cercare di interpretare i messaggi trasmessi da chi ci sta davanti, poi diventiamo tutti anedonici e depressi. Pensiamo ad un incontro galante, dove a cena si sta zitti, confidando che tanto capiamo lo stesso…una tristezza infinita, direi.

Come immagina il “cervello del futuro”? Potenziato con microchip neurali o cosa?  

Spero proprio di no, se non per curare le malattie incurabili altrimenti. Confido invece in un cervello che ritorni pensante per conto proprio, e non per slogan politici mirati più a scatenare il sistema limbico (cioè  la rabbia, la violenza) che il ragionamento proprio della neocorteccia (analisi, pianificazione, scelte e conseguenze); un cervello che sia indirizzato verso il bene comune, la sostenibilità, l’ambiente e la giustizia sociale, senza necessità di chip o correnti dirette in qualche zona precisa per raggiungere questi obiettivi. Da un punto di vista evoluzionistico sarebbe l’unica salvezza per l’umanità. Altro che assalto delle intelligenze artificiali!

2 Risposte

  1. Interessante e giusto.grazie

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