Sabato 6 aprile prossimo si terrà a Roma il sesto congresso di “Medicina biointegrata” e la relazione che mi è stata assegnata riguarderà il tema della resilienza. Con il coblogger Pierangelo Garzia ed il giornalista scientifico Edoardo Rosati, nel 2012 abbiamo pubblicato un libro dal titolo Guarire con la nuova medicina integrata edito da Sperling & Kupfer. Protagonista di questo libro era un mio paziente che a 36 anni si ammalò di tumore alla pleura con prognosi assai severa di pochi anni di vita. Dopo chemioterapia, chirurgia radicale con asportazione di un polmone e radioterapia post operatoria, sapendo, per mia esperienza, che la malattia prima o poi sarebbe ritornata mi sono affiancato a lui sviluppando a 360° un percorso di medicina integrata tradotto poi nel libro prima citato.
Un caso esemplare di resilienza: il mio paziente “Ulisse”
La cosa che mi colpì di questo giovane fu proprio la sua “resilienza” cioè la capacità di convivere con una malattia a prognosi infausta sviluppando la sua attività lavorativa ad altissimo livello e mantenendo il suo rapporto con la famiglia sempre molto protettivo senza mai fare trapelare la sua angoscia di morte. È per questo motivo che nel libro lo abbiamo chiamato “Ulisse” come l’eroe Acheo. Proprio pensando alla straordinaria capacità di Ulisse sono rimasto colpito da un articolo comparso sulla rivista “Internazionale” del 22-28 febbraio 2019, nell’area delle scienze, il cui titolo era “Vulnerabili e contenti”.
Le ricerche di Stephen Suomi sulle scimmie timide
Stephen Suomi è il primatologo che, lavorando per oltre 50 anni, nel Maryland , sui macachi reso si era reso conto che alcuni di questi, già da piccoli, manifestavano timidezza e scarsa capacità di relazione diventando, da adulti, molto simili ad uomini affetti da depressione. In psichiatria prevale l’opinione che alcune persone abbiano una predisposizione genetica per le malattie mentali. Ma perché questo avvenga e si trasformi in malattia è necessario che il soggetto affronti una infanzia difficile che attiva appunto questi geni “vulnerabili”.
Suomi analizzò il DNA di questi macachi timidi ed evidenziò una mutazione genetica che, negli essere umani, è associata alla depressione. Cercò la stessa mutazione in altri primati senza trovarne traccia. “Cosa rende gli essere umani e i macachi reso diversi da altre specie di primati? ”, si chiese Suomi. All’improvviso la differenza gli saltò agli occhi: “la eccezionale capacità di adattamento”. La maggior parte degli scimpanzé o scimmie infatti, al di fuori del proprio habitat, non sopravvive. Gli esseri umani e i macachi reso, invece, hanno prosperato in una grande varietà di ambienti in tutto il pianeta. Di conseguenza Suomi ne ha dedotto che la straordinaria resilienza di queste due specie fosse associata ai geni della vulnerabilità.
I geni e i vantaggi della vulnerabilità
Dopo questa ricerca molte altre prove sui vantaggi che i geni della vulnerabilità inducono sono state riportate dalla letteratura scientifica. In conclusione se n’è dedotto che, se i soggetti con questo fattore di rischio vengono allevati con amore ed adeguato accudimento, risulteranno “vincenti” nella vita esattamente come Ulisse, se invece rimangono orfani o vengono male accuditi esprimeranno la malattia.
La “resilienza” quindi, basata su un handicap biologico può produrre soggetti di successo e diventare quindi una potenzialità genetica vantaggiosa. Se allora riflettiamo sulle ipotesi di Daniel Dennet di un disegno intelligente nell’evoluzione, come da lui ribadito nel suo libro Dai batteri a Bach, alla luce di queste novità scientifiche, bisogna ancora una volta dare ragione a Darwin quando scrisse: la natura non fa progetti ma trova espedienti.
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