Se bevi soft drink pensando che ti faccia bene, ti sbagli. O meglio: magari ti fa bene alla linea, ma rischi qualcosa di peggio. Stando almeno a un nuovo studio pubblicato dalla maggiore rivista medica che si occupa della prevenzione e della cura dell’ictus, “Stroke”. Era già accaduto per certi dolcificanti. Usarli abitualmente al posto dello zucchero per non ingrassare, è risultato comunque dannoso. Qualcosa di simile si sta evidenziando per le bevande dietetiche: consumarne ogni giorno espone ad un rischio maggiore di ictus ischemico e di Alzheimer.
Del resto, le bevande dietetiche sono per l’appunto dolcificate artificialmente con sostanze quali saccarina, acesulfame, aspartame, neotamo, sucralosio. Ma attenzione: in questo studio, pubblicato da “Stroke”, non si parla di rapporto di causa-effetto, ma bensì di correlazione. Tuttavia si tratta di uno studio esteso, con caratteristiche del campione da tenere in considerazione. Si tratta di un campione di oltre 4.000 volontari seguiti per più di dieci anni. Lo studio ha seguito 2.888 persone a partire dall’età di 45 anni esaminando la maggiore probabilità di ictus. Inoltre, 1.484 partecipanti di 60 anni o più anziani sono stati studiati per l’aumentato rischio di demenza. Va aggiunto che è probabile che tali consumatori abituali e giornalieri di bevande dietetiche lo avevano fatto proprio perché affetti da obesità e diabete. Malattie che espongono maggiormente ai rischi di danni cardio e cerebrovascolari.
In ogni caso, i risultati sono stati adeguati a variabili quali l’età, il sesso, l’apporto calorico, qualità della dieta, l’attività fisica e il fumo. I dati della ricerca sono stati così commentati da Matthew Pase, ricercatore in neurologia della Boston University School of Medicine: «Abbiamo scoperto che le persone che consumavano bevande dietetiche su base giornaliera hanno avuto tre volte più probabilità di sviluppare sia ictus e che demenza nell’arco di 10 anni rispetto a quelli che non avevano consumato bevande dietetiche». In definitiva, uno studio che fornisce ulteriori prove per collegare il consumo di bevande dolcificate artificialmente con il rischio di ictus. E ciò non assolve l’uso giornaliero di bevande zuccherine, che hanno un effetto deleterio sul cervello. Come commenta nel suo blog la Boston University School of Medicine: “I dati del Framingham Heart Study (FHS) hanno dimostrato che le persone che consumano più di frequente bevande zuccherate, come bibite e succhi di frutta, hanno maggiori probabilità di avere carenze di memoria, minori volumi cerebrali in generale e piccoli volumi dell’ippocampo, zona del cervello importante per la memoria”. Conclusioni pratiche: meglio preservare il cervello e la memoria. Ricordandosi di bere acqua.
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Amour, angosciarsi al cinema
La storia, per la regia di Michael Haneke, è quella di due vecchi coniugi interpretati dagli eccelsi Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva. Si svolge tutta tra le pareti di un ricco e ampio appartamento. Una signorile casa borghese di una volta. Con pianoforte, tappeti, suppellettili e librerie. Lei insegnante di musica, come il marito, viene colpita da quello che un tempo veniva definito “attacco ischemico transitorio”. Nella tranquilla routine domestica, mentre sono entrambi seduti al tavolo di cucina, lei ha un’assenza. Un blackout. Un evento che da quel momento in poi cambierà radicalmente e drammaticamente la loro vita di coppia.
Operata alla carotide ostruita, ne subisce un ulteriore e più pesante ictus cerebrale che le causa una emiparesi. Da qui inizia il calvario. Domestico. Perché il marito, anche contro il parere della figlia, interpretata da Isabelle Huppert, si ostina tenacemente, con dialettica, dignità e logica stringenti, a tenere e seguire la moglie a casa. Che appena tornata dal primo ricovero in ospedale, aveva fatto promettere al marito di non riportarla mai più in ospedale. Qualsiasi cosa fosse di nuovo accaduta.
La visione del film è la visione di questo tragedia domestica. Di questa progressiva discesa agli inferi. Da una vecchiaia serena, fatta di piccole e abituali cose, di concerti seguiti assieme. Di piccoli pasti consumati in cucina. A una casa invasa dalla malattia. Dagli ausili sanitari. Dagli estranei. Dall’umiliazione di dover subire ciò che non si vorrebbe mai nella vita. E, più che questo amore coniugale, la volontà di mantenere fede al reciproco patto di solidarietà e assistenza. Fino alle estreme conseguenze.
Perché infliggersi un simile strazio? Nel senso di vedere, e per alcuni che l’hanno vissuta, immedesimarsi nella visione estremamente realistica delle conseguenze dell’ictus. Di un essere, di un corpo che progressivamente degenera e ci fa soffrire della sua sofferenza. Confrontarsi con la visione dei limiti della sofferenza umana. Della vecchiaia e della perdita di dignità del proprio corpo e del proprio essere. Anche a causa, magari, di operatori sanitari che dovrebbero dedicarsi a tutto tranne che ai malati, ai disabili e ai vecchi. Confrontarsi con la progressiva perdita di una vita degna di tale nome e del desiderio di farla finita con la sofferenza senza speranze e le umiliazioni continue. Tutto questo merita di essere visto al cinema?
Andare al cinema non soltanto per distrarsi. Per riflettere. Discutere. Immedesimarsi. Angosciarsi. Non fanno effetto decine di morti ammazzati nei thriller o negli horror, anche nei modi più efferati. Ma questo corpo cinematografico che si ammala, degrada, umilia, viaggia verso la fine, fa effetto, eccome. Perché i corpi di morti ammazzati dei film spettacolari non ci riguardano. Invece questo corpo ci riguarda. Non è cinema. E’ una finestra aperta sulla nostra vita. Sono i neuroni specchio che si attivano e ci fanno vivere quella sofferenza. Dallo schermo al nostro, di corpo.
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