Capita che ci si stupisca, inorriditi, della crudeltà umana. Della pervicacia apparentemente senza limiti di infliggere dolore e sofferenza ai nostri simili. Persino da parte di chi dovrebbe dedicare tutto se stesso, invece, per alleviare le sofferenze. Per curare. Possibilmente per guarire. Eppure sono esistiti i medici nazisti. Che non si dovrebbe continuare a definire medici. Ma non solo loro. Non solo quelli processati e condannati a Norimberga.
A guerra terminata. A campi di concentramento smantellati. A quasi due decenni dopo, medici della civilissima Inghilterra, presso i centri sanitari universitari, trattavano i pazienti ospedalieri, ma pure quelli di carceri, orfanotrofi e istituti psichiatrici, come cavie da laboratorio. Effettuando esperimenti crudeli e spesso mortali, che nulla avevano a che fare con la cura del paziente. A rivelarlo fu quello che venne definito un rompicoglioni, una spia. Oggi finalmente riconosciuto come il pioniere della medicina etica. Il whistleblower per eccellenza. Il suo nome era Maurice Henry Pappworth. E nel 1967 pubblicò il saggio-denuncia, in cui rivelava queste crudeltà (proseguite nei decenni successivi nei paesi poveri): “Human Guinea Pigs”. Uscito in italiano, ma poco conosciuto, con il titolo “Cavie umane : la sperimentazione sull’uomo” (Feltrinelli, 1971). E pressoché ignoti, da noi, il nome e la vicenda di Maurice Henry Pappworth. Un uomo e una storia da film.
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