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Intestino & Covid


L’intestino ha recettori simili a quelli del cervello. E capita che sia definito “secondo cervello”, pure per il ruolo, attraverso la popolazione batterica che lo abita (microbiota), anche per il benessere e la salute mentale. Ora c’è un elemento in più in questa visione cervello-intestino: la serotonina presente nell’intestino.

Il Covid-19 si può associare a una serie di sintomi gastrointestinali come la diarrea. Per quale motivo? Ricerche recenti indicano che questi sintomi intestinali nei pazienti Covid-19 peggiorano con la gravità della malattia e questo sarebbe collegato all’aumento della serotonina intestinale, rilasciata a causa delle disfunzioni intestinali, aumentando la risposta immunitaria del corpo e potenzialmente peggiorando le condizioni dei pazienti. E certi pazienti avrebbero una risposta eccessiva del sistema serotoninergico intestinale, per loro tipologia genetica. Ciò renderebbe ragione anche di un altro sintomo, la nausea, che difatti si associa a un eccesso di serotonina.

Da qui l’idea di abbassare il livello di serotonina circolante nel corpo. Come? Con gli antidepressivi. Del resto supportata da prove precedenti secondo cui gli antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (Ssri) potrebbero ridurre la gravità dei sintomi di Covid-19.

Come ha commentato l’autore senior dello studio pubblicato dalla rivista internazionale di ricerca gastrointestinale Gut, Damien J. Keating, del Flinders Health and Medical Research Institute and College of Medicine and Public Health, Flinders University, Adelaide, Australia: “Il nostro studio aggiunge ulteriori prove che il Covid-19 ha molte più probabilità di infettare le cellule dell’intestino e aumentare i livelli di serotonina attraverso effetti diretti su specifiche cellule intestinali, peggiorando potenzialmente gli esiti della malattia. Fornisce inoltre ulteriore supporto alle prove cliniche emergenti che i farmaci antidepressivi, che bloccano il trasporto della serotonina nel corpo, possono servire come trattamento benefico”.

Alyce M Martin, Michael Roach, Lauren A Jones, Daniel Thorpe, Rosemary A Coleman, Caitlin Allman, Robert Edwards, Damien J Keating. Single-cell gene expression links SARS-CoV-2 infection and gut serotonin. Gut, 2022.

Covid e infiammazione: il ruolo delle terapie con immunomodulatori


Pierluigi Meroni

Sin dall’inizio della pandemia è emerso che i danni maggiori in corso di Covid-19 erano da ascriversi all’esagerata risposta infiammatoria dell’organismo. Qualcosa di simile a quanto succede nelle malattie autoimmuni in cui il sistema immune innesca una risposta contro il proprio organismo e determina un danno dei tessuti legato all’infiammazione. Inoltre è stato visto che pazienti con malattie autoimmuni ed in terapia con farmaci immunosoppressori non manifestavano una malattia più grave  ed anzi, in alcuni casi presentavano forme più lievi. Da queste osservazioni è nata l’idea di utilizzare questi stessi farmaci anche in corso di Covid-19. L’Alleanza Europea delle Associazioni di Reumatologia, EULAR, è l’organizzazione che rappresenta le persone affette da malattie reumatologiche (incluse quelle autoimmuni), gli operatori sanitari in reumatologia e le società scientifiche di reumatologia di tutte le nazioni europee.

«L’EULAR ha radunato un gruppo di esperti europei, tra i quali il sottoscritto», spiega il prof. Pierluigi Meroni, direttore del Laboratorio sperimentale ricerche immunologia clinica e reumatologia dell’Auxologico «ed ha chiesto loro di analizzare tutti i dati riguardanti l’uso di farmaci anti-infiammatori ed immunosoppressori disponibili nelle pubblicazioni scientifiche relative a pazienti con Covid-19.  Il gruppo era costituito principalmente da reumatologi con larga esperienza nell’utilizzo di questi farmaci e da epidemiologi e statistici che hanno contribuito ad analizzare i dati raccolti. L’obiettivo è stato quello di fare il punto obiettivo su quali di questi farmaci si erano dimostrati efficaci e quali no sulla base di dati oggettivi e controllabili. Inoltre è stato chiesto al gruppo di esprimere delle linee guida e suggerimenti per l’utilizzo di questi farmaci nella pratica clinica. Il gruppo ha  pubblicato una prima relazione  sulla rivista  “Annals of the Rheumatic Diseases” (dell’importante Gruppo British Medical Journal) all’inizio del 2021 ed un successivo aggiornamento a settembre». 

In estrema sintesi, si è dimostrata l’inefficacia dell’utilizzo di antimalarici (Plaquenil) inizialmente creduti utili sulla base di modelli sperimentali non confermati dagli studi clinici. Inoltre si è visto che alcuni farmaci biologici (ad esempio gli inibitori del TNF) non sono dannosi e possono essere utilizzati con cautela nei pazienti reumatici in remissione con questi farmaci. Il dato più importante è tuttavia risultato quello della dimostrazione di come l’utilizzo di biologici che bloccano l’interleuchina 6 (uno dei principali mediatori dell’infiammazione) e del cortisone abbia un effetto positivo sulle forme moderate/severe di Covid-19 indipendentemente dalla presenza di una malattia reumatica autoimmune associata. Lo stesso è stato riscontrato per l’uso di inibitori della Janus chinasi (baricitinib e tofacitinib), farmaci da poco disponibili per il trattamento di artriti infiammatorie.  Viceversa, gli anticorpi monoclonali anti-Sars-CoV-2 e il plasma convalescente possono trovare applicazione nelle prime fasi della malattia e in sottogruppi selezionati di pazienti immunosoppressi. In conclusione, l’esperienza acquisita dai reumatologi/Immunologi clinici nel campo delle malattie autoimmuni si è rivelata di aiuto per disporre di farmaci che non hanno un’azione diretta  sul virus Sars-CoV2 ma che sono in grado di spegnere il processo infiammatorio conseguente al virus e dannoso per il nostro organismo.

2021 update of the EULAR points to consider on the use of immunomodulatory therapies in COVID-19

Annals of the Rheumatic Diseases 2022 Jan;81(1):34-40.

Covid-19: una speranza dalla clofazimina?


La clofazimina è un farmaco solitamente usato per curare la lebbra. È un battericida che si lega al DNA del micobatterio della lebbra esercitando una lenta azione battericida (è stato impiegato, in via sperimentale anche nell’Aids per curare le infezioni da micobatterio avio). La clofazimina esercita pure proprietà antinfiammatorie. Tra tutti i farmaci “off-label” (cioè impiegati per altre malattie) che da un anno a questa parte si stanno sperimentando per curare l’infezione da Covid, la clofazimina sembra essere tra i più promettenti come riferisce oggi la rivista scientifica Nature con un articolo dal titolo “La clofazimina inibisce ampiamente i coronavirus incluso SARS-CoV-2”.

Attenzione però. Siccome la notizia inizia già ad essere ripresa, al momento dalla stampa straniera, si tratta di un lavoro preliminare, non ancora sottoposto a revisione, come avverte la stessa Nature in una nota introduttiva. E tra l’altro la clofazimina può avere effetti collaterali di non poco conto.  Inoltre la molecola è stata sperimentata su criceti in un “modello di patogenesi SARS-CoV-2”.  Comunque sia, come si dice nel lavoro preliminare pubblicato oggi:  “la somministrazione profilattica o terapeutica di clofazimina ha ridotto significativamente la carica virale nel polmone e la diffusione virale nelle feci e ha anche mitigato l’infiammazione associata all’infezione virale. L’applicazione combinatoria di clofazimina e remdesivir ha mostrato una sinergia antivirale in vitro e in vivo e una limitata diffusione virale del tratto respiratorio superiore. Poiché la clofazimina è biodisponibile per via orale e ha un costo di produzione relativamente basso, è un candidato clinico attraente per il trattamento ambulatoriale e la terapia combinatoria a base di remdesivir per i pazienti COVID-19 ospedalizzati, in particolare nei paesi in via di sviluppo”.

Enzo Soresi: “Per me medico da 55 anni il Covid è una malattia come le altre”


Ospedale di Niguarda, 1968, influenza di Hong Kong, una pandemia che fece 22.000 morti ! In quegli anni ero assistente in Anatomia patologica e la prevalenza delle autopsie evidenziava come causa di morte le polmoniti batteriche. Il virus influenzale infatti induceva una severa caduta delle difese immunitarie ed i pazienti che morivano erano i più compromessi perché diabetici , cardiopatici, defedati o vecchi (allora la vecchiaia iniziava a 60 anni).  Al riscontro autoptico  i  polmoni si trovavano infarciti di sangue ed i lobi polmonari interessati dalla polmonite  potevano anche essere più di uno, in quel caso l’inadeguatezza della medicina era un uso degli antibiotici improprio cioè inadeguato, insufficiente.  Ricordo che nel 1970, mio padre, 67enne, colpito da infarto morì  dopo una quindicina di giorni  di polmonite fra lo sconcerto dei cardiologi .

Nel protocollo terapeutico standard  dell’unità coronarica, la terapia antibiotica prevedeva amoxacillina un grammo endovena due volte al giorno quindi totalmente insufficiente per una polmonite lobare franca insorta in un paziente con infarto in atto. Quando  negli anni ’80  lavoravo   nel reparto di pneumologia il protocollo per le polmoniti prevedeva 2 grammi tre volte al giorno di cefalosporina + gentamicina 80 mgr per due, il tutto per via endovenosa, difficilmente con questa terapia perdevamo malati anche  se compromessi per altre malattie. Oggi le broncopolmoniti vengono in prevalenza trattate al domicilio dal medico di famiglia in genere con due antibiotici e la quota di pazienti che deve essere ricoverata per inadeguata terapia è minima e comunque quando il paziente viene ricoverato in ospedale il più delle volte guarisce  con una terapia  antibiotica di secondo livello.

Come medico con oltre 55 anni alle spalle di professione come specialista in pneumologia ed oncologia clinica  mi pare di rivivere con il Covid 19 la  stessa inadeguatezza terapeutica di quegli anni. Ciò che scatena   infatti questo virus è una polmonite infiammatoria ed una microembolia polmonare  sostenuta in prevalenza da una aggregazione delle piastrine. I due presidi terapeutici di conseguenza sono i farmaci  antiaggreganti ed il cortisone. Quando nel marzo scorso mi sono ammalato di questa forma virale , dopo 9 giorni di febbre a 39 gradi, avendo iniziato al domicilio la terapia con calcieparina sottocute a scopo antiaggregante  mi sono  ricoverato in ospedale e qui  dopo la prima endovenosa di 60 mgr di prednisone è avvenuto lo sfebbrameno ed in pochi giorni con un dosaggio di cortisone  progressivamente ridotto sono guarito senza  alcuna conseguenza, ho proseguito quindi il cortisone al domicilio per complessivi 15 giorni a dosi scalari fino a sospenderlo. A 7 mesi di distanza dall’inizio della malattia mi ritrovo con il test sierologico che conferma la elevata presenza di immunoglobuline. Quindi quale è la logica deduzione?

Primo, che di fronte a una forma virale di questo tipo  con febbre elevata è opportuno iniziare tempestivamente  enoxocalcieparina  sottocute alla dose di 1mgr per kgr  associata a prednisone  25 mgr al giorno da aumentare progressivamente anche a 100 mgr al giorno se non si ottiene lo sfebbramento.

Quali le controindicazioni? Le solite ben note i clinici e cioè diabete e gastropatie ben controllabili con adeguate terapie e chiaramente nessuna terapia antiaggregante se il paziente è già in terapia anticoagulante per problemi cardiovascolari.   

Con questo approccio si  eviterebbero la prevalenza dei ricoveri ospedalieri lasciando di conseguenza il posto ai pazienti più critici come avviene in  tutte le malattie infettive. In sostanza a distanza di circa 70anni stiamo commettendo gli stessi errori commessi con la pandemia influenzale di Hong Kong e cioè un inadeguato uso dei farmaci ed in particolare del cortisone. Per inciso di fronte ad una sindrome mediastinica sostenuta da un tumore polmonare con metastasi ai linfonodi , al fine di fare respirare il paziente  si arriva a dosaggi cortisonici molto più elevati  senza esitazioni.

I pazienti da me curati al domicilio con questo approccio  terapeutico sono ormai un certo numero ed in un solo caso ho dovuto ricorrere al ricovero del paziente  per un deficit di ossigeno ed anche in questo caso è stato sufficiente una degenza  in reparto con  una adeguata  assistenza senza necessità di ricorrere a terapia intensiva.

Per quanto riguarda poi i dubbi  che questo virus non inducesse la produzione di anticorpi , personalmente a distanza ormai di 8 mesi dalla malattia mi ritrovo  , come già detto , con un esame sierologico ricco di immunoglobuline G a conferma della mia buona risposta immunitaria nonostante sia un ottuagenario. Quale è la logica deduzione?

La  febbre elevata sottintende un contagio con  elevata carica virale ed  una conseguente attivazione dei linfociti B responsabili della produzione di anticorpi specifici , esattamente come avviene con qualsiasi virus influenzale.