Ospedale di Niguarda, 1968, influenza di Hong Kong, una pandemia che fece 22.000 morti ! In quegli anni ero assistente in Anatomia patologica e la prevalenza delle autopsie evidenziava come causa di morte le polmoniti batteriche. Il virus influenzale infatti induceva una severa caduta delle difese immunitarie ed i pazienti che morivano erano i più compromessi perché diabetici , cardiopatici, defedati o vecchi (allora la vecchiaia iniziava a 60 anni). Al riscontro autoptico i polmoni si trovavano infarciti di sangue ed i lobi polmonari interessati dalla polmonite potevano anche essere più di uno, in quel caso l’inadeguatezza della medicina era un uso degli antibiotici improprio cioè inadeguato, insufficiente. Ricordo che nel 1970, mio padre, 67enne, colpito da infarto morì dopo una quindicina di giorni di polmonite fra lo sconcerto dei cardiologi .
Nel protocollo terapeutico standard dell’unità coronarica, la terapia antibiotica prevedeva amoxacillina un grammo endovena due volte al giorno quindi totalmente insufficiente per una polmonite lobare franca insorta in un paziente con infarto in atto. Quando negli anni ’80 lavoravo nel reparto di pneumologia il protocollo per le polmoniti prevedeva 2 grammi tre volte al giorno di cefalosporina + gentamicina 80 mgr per due, il tutto per via endovenosa, difficilmente con questa terapia perdevamo malati anche se compromessi per altre malattie. Oggi le broncopolmoniti vengono in prevalenza trattate al domicilio dal medico di famiglia in genere con due antibiotici e la quota di pazienti che deve essere ricoverata per inadeguata terapia è minima e comunque quando il paziente viene ricoverato in ospedale il più delle volte guarisce con una terapia antibiotica di secondo livello.
Come medico con oltre 55 anni alle spalle di professione come specialista in pneumologia ed oncologia clinica mi pare di rivivere con il Covid 19 la stessa inadeguatezza terapeutica di quegli anni. Ciò che scatena infatti questo virus è una polmonite infiammatoria ed una microembolia polmonare sostenuta in prevalenza da una aggregazione delle piastrine. I due presidi terapeutici di conseguenza sono i farmaci antiaggreganti ed il cortisone. Quando nel marzo scorso mi sono ammalato di questa forma virale , dopo 9 giorni di febbre a 39 gradi, avendo iniziato al domicilio la terapia con calcieparina sottocute a scopo antiaggregante mi sono ricoverato in ospedale e qui dopo la prima endovenosa di 60 mgr di prednisone è avvenuto lo sfebbrameno ed in pochi giorni con un dosaggio di cortisone progressivamente ridotto sono guarito senza alcuna conseguenza, ho proseguito quindi il cortisone al domicilio per complessivi 15 giorni a dosi scalari fino a sospenderlo. A 7 mesi di distanza dall’inizio della malattia mi ritrovo con il test sierologico che conferma la elevata presenza di immunoglobuline. Quindi quale è la logica deduzione?
Primo, che di fronte a una forma virale di questo tipo con febbre elevata è opportuno iniziare tempestivamente enoxocalcieparina sottocute alla dose di 1mgr per kgr associata a prednisone 25 mgr al giorno da aumentare progressivamente anche a 100 mgr al giorno se non si ottiene lo sfebbramento.
Quali le controindicazioni? Le solite ben note i clinici e cioè diabete e gastropatie ben controllabili con adeguate terapie e chiaramente nessuna terapia antiaggregante se il paziente è già in terapia anticoagulante per problemi cardiovascolari.
Con questo approccio si eviterebbero la prevalenza dei ricoveri ospedalieri lasciando di conseguenza il posto ai pazienti più critici come avviene in tutte le malattie infettive. In sostanza a distanza di circa 70anni stiamo commettendo gli stessi errori commessi con la pandemia influenzale di Hong Kong e cioè un inadeguato uso dei farmaci ed in particolare del cortisone. Per inciso di fronte ad una sindrome mediastinica sostenuta da un tumore polmonare con metastasi ai linfonodi , al fine di fare respirare il paziente si arriva a dosaggi cortisonici molto più elevati senza esitazioni.
I pazienti da me curati al domicilio con questo approccio terapeutico sono ormai un certo numero ed in un solo caso ho dovuto ricorrere al ricovero del paziente per un deficit di ossigeno ed anche in questo caso è stato sufficiente una degenza in reparto con una adeguata assistenza senza necessità di ricorrere a terapia intensiva.
Per quanto riguarda poi i dubbi che questo virus non inducesse la produzione di anticorpi , personalmente a distanza ormai di 8 mesi dalla malattia mi ritrovo , come già detto , con un esame sierologico ricco di immunoglobuline G a conferma della mia buona risposta immunitaria nonostante sia un ottuagenario. Quale è la logica deduzione?
La febbre elevata sottintende un contagio con elevata carica virale ed una conseguente attivazione dei linfociti B responsabili della produzione di anticorpi specifici , esattamente come avviene con qualsiasi virus influenzale.
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