di Arnaldo Ragozzino (*)
La notizia che le neuroscienze avrebbero dimostrato l’inesistenza del libero arbitrio ponendo una fine oggettiva a una plurisecolare disputa andrebbe accolta dal genere umano come una liberazione. Siamo tutti cresciuti nella convinzione di padroneggiare le nostre vite (e di poter rivelare nel mondo) grazie al pensiero cosciente che discerne, stabilisce finalità e percorsi, prevede le conseguenze del nostro agire, si tratti di vita pubblica o relazioni private. Il libero arbitrio è stata la pietra angolare sulla quale è stata costruita la civiltà moderna.
Sappiamo, intimamente, che questa libertà, certo efficace ai fini del nostro equilibrio mentale, è solo una semplificazione. La scoperta delle neuroscienze, dunque, non aggiunge nulla alla verità esperienziale che rivela nei nostri processi decisionali l’influenza prevalente di altre forze. Quando siamo richiesti di farlo ex post, riusciamo sempre a motivare con il pensiero cosciente e la libera volontà perché accogliamo o respingiamo una certa persona, perché decidiamo che cosa fare o non fare in un dato momento. Il nostro agire è però originato da forze più profonde, sottili, inconoscibili, qualcosa che decide prima di noi. La vita di ognuno di noi è continuamente segnata da atti e decisioni di questa natura.
Perché la constatazione che questa libertà non esiste sarebbe una liberazione? Per un motivo su tutti: ridimensionando il ruolo che l’io cosciente esercita nel nostro operato, ci sarebbe risparmiata una volta per tutte la ricerca continua e affannosa della giustificazione. Passiamo la nostra vita a convincerci e a convincere il nostro prossimo della bontà del nostro agire e delle nostre intenzioni, siamo capaci di manipolare fatti e situazioni pur di costruire storie presentabili, che accreditino un’immagine di noi socialmente adeguata.
Questa continua ricerca è il prezzo che paghiamo ai bisogni dell’io cosciente, entità inevitabilmente votata all’affermazione e alla difesa di sé, quindi alla prevaricazione, perfino quando si presenta sotto le sembianze di figure votate al bene dell’umanità. Sapere di essere governati almeno quanto governiamo (se non di più), ci affrancherebbe dall’ossessione di voler essere i liberi artefici del nostro destino. Sarebbe una resa liberatoria, forse dolorosa, in quanto tale passaggio necessario per un’evoluzione.
C’è, poi, anche un altro motivo per considerare benefica la fine dell’idea di libero arbitrio. Il modello di civiltà occidentale basato sul primato dell’individuo, sulla sua libertà di scegliere, sull’intrapresa economica e l’arricchimento si è imposto indiscutibilmente su scala globale, anche nelle società dell’estremo oriente. Dei modelli di civiltà tradizionali, basati sul primato della comunità e dell’interesse collettivo (la sostenibilità non l’abbiamo certo inventata noi!) sopravvivono ormai solo esempi residuali che non hanno alcuna possibilità di costituire un’alternativa desiderabile. Vagheggiare il ritorno a modelli comunitari come risposta alle devastazioni che hanno accompagnato l’affermazione del modello di civiltà occidentale suona patetico. Se però l’uomo riconosce l’inesistenza del libero arbitrio, allora deve necessariamente riconoscere i propri limiti conoscitivi e aprirsi a nuove dimensioni: questa potrebbe essere la premessa per riconsiderare il proprio ruolo nel mondo. Un po’ come accade quando il manifestarsi di una malattia, mettendoci improvvisamente di fronte alla nostra finitezza, ci porta a rivoluzionare il sistema dei valori che governano la nostra vita. Lungi dal prefigurare un’esistenza rassegnata in quanto ineluttabile, l’accettazione che non disponiamo del libero arbitrio potrebbe invece aprirci a piani di conoscenza diversi, più raffinati, portandoci a riconoscere l’importanza e la validità di saperi che abbiamo respinto e messo al bando in quanto non scientifici o irrazionali. Di qui, la possibilità che possa aprirsi una nuova fase nella storia umana.
La decadenza del libero arbitrio impone, infine, un ripensamento del concetto di responsabilità individuale. Se il mio agire è determinato non solo dal pensiero libero e cosciente ma anche da forze inconoscibili e incontrollabili, allora non potrò essere mai considerato responsabile, certo non secondo il convenzionale e consolidato concetto di responsabilità. Di più: qualunque sistema penale ispirato al principio della rieducazione e del reinserimento nella società, sarà inefficace di fronte alle forze che mi governano. Difficile, sul piano della logica, contrastare una tale obiezione che, anzi, andrebbe accolta nell’ottica di una riscrittura dei sistemi di gestione della devianza sociale. Proprio gli studi che hanno sancito l’illusorietà del libero arbitrio c’incoraggiano, tuttavia, a un modo di pensare meno categorico e inducono una diversa visione della responsabilità individuale. Se l’uomo non è solo pensiero libero e cosciente, bisogna necessariamente accettare che alla sua identità concorrano componenti di diversa natura: dalle congiunzioni astrali in atto al momento della nascita all’eredità genetica; dai condizionamenti infantili che ne hanno plasmato e indirizzato l’attività neuronale alla cultura del suo tempo. Se accettiamo questa visione complessa dell’identità, il principio di responsabilità non potrà più essere limitato al solo atto libero e cosciente ma andrebbe associato al fatto stesso di esistere.
(*) giornalista e comunicatore d’impresa (arnaldo.ragozzino@fastwebnet.it)
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Salve, con tutto il rispetto per le opinioni espresse, la domanda che mi pongo è se quindi un pedofilo (per esempio) non è responsabile delle proprie azioni perchè il libero arbitrio non esiste?