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Joaquin Phoenix il redentore


a-beautiful-day-nuovi-poster-del-thriller-con-joaquin-phoenix-1.jpgA vederla Lynne Ramsay è una gradevole donna paffutella e sorridente. Non immagineresti i film che riesce a fare. Tipo questo You were never really here (non sei mai stato realmente qui, titolo originale di quello usato nell’edizione italiana: A beautiful day e ne capisci il perché alla fine). Lynne Ramsay fa film folli. Potenti e conturbanti come la follia. Tipo …e ora parliamo di Kevin. Regista britannica (Glasgow), apprezzata dalla critica, pluripremiata, Lynne Ramsay fa film che sono cazzotti in faccia. Calci nello stomaco. In A beautiful day mette in scena tutto il male del mondo, tanto, troppo, con qualche piccola, piccolissima, apertura al sentimento. Alla possibilità che la follia umana possa salvarsi dall’autodistruzione. In un mondo dove ricordi, traumi, passioni, crudeltà familiari e sociali, sporche guerre, delitti, perversioni, vero e falso, reale e irreale, sogno e incubo, si frammischiano tra loro. Senza un prima e un dopo. E neppure un durante. Tutto lo schifo e l’abiezione del mondo. In un Joaquin Phoenix che se ne fa corpo e sangue. Un redentore “solo sicario” anche nell’aspetto (chissà perché non ci ha ancora pensato nessun recensore del film) di questa epoca laida e perduta. Disperata e disperante. Angosciata e angosciante. Un redentore che invece di finire inchiodato sulla croce, aggiusta i torti a colpi di martello (“made in USA”, non a caso). Non andate a vederlo se non siete in grado di reggere le emozioni forti. Troppo forti.

 

Kick-Ass, o del cinema violento


 

Ho visto in anteprima nazionale, all’Odeon di Milano, il controverso Kick-Ass di Matthew Vaughn, brevemente introdotto da Piera Detassis (“a noi è piaciuto molto”), direttore del mensile di cinema Ciak che, assieme alla Eagle Pictures, aveva organizzato l’evento.

Controverso per la violenza spettacolare, acrobatica, grandguignolesca, tarantinesca, che percorre tutto il film e soprattutto per il fatto che per la prima volta una bambina di undici anni è addestrata dal padre (un Nicolas Cage in parte) a resistere alle pallottole spiaccicate sul giubbotto antiproiettile (citazione da Gomorra) e a fare stragi. Con ogni tipo di armi. Alla bambina-ragazzina il babbo vendicativo (non diremo perché per non togliere la sorpresa della storia) non regala Barbie, ma coltelli filippini e pistole di vario calibro.

E lei, Hit Girl (la soprendente e vera protagonista del film, Chloë Moretz, volto e mento irregolari, smorfie  e faccia gommosa, mobilissima alla Jim Carrey), già con una ricca filmografia alle spalle, nonostante la giovanissima età. E’ pur vero che già da tempo Chloë, nelle occasioni pubbliche, viene presentata al mondo agghindata e seduttiva come una ragazza o donna fatta, fornendo non pochi elementi di perplessità morale, ampiamente giustificati in questo caso.

Psicologi, educatori, neuroeticisti, se lo vedranno, andranno a nozze con questo film irriverente, che si fa un baffo (quello che si incolla sulla faccia Nicolas Cage) del “politicamente corretto”. La bambina-ragazzina seduttiva, addestrata alla vendetta e alla violenza, anche se per giusta causa. Una sorta di David in gonnella che sconfigge il Golia del male contemporaneo, incarnato da brutti e rozzi ceffi, anche in giacca e cravatta, di ogni risma, dediti al delitto e al crimine efferato. Il sentimento liberatorio, catartico, che non si può fare a meno di provare, nel parteggiare per i ragazzi che sconfiggono i cattivi, il male, la crudeltà, che infestano le nostre vite e le nostre città, assieme alle paure e alle angosce che percorrono le nostre membra.

 Ragazzi, più un adulto (un simil-batman, Big Daddy-Nicolas Cage), malamente mascherati da supereroi dei fumetti, ma che tali non sono, e dunque subiscono aggressioni e traumi devastanti come qualsiasi mortale. Perciò ci identifichiamo e parteggiamo per loro, dall’inizio alla fine. E tutti quelli che, la maggior parte di noi, guardano dalla finestra, o addirittura filmano col cellulare la violenza, senza muovere un dito per prestare aiuto al malcapitato di turno. All’esortazione “chiama una pattuglia della polizia”, un gruppo di ragazzi preferisce attivare la videocamera del palmare per riprendere l’aggressione e postarla sul social network, piuttosto che usarlo per chiamare le forze dell’ordine. C’è gran parte della nostra vita attuale, e virtuale, in questo film. Il rapporto che abbiamo con gli altri, ad esempio, mediato e filtrato, da questo mezzo: il web.

 E’ un bel film, pieno di sorprese, citazioni intelligenti da altri film, ci si diverte ed emoziona molto, colonna sonora energetica e trascinante, e non c’è un attimo di noia dall’inizio alla fine. Una storia con elementi risaputi (lotta tra bene e male, una mafia newyorkese potente e ridicola, poliziotti buoni e poliziotti corrotti, cattivi veramente crudeli e truci), ma costruita alla perfezione, con qualche lievissimo e perdonabile cedimento. Ulteriore dimostrazione che, con gli stessi elementi narrativi, si possono costruire infinite storie. Dipende da chi combina gli elementi e dalla genialità nel trarne qualcosa di completamente rinnovato. Fotografia entusiasmante, personaggi con facce e tipologia antropologica scelti con minuzia scientifica. Farà discutere anche da noi, come è avvenuto Oltreoceano e come sta accadendo da tempo in Rete. E avrà molti fan tra i giovani, anche da noi. E nel fatidico 2012, uscirà pure il seguito.

E se alla fine vi chiedete perché il cervello è attratto da simili cose, riflettete un attimo sull’ultima volta che vi siete fermati a curiosare gli effetti di un incidente stradale, o quando quei due si sono azzuffati e insultati in luogo pubblico, con un capannello di gente intorno. O magari sul successo televisivo e voyeuristico del parlare fino all’ossessione di crimini irrisolti.