Il prossimo 21 settembre si celebra la Giornata mondiale dell’ Alzheimer. Un’occasione per riflettere se le continue acquisizioni in neuroscienze stiano conducendo anche a scoperte utili per la cura delle malattie neurodegenerative e, in particolare, di una tra le più temute e, a tutt’oggi, irrisolte: l’Alzheimer.
Sugli aspetti genetici e molecolari si sta indagando da tempo, e alcuni traguardi di rilievo sono stati raggiunti. Che tuttavia non si sono tradotti in possibilità terapeutiche efficaci né, tantomeno, risolutive. Anche perché quasi tutte centrate sulle placche proteiche di beta-amiloide, senza tuttavia ottenere grossi vantaggi sui sintomi progressivi della malattia. Altrettanto dicasi per la proteina tau che si sviluppa all’interno dei neuroni delle persone colpite da Alzheimer. Ma la domanda cruciale che oggi i ricercatori si stanno ponendo è: l’ammasso di queste proteine intracellulari sono la causa o l’effetto di qualcos’altro a monte?
Si delinea qualcosa di apparentemente nuovo che, se confermato, aprirà la strada a nuove indagini e future possibilità di trattamento. Forse più attuabili nelle forme ereditarie. Nel cellule cerebrali delle persone colpite da Alzheimer, stando alle nuove scoperte, sussisterebbe una condizione nota come “iperploidia”, ovvero un numero superiore a due set cromosomici che sarebbe normale attendersi. Nel cervello normale circa il 10 per cento delle cellule sono iperploidi, mentre nei soggetti studiati, negli stadi precoci della malattia di Alzheimer, la quantità risultava doppia. E tali cellule andavano incontro a morte nelle fasi finali della malattia, lasciando il cervello privo di neuroni. Nelle ricerche successive, si è cercato di comprendere se le cellule iperploidi anormali fossero diffuse ovunque, oppure fossero confinate nelle aree cerebrali più colpite dalla malattia di Alzheimer. La risposta sperimentale ha evidenziato una dispersione uniforme nel cervello sano, mentre le cellule anormali, nel caso di soggetti colpiti da Alzheimer, si limitavano strettamente alle regioni deputate alla formulazione del “pensiero” e della “memoria”. Le aree più colpite dall’Alzheimer.
Come ha riferito nel maggio scorso la rivista New Scientist, in un articolo di Andy Coghlan, il gruppo di ricerca cappeggiato da Thomas Arendt presso l’Università di Leipzig in Germania, ha esaminato i tessuti prelevati da cervelli sani e dai cervelli di quanti avevano una diagnosi di morbo di Alzheimer, al momento della morte, o mostrassero segni iniziali della malattia. La ricerca ha evidenziato che circa il 10 per cento dei neuroni nel cervello delle persone sane conteneva più di due set di cromosomi, una condizione nota come iperploidia. La scoperta sorprende in quanto tutte le cellule del corpo umano si suppone che contengono solo due set di cromosomi. Non solo, ma ancora più importante è il fatto che nel periodo appena precedente allo sviluppo del morbo di Alzheimer, o nei primi stadi della malattia, la Arendt e colleghi hanno scoperto che le cellule iperploidi erano una quantità doppia rispetto al comune. E, nella fase finale del morbo di Alzheimer, delle cellule cerebrali perdute, il 90 per cento erano iperploidi (American Journal of Pathology, DOI: 10.2353/ajpath.2010.090955).
Andando più nel sottile, le cellule cerebrali iperploidi delle persone malate di Alzheimer contengono differenze sostanziali da quelle delle persone malate. E nonostante non si conosca ancora a fondo il ruolo delle cellule iperploidi nel cervello sano, il quello malato sembrano essere il maldestro risultato di duplicazione cellulare, portando con sé, come conseguenza, un elevato, e anormale, numero di cellule iperploidi.
E’ ancora prematuro dire se vi sia un ruolo diretto dell’anormale numero di cellule iperploidi nella genesi del’Alzheimer, per ora si tratta semplicemente di una correlazione. Tuttavia siamo di fronte ad una nuova evidenza sperimentale di cui tener conto, in una patologia neurodegenerativa che tuttora non lascia speranze.
I passi successivi, già avviati da altri gruppi di ricerca (ad esempio in Spagna, José María Frade e colleghi all’Istituto Cajal di Madrid) sono volti a chiarire una serie di interrogativi: la quantità di cellule extra sono già presenti nel cervello del feto che in seguito, da adulto, svilupperà la malattia di Alzheimer, oppure chi si ammala da adulto produce più cellule del dovuto a seguito della malattia? E infine: se questa iperproduzione di cellule ha un ruolo nella malattia, come rallentarla o addirittura bloccarla? Domande aperte, a cui la ricerca successiva dovrà dare risposte. Intanto, si è avviata una nuova fase di fiducia tra i ricercatori.
News: La Fondazione Manuli, che si impegna per l’aiuto concreto ai malati di Alzheimer e alle loro famiglie, il 20 settembre 2011 terrà a Milano il convegno “L’isola in città come miglioramento della qualità di vita della persona con Alzheimer. Quali risultati?”.
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