Salpando verso New York, il 21 agosto 1909, Freud si rivolse a Jung dicendogli: “Non sanno che portiamo la peste”. Ora la peste, centodue anni dopo, arriva a Venezia con il film del regista dell’inconscio, il canadese David Cronenberg. Si intitola, significativamente, “A dangerous method” e sarà nelle sale dal 30 settembre.
Se ne sta già parlando molto, e avremo modo di tornaci sopra. Il film affronta il tema della nascita della psicoanalisi, in particolare il rapporto tra Freud, l’allievo e poi rivale Jung e la paziente – successivamente laureatasi in medicina e divenuta anche lei analista – Sabina Spielrein. Un triangolo amoroso alle fondamenta della disciplina dell’inconscio.
Nello stile di Cronenberg, anche se il film è quasi interamente sviluppato sui dialoghi, emergono i lati oscuri, violenti, torbidi e perversi dell’animo umano. Anche di coloro che, tali parti oscure, dovrebbero analizzare, comprendere e curare.
Ha detto Cronenberg in un’intervista rilasciata a Fulvia Caprara de La Stampa: «La psichiatria ha naturalmente influenzato tutti i miei film, anche se, fino a questo momento, a differenza di altri registi, non l’avevo mai affrontata direttamente». Ma nel film, in realtà, non si parla di “psichiatria”, ma semmai di problemi psichiatrici affrontati dal “pericoloso metodo” della psicoanalisi.
Perché la psicoanalisi viene definita un “metodo pericoloso”? Sono molte le critiche che, dalla nascita della disciplina fino ai giorni nostri, le sono piovute addosso. Dal fatto di basarsi su osservazioni empiriche e non su dati scientifici. Al fatto che non esistessero metanalisi dei risultati ottenuti con i pazienti. Al fatto, non ultimo, che i padri fondatori, e molti seguaci, non avessero tenuto un comportamento propriamente corretto, né tantomeno morale, con i propri pazienti. In particolare le pazienti donne.
Il film, tratto dal testo teatrale The talking cure dello sceneggiatore Christoper Hampton, affronta questo delicato aspetto della psicoanalisi al suo sorgere. La cura delle parole e il giro di pazienti donne, amanti e personaggi ambigui. Freud e Jung ne parleranno, anche per corrispondenza, e ne nascerà, tra le altre, la teoria del “transfert” e “controtransfert”.
La storia si dipana, tra gli altri, a partire di due personaggi, Sabina Spielrein e Otto Gross. Furono entrambi pazienti di Jung e successivamente, da analizzandi, intrapresero il percorso formativo e divennero a loro volta analisti. I documenti storici (si veda ad esempio I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi dello storico Eli Zaretsky della New York University) mostrano molto chiaramente come gli esordi della psicoanalisi furono improntati all’intuizione, creatività, genialità dei fondatori (il particolare Freud e Jung), ma furono anche impregnati da un’atmosfera torbida, promiscua, sessualmente carica.
La psicoanalisi fungeva da cura per i repressi. Liberava fantasie erotiche, di cui gli stessi analisti, capitava, se ne giovassero. Molti dei primi analisti intrecciarono relazioni con le loro pazienti. Fu il caso di Jung con Sabina Spielrein, in cura con una diagnosi iniziale di schizofrenia, e di Otto Gross, di cui nel film si vedranno le prodezze, un erotomane in cura, sempre da Jung all’ospedale psichiatrico Burghölzli dell’Università di Zurigo, per problemi di tossicodipendenza. C’era una strana e pericolosa commistione tra pazienti, curanti, problematiche psicologiche e sessuali, e messa in atto delle medesime.
Ferenczi, altra figura di spicco della nascente psicoanalisi, fu legato sentimentalmente a due pazienti, Gizella Pálos, che poi sposerà, e alla figlia della medesima, Elma. Scrivendo a Freud, osservò: «Mi ero trovato a pensare che non è giusto usare lo stesso divano per la professione e per le prestazioni amorose. Una persona dotata di acuto senso dell’olfatto avrebbe potuto sentire quel che era successo».
Insomma, gli psicoanalisti, e gli analisti del profondo, scoperchiano il vaso di Pandora della sessualità repressa del tempo, e ne approfittano. Commenteranno pure che le pazienti isteriche sono scatenate, al riguardo. Un metodo pericoloso, non c’è dubbio. Specialmente se utilizzato senza etica e senza freni.
Al film di Cronenberg, che andremo a vedere e commenteremo, c’è un precedente di qualche anno fa, sempre sul rapporto tra Jung e Sabina Spielrein: Prendimi l’anima di Roberto Faenza, un altro regista che ama scandagliare i recessi e i tormenti della psiche.
Aggiornamento: Ho visto il film, uscito oggi, 30 settembre, a Milano come nel resto d’Italia. Inizia con un urlo e termina con un silenzio. In mezzo un bigino della psicoanalisi e del rapporto prima solidale e infine conflittuale, fino alla rottura, tra Freud e Jung. L’elemento disturbante, a parte l’erotomane e tossicomane Otto Gross, è dato da Sabine Spielrein. Colei che scatena in Jung la passione erotica e amorosa. Tra un torbido incontro amoroso e l’altro, la sintesi degli episodi “storici” del rapporto Freud-Jung. La diatriba tra le tensioni mistico-esoteriche di Jung e la fermezza di Freud, perennemente col sigaro in bocca, nel voler mantenere la nascente psicoanalisi dentro i binari della razionalità e della scientificità.
C’è persino il famoso e leggendario episodio degli schiocchi nello studio di Freud, mentre Jung cerca di convincerlo ad occuparsi anche di telepatia e ricerca psichica (la vera denominazione di allora della attuale “parapsicologia”). Episodio che Freud liquida come effetto del riscaldamento e conseguente dilatazione del legno della libreria, deridendo Jung per la sue tensioni paranormali. Non poteva mancare l’altro episodio riportato da gran parte delle mitostorie della psicoanalisi, e citato anche qui: Freud e Jung in nave alla volta di New York, in compagnia di Ferenczi, e la storica frase di Freud sulla “peste” che starebbero portando negli Stati Uniti. E neppure manca lo svenimento di Freud, su cui è stato addirittura scritto un intero libero (S. Rosenberg, Perché Freud è svenuto).
Ancora, un rapido, fuggevole accenno a Joseph Breuer, colui che, a detta dello stesso Freud poi antagonista, fu il suo vero maestro e ispiratore, con ricerche, lavori fondamentali sull’isteria e sull’ipnosi, nel concepire e strutturare la psicologia del profondo. E c’è una ricostruzione museale (potrà essere usata a scopo didattico) dei marchingegni per registrare i tempi di reazione nel test di associazioni libere, con tanto di cronometro e tracciato rudimentale su cilindro rotante di cuoio. Jung somministra il test alla moglie e Sabine Spielrein, già avviata allo studio della medicina e in seguito della psicoanalisi, sovrintende ai marchingegni. Interpretandone alla fine i risultati, una volta di nuovo sola con Jung.
Dal match cinematografico (Fassbender-Jung, Mortensen-Freud) esce vincente Freud: una roccia, una guida, un maestro che non perde mai il controllo di se stesso. Fino al punto di svenire, per non adirarsi, dopo una diatriba intelletuale con Jung sulla storica questione “Akhenaton-Mosè” e il monoteismo. Soccorso a terra da Jung, Freud gli sussurra “come dev’essere dolce morire”. Oppure, per far capire il rapporto tra i due, sempre più un duello di intelligenze e sensibilità, Freud che sulla nave verso gli Stati Uniti si rifiuta diplomaticamente di ricambiare a Jung lo scambio di racconti di sogni personali, dalla cui interpretazione potrebbe risultare scalfita la propria autorità di padre fondatore, maestro e guida della disciplina del profondo. Un Freud dunque ipercontrollato (il Super-io) e, nelle regole del cinema, un antagonista Jung (l’Es) che si abbandona alle pulsioni sotterranee (sessuali, paranormali, sciamaniche, mistiche).
Il film non mi ha convinto del tutto. Emozioni assenti. Se si esclude qualche ridicola pruderie per le scene sado-maso, a suon di cinghiate e sculacciate, tra Jung e la Spielrein. Totalmente cerebrale. Nessuna scena memorabile. Girato e fotografato sicuramente alla grande. Dialoghi ineccepibili, con qualche lieve cedimento qua e là. E qualche raro momento di umorismo, contenuto: Jung che rimpinza il suo piatto di polpettone, invitato a pranzo nella casa di Freud a Vienna. Oppure, Otto Gross con la sua fastidiosa-simpatica invadenza, le sue teorie sulla necessità di dare libero sfogo alla proprie pulsioni, in specie quelle sessuali.
Anche se è un Cronenberg diverso e questa volta incompiuto, rimane la sua ossessione per le trasformazioni psicosomatiche, qui a partire dall’inconscio. Che nel film però, stranamente, non viene mai nominato. Questa volta più che il tocco del genio Cronenberg, c’è la sua “punzecchiatura”. Si vede la mano del regista canadese (che non ha mai girato neppure una scena negli Stati Uniti, in tutti i suoi film), il suo stile, ma stavolta troppo intellettuale, freddo, arido, didascalico. C’è passione, ma solo per la ricostruzione storica: è più simile a un docufilm, che non a un film.
Riconosco che non è semplice trarre un buon film dalle oceaniche e intricate vicende della psicoanalisi (“sarebbero state necessarie otto ore di film” disse il regista John Huston che realizzò Freud, passioni segrete). E’ sempre stato un rapporto di amore e odio tra cinema e psicoanalisi. La psicoanalisi che entra a far parte del bagaglio culturale del critico cinematografico. Gli sceneggiatori e i registi che, quando parlano di psicoanalisi dal punto di vista storico, prediligono gli aspetti perversi e torbidi. In definitiva, i migliori film “di” psicoanalisi sono quelli che ne utilizzano le tematiche, senza trattarne direttamente o totalmente (vedi Hitchcock).
Faccio una previsione (oppure do un suggerimento). Qualche sceneggiatore e qualche regista si metteranno ora al lavoro su un altro testo parapsicoanalitico: Le lacrime di Nietzsche di Irvin D.Yalom.
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L’arte di ricordare tutto. Joshua Foer il “Gianni Golfera” americano
Foer ha scritto questo volume a seguito di un articolo che gli venne affidato dal suo giornale: seguire e raccontare la competizione, il campionato americano della memoria, che ogni anno si svolge a New York. In seguito Foer si appassiona alle tecniche per migliorare e potenziare le capacità di memoria e apprendimento, finendo con l’allenarsi regolarmente dieci o quindici minuti al giorno, per una decina di mesi. Foer, prima come ogni comune mortale (dimenticava dove aveva messo le chiavi dell’auto o dove aveva parcheggiato la medesima), vede progressivamente incrementare le sue capacità mnemoniche. Fino a diventare egli stesso un “campione” di memoria. Fino a partecipare, un anno dopo, al campionato americano di memoria, e vincerlo. Qualche mese dopo si ritrovò a rappresentare gli Stati Uniti nel campionato mondiale. Egli stesso aggiunge, nell’intervista a cura di Andrea Visconti sull’Espresso di questa settimana: “Non feci bella figura perché gli europei sono più forti degli americani”.
Va fatto notare che Joshua Foer dice le stesse, identiche cose che va sostenendo e insegnando da oltre dieci anni Gianni Golfera nel nostro Paese. E che sono state diffuse anche attraverso libri come La memoria emotiva (2003) e Il grande libro della memoria, uscito l’anno passato, entrambi editi da Sperling & Kupfer. Ad esempio il potere delle immagini. Dice Foer: «Gli europei hanno tecniche elaborate per trasformare le informazioni in immagini. I migliori campioni europei sono in grado di trasformare in immagini qualsiasi numero da zero a un miliardo. La memoria non è altro che l’abilità di creare velocemente immagini indelebili».
Ma perché questo legame tra memoria e immagini? Nel Grande libro della memoria, nel paragrafo intitolato non a caso “Il potere delle immagini”, iniziamo dicendo: “Il cervello dei nostri progenitori era soprattutto visivo, e questo è il motivo per cui le immagini erano e sono ancora oggi così importanti. Riflettiamoci un attimo. Di cosa poteva mai aver bisogno un uomo delle caverne? Di imprimersi nella memoria immagini relative a luoghi, animali, ma anche divinità che credeva lo potessero proteggere da tutti i pericoli che la dura vita sul pianeta gli riservava”. Fino a giungere alla nostra “civiltà delle immagini”, le immagini rappresentate e quelle mentali hanno avuto ed hanno grande importanza per la fissare le informazioni astratte ed apprendere.
Gianni Golfera, per quanto discusso, ha avuto ed ha il merito di divulgare ed insegnare tutto ciò. Compresa quella che pare una scoperta diffusa dal Joshua Foer: il ruolo degli italiani dei secoli passati nel perfezionare e diffondere l’arte della memoria. Tra gli altri, Giulio Camillo. Pare strano, ma sono anche queste informazioni e nozioni largamente diffuse da Gianni Golfera attraverso le sue lezioni, interviste, libri. Informazioni diffuse da Gianni Golfera anche negli Stati Uniti, tra l’altro, pure attraverso un sito in lingua.
E in più, aspetto fondamentale, anche questa presentata come “scoperta” di Foer, ogni persona in grado di applicarsi ed allenarsi nelle mnemotecniche, può veder migliorare ed incrementare le proprie capacità di memoria nel tempo. Gianni Golfera sostiene da sempre che non occorre essere soggetti eccezionali, o addirittura “idioti sapienti” come si pensava un tempo, per memorizzare e ripetere velocemente nozioni apprese in pochi minuti. Lo si può fare applicando metodi, strategie e allenamento.
C’è solo da augurarsi, ora, che qualcuno non se ne esca dicendo che “Gianni Golfera è lo Joshua Foer italiano”. Semmai è il
contrario. Ma, come sempre, guardiamo ed esaltiamo ciò che ci giunge da oltreoceano, mentre tendiamo a sottovalutare, ignorare o, addirittura, denigrare ciò che abbiamo più a portata di mano. Anzi, di cervello.
Aggiornamento 1: sto leggendo il libro di Joshua Foer. E’ indubbiamente ben scritto. Non è un manuale per potenziare la memoria, ma piuttosto un saggio di come sia nata, diffusa e arrivata fino ai giorni nostri l’arte della memoria. L’excursus è sempre quello, esposto in quasi tutti i libri che si occupano di storia delle mnemotecniche: da Simonide di Ceo fino ai mnemonisti di oggi. Che allenano e utilizzano la memoria come un muscolo. Tanto da partecipare ai campionati di memoria, nazionali e mondiali. Vi sono oggi veri e propri atleti della memoria, organizzati in associazioni, club o scuole di provenienza. Il mnemonista, colui che eccelle nello sfoggio delle sue capacità mnemoniche, può essersi fatto da sé, attraverso lo studio di manuali, oppure aver seguito scuole e corsi. Foer ci racconta come, partito dal voler realizzare un servizio giornalistico sul brain training mnemonico, sia a sua volta diventato un “campioncino” di memoria.
Vi sono guru della memoria. Venerati, pagati e invitati alle trasmissioni tv. Essere grandi performer di memoria, in passato equivaleva ad essere considerati maghi, come accadde a Giordano Bruno. Oggi invece il mnemonista di successo è una star, un personaggio in bilico tra la spettacolo, il fenomeno da baraccone e la cultura. Sta all’intelligenza e alla saggezza del mnemonista proporsi come un allenatore, un trainer, un coach in grado di migliorare le prestazioni mnemoniche di chi segua i suoi insegnamenti. La curiosità suscitata da queste tecniche è data dal fatto che la maggior parte della gente lamenta di avere “poca memoria”. In realtà, terminato l’iter scolastico – e spesso anche durante il medesimo – capita che non si sappia bene come funzioni la memoria, come la si addestri e, soprattutto, come organizzare e richiamare, al momento del bisogno, nozioni e informazioni apprese. Non ho mai conosciuto qualcuno che non volesse avere più memoria o migliorare il modo di farla funzionare.
Libri come questo di Foer mostrano che ogni persona con un adeguato e costante allenamento può migliorare sensibilmente le proprie capacità mnemoniche. Che poi i guru della mnemotecnica suscitino invidie, acredine e accese rivalità, non capita soltanto a Gianni Golfera. Ne è ad esempio oggetto pure Tony Buzan (quello delle “mappe mentali”). «La comunità dei mnemonisti – scrive Joshua Foer – che partecipano alle competizioni si suddivide nettamente in due fazioni: quelli che considerano Buzan il nuovo Messia e quelli convinti che le sue idee sul cervello siano gonfiate con l’imbroglio e a volte persino poco scientifiche. Questi ultimi sottolineano, non a torto, come Buzan predichi sì una “rivoluzione globale nel campo dell’istruzione”, ma abbia avuto molto più successo nel creare un impero commerciale globale che nell’introdurre i suoi metodi nelle aule».
Tra le righe di questo excursus, dedicato soprattutto a coloro che oggi hanno fatto delle abilità mnemoniche una professione e una abilità spettacolare, vi sono comunque contenute descrizioni su come i campioni allenano la memoria, riflessioni sull’importanza della memoria in un mondo digitalizzato, raffronti con quanto la ricerca sul cervello va rivelando. E pure pennellate divertenti e ironiche. Come quando Foer conquista la medaglia di bronzo a una gara mnemonica e in seguito si addormenta, risvegliandosi con un gran cerchio rosso sulla guancia. Si era “dimenticato” di togliere la medaglia dal collo…
Aggiornamento 2: Claudio Castellacci mi fa notare che la prefazione in corsivo (Simonide di Ceo e la nascita dell’arte della memoria) del libro di Foer “ricorda molto” un passaggio del classico L’arte della memoria di Frances A. Yates (Einaudi).
Aggiornamento 3: domani, venerdì 22 giugno 2012, Gianni Golfera parteciperà ad un seminario sulla memoria all’Azienda ospedaliera universitaria pisana (Aoup). All’incontro, dopo un’introduzione di Ubaldo Bonuccelli, direttore dell’Unità operativa di neurologia dell’Aoup, una presentazione di Cristina Pagni sulle basi della memoria e di Gloria Tognoni sul disturbo cognitivo lieve, Golfera eseguirà alcune dimostrazioni e presenterà il suo metodo.
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