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L’eterno ritorno di Pinocchio. Intervista a Suzanne Stewart-Steinberg


La “profezia” di Suzanne Stewart-Steinberg si sta avverando. Ogni volta che l’Italia attraversa crisi di qualche tipo – economica, sociale, politica, ma soprattutto in rapporto al potere e all’autorità – Pinocchio ritorna. Una appresso all’altra due pubblicazioni, una economica e una letteraria, tornano a rinverdire il mito e la costanza di Pinocchio. Il Mondo di questa settimana dedica copertina e servizio interno a “Professione Pinocchio”. La Lettura, supplemento domenicale di cultura del Corriere, pubblica il lungo articolo di Paolo Di Stefano dal titolo “Studiamo Pinocchio, fa bene all’Italia”.

Docente di italianistica e letteratura comparata alla Brown University, Suzanne Stewart-Steinberg ha scritto un poderoso volume (L’effetto Pinocchio, Elliot) su come si è creata l’identità italiana nell’era moderna. O meglio, come questa identità sia da un certo punto di vista fittizia. Artefatta. Mobile. Caratterizzata da “scioltezza” e “movimento” irrefrenabili, magari senza meta e senza scopo ben definiti. Proprio come Pinocchio. Un burattino che presuppone un burattinaio. Ma che nel libro di Collodi è senza fili e si muove autonomamente. Quindi un robot? Un automa? Nessuno lo sa. Tutti coloro che hanno tentato di interpretare le innumerevoli letture che di Pinocchio è possibile fare, ci lasciano alla fine con un senso di incompiuto.

Per non parlare di coloro che vi vedono simbologie di vario tipo, esoterico e new age ante-litteram, persino di tipo massonico. Emilio Servadio che conobbi e frequentai, padre della psicoanalisi italiana, aveva raggiunto il 33 grado della gerarchia massonica, e successivamente si era posto “in sonno”. Quando lo incontrai nella sua casa-studio a Roma, ai Parioli, mi mostrò orgoglioso una delle prime copie a stampa del capolavoro immortale di Collodi, gelosamente custodita avvolta nel cellophane e chiusa in un armadio. Servadio dedicò diverse pagine all’interpretazione psicoanalitica di Pinocchio, vedendoci pure simbologie di carattere massonico.

Effetto Pinocchio 

«Ciò che ho definito “effetto Pinocchio” – scrive Stewart-Steinberg – è proprio questa strana commistione tra l’ansia per la potenziale vacuità del soggetto italiano (per il suo carattere inventivo e retorico, per la sua immaturità e persino per la sua natura inumana, da burattino) e la tendenza a interrogarsi in maniera approfondita sul legame sociale, in una società moderna, post-liberale. Pinocchio non è un bambino né un adulto, non è umano né inumano, non è un burattino tradizionale né un soggetto autonomo. Egli non appartiene nemmeno, evidentemente, alla tradizione illuministica occidentale, interessata agli automi, agli esperimenti con soggetti di tipo meccanico».

Questa natura ambigua, metamorfica, cangiante di Pinocchio, ne fa l’ideale rappresentazione dell’italianità. Anzi, dell’ “unico personaggio della letteratura italiana”, come lo ha definito Raffaele La Capria.

Suzanne Stewart-Steinberg che, oltre al suo settore di insegnamento e di ricerca, ha una formazione in sociologia e interessi che spaziano dalla storia socio-politica a quella della medicina e della psicoanalisi, è convinta che la fortuna eterna di pinocchio sia data dal fatto che il testo in sé non significhi proprio nulla. O meglio, sia in sostanza una favola in cui sono stati sparsi intuizioni geniali relative all’italianità, a come si è andata formando l’essere italiano in una nazione che non c’era. A quel monito “abbiamo fatto l’Italia , ora dobbiamo fare gli italiani”. Ma si sono mai “fatti”, poi, gli italiani? Quell’artificioso monito ha trovato realizzazione, o il farsi e il disfarsi degli italiani è proprio simile al farsi e disfarsi di un burattino?

Per questo motivo l’enciclopedico volume di Suzanne Stewart-Steinberg che affronta la “costruzione di una complessa modernità” negli anni 1861-1922, determinanti nella storia Italiana, passa in rassegna non solo i testi di letterati, storici, educatori, ma pure di filosofi, medici, psichiatri, antropologi e criminologi dell’epoca, come il tanto discusso e controverso, Cesare Lombroso. Un intero capitolo del volume è tra l’altro dedicato all’interesse  di Lombroso per il “continente oscuro” dell’animo criminale, ma pure per l’ipnotismo e lo spiritismo. Celebre il suo studio della medium dell’epoca Eusapia Palladino.

Insomma, Pinocchio viene preso da Stewart-Steinberg come pretesto per tentare di interpretare un complesso periodo storico antecedente l’avvento della cosiddetta modernità italiana, in cui si agitavano figure di pensatori, filosofi, medici, psichiatri, scienziati in bilico sul filo del rasoio del pensiero razionale e irrazionale, del sentirsi parte di una comunità nazionale e, allo stesso tempo, tenersene psicologicamente fuori, oppure oltre.

«La figura di Pinocchio –  spiega Stewart-Steinberg nel suo saggio – è una figura che guida me e anche l’Italia. Dalla sua invenzione e dal successo eccezionale del 1881, Pinocchio è sempre stato allo stesso tempo un ragazzo e un uomo (la sua età è stata oggetto di un intenso dibattito): ribelle laico ma anche Cristo moderno e popolare; burattino ma anche essere che agisce secondo la propria volontà. Pinocchio, come è noto, non ha fili: questo libro si occupa di tutti quei fili invisibili ai quali potrebbe essere attaccato».

Suzanne Stewart-Steinberg parla e scrive perfettamente l’italiano. Sono noti del resto gli stretti rapporti tra la Brown University e il mondo accademico italiano, in particolare l’Università di Bologna. Da “L’effetto Pinocchio” traspare questo amore ambivalente di Stewart-Steinberg per la cultura italiana e l’italianità.

Italiani e italianità mai completamente compiuti, sempre un po’ burattini e un po’ umani. Sempre un po’ autonomi, e sempre un po’ automi. Liberi nell’inventiva, nella creatività, nell’arte e nella fantasia, e succubi del potere e dell’autorità.

Senza voler entrare nel merito dell’aspetto storico e letterario del volume, ci interessa capire cosa intenda Suzanne Stewart-Steinberg con “effetto Pinocchio” e cosa abbia a che spartire con l’essere italiani, di ieri, ma pure di oggi. Di come corpo e psiche degli italiani – rigidi come un burattino di legno rispetto al potere, sciolti e flessibili per loro intima natura – siano diventati quello che sono.

Cosa significa “fare gli italiani” e cosa emerge dai testi originali che ha preso in esame per la sua ricerca?

Se l’obiettivo era quello di fare gli italiani, nelle mie letture dei testi dell’epoca e successivi,  ho rilevato grossomodo  due approcci al progetto. Da un lato, l’ unificazione e la formazione dell’identità è stata vista come un processo che doveva venire dall’alto.  Come un processo imposto dall’esterno su un popolo che non era (ancora) italiano, ma bensì una sorta di massa informe, o di una sostanza che ha richiesto un imprimatur da parte dei dirigenti della nuova nazione. Il processo di formazione nazionale era vista come un’operazione di intervento attivo da parte uno stato  per cui si era convenuto avesse una funzione largamente tutelare. L’accettazione, ma anche la critica di questo processo si riflette nella celebre frase di Antonio Gramsci secondo cui  il Risorgimento italiano era stato solo una rivoluzione passiva.

La seconda posizione, invece, ha sostenuto che la cosiddetta “italianità” ineriva tutti i soggetti del territorio, ma doveva però essere portata alla luce del sole. Valorizzata attraverso il processo di una vasta gamma di conoscenze interdisciplinari. Questa posizione è stata sostenuta da pensatori positivisti  e intellettuali che furono attivi in antropologia, criminologia, sociologia, pedagogia, nelle burocrazie giuridiche e amministrative, negli ospedali, nelle carceri e così via. La seconda posizione ha poi presentato un quadro molto diverso: si è ipotizzata la presenza di una nazione moderna  “in formazione”, che giaceva latente, ma tuttavia già esistente.

Tra i pensatori che riflettono queste posizioni, che analizzo nell’Effetto Pinocchio, vi sono lo stesso Carlo Collodi,  autore di Pinocchio, Cesare Lombroso e Maria Montessori. Credo che occorra stare attenti a non esagerare la distinzione tra questi due approcci. Primo, perché non sono stati quasi mai consapevolmente dichiarati. In secondo luogo, molti pensatori si sono trovati ad articolare una sorta di combinazione dei due.

Pinocchio è noto nel mondo per la trasposizione cinematografica che ne ha fatto Walt Disney. Questa versione animata secondo lei si discosta in modo importante dal testo originario di Collodi.

Pinocchio è nato nel 1881 in forma serializzata per una rivista destinata ai bambini. Suo padre, Carlo Collodi,  ha ideato un burattino di legno, le cui avventure lo portano via da scuola e verso la campagna toscana. Pinocchio passa  attraverso una serie di trasformazioni fisiche, tra cui un asino, ma poi, finalmente, alla fine della storia, si trasforma in un bambino vero. La storia è ovviamente conosciuto da tutti ma, purtroppo,  la maggior parte conosce la versione americana di Pinocchio,  quella che ne realizzò Walt Disney nel 1940.

Quella di Disney è una interpretazione molto forte del testo. Fatto ancora più importante è che fornisce un epilogo del racconto che si discosta in un dettaglio significativo dal testo. Il film d’animazione trasforma Pinocchio da burattino in un ragazzo. Il testo di Collodi, invece, è più cauto: il burattino viene lasciato in un angolo, mentre si crea un nuovo ragazzo. In altre parole, Disney sostituisce, Collodi spiazza. E’ una differenza importante, perché quella di Colllodi fa pensare al processo di modernizzazione e secolarizzazione in termini più complessi.

Perché sostiene che Pinocchio è un testo moderno e riflette la cultura italiana di un’epoca intessuta di spinta verso la modernizzazione culturale, sociale e politica?

Pensiamo a come inizia Pinocchio: « C’era una volta…- Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No ragazzi, avete sbagliato: c’era una volta un pezzo di legno. »

Due cose vanno dette su Pinocchio, e sono cruciali. In primo luogo, il libro è allo stesso tempo fin troppo leggibile e profondamente illeggibile. Con questo intendo sostenere che nessun significato può essergli attribuito in modo definitivo. Può essere letto come un racconto morale secondo il quale il burattino cattivo impara la lezione e quindi, come ricompensa, guadagna la soggettività. In questo scenario, Pinocchio passa dall’influenza,  dalla direzione  data dall’esterno, all’autonomia. Ma il libro può anche essere letto così come appare, in cui Pinocchio è libero, corre selvaggio e viene catturato nella rete ideologica di obbedienza e di etica del lavoro e, accecato da tale cattura, non riconosce più i benefici guadagnati di recente dal proprio essere libero. La traiettoria di Pinocchio, in questa lettura, è dall’ autonomia  all’influenza. Influenza sia pur non riconosciuta,  in quanto le corde antiche della tradizione sono state tagliate a favore dei rapporti ideologici.

Entrambe le letture mi sembrano essere perfettamente legittime. Infatti, entrambi presuppongono la modernità del testo: o Pinocchio diventa un liberale, un soggetto consenziente, la cui prima essenza di legno viene sostituita con una soggettività moderna, o egli è colto in strutture ideologiche che sono indipendenti dalla sua volontà. In realtà, qualsiasi interpretazione può essere legata al testo, e questo spiega perché c’è un vera e propria “Pinocchio-interpretazione”, un infinito lavoro di interpretazione e riproduzione del testo originario. Nel 1900 Pinocchio era stata già tradotto in più di 200 lingue, in forme adattabili a ognuno, a tempi, circostanze e culture diverse. Pinocchio esiste nel testo letterario,  nei film, nei cartoni animati, nei teatri. Ci sono stati infiniti sequel al libro originale: ci sono stati Pinocchi fascisti, antifascisti, Pinocchi di ogni genere.

Quindi alla fine cosa concorre a realizzare ciò che lei chiama “effetto Pinocchio”?

Se se c’è una caratteristica fondamentale che descrive Pinocchio, allora è il fatto che è un burattino, ma non ha corde! Oppure, se è davvero un burattino, tali corde sono perlomeno invisibili.  Questo è un altro modo per dire che Pinocchio sembra essere guidato da un burattinaio, da un maestro che dirige o influenza le sue azioni, anche se sembra agire autonomamente. E ‘ lo stato paradossale di questo personaggio – quello che più e più volte è stato descritto come tipicamente italiano – che ho chiamato l’ “effetto Pinocchio”.

Ho citato l’inizio del testo di Collodi, la frase di apertura in cui un re viene sostituito da un fantoccio. Dobbiamo prendere molto seriamente tale sostituzione. Pinocchio, in questo senso, è per me un’allegoria della doppia natura della  soggettività italiana in formazione. L’effetto Pinocchio cerca di cogliere le complesse relazioni che esistono tra autonomia e influenza, e come tale descrive un processo storico, utilizzabile come concetto analitico per la comprensione di tale processo.

In estrema sintesi, l’effetto Pinocchio è la capacità di produrre una qualsiasi lettura del testo di Collodi. Tutti si vedono nel testo, tutti si trovano indirizzati al livello della loro fantasia, e questo portandoci dentro la loro storia personale: Totò, come Benigni, come tutti gli altri. Per questo, non esiste una “corretta” lettura di Pinocchio. Esistono solo letture del testo che riflettono i tempi e le questioni del lettore. In questo senso, “Pinocchio” è un testo vuoto, senza messaggio, oltre quello che i suoi lettori ne vogliono trarre. E’ una specie di schermo bianco su cui i suoi lettori proiettano tutte le loro fantasie. Ma questo è solo un inizio. La questione relativa all’effetto Pinocchio diventa  più  complicata nel momento in cui entrano in gioco le istituzioni: quelle statali e quelle del sapere.