Tutto il successo della attuale medicina è basato sulle probabilità statistiche, in altre parole, si prende un farmaco di cui si vuole testare la validità e lo si da al 50 % delle persone malate, all’altro 50 % si da un farmaco la cui attività è già dimostrata oppure si somministra un placebo cioè una pillola senza attività farmacologica. Se i risultati sono statisticamente significativi , a favore del farmaco nuovo, questo viene immesso in commercio. Che questo modo di procedere sia valido lo dimostrano i grandi passi della medicina moderna con il notevole allungamento della vita media. Perché è giusto procedere in questo modo? Semplicemente perché in ogni individuo la malattia può avere un andamento diverso per cui è impossibile prevederne l’evoluzione con esattezza viste le variabilità soggettive ed ambientali.
Anche le guarigioni miracolose fanno parte della casistica generale per cui anche una malattia mortale, in alcuni casi, non porta a morte sia che si vada a Lourdes sia che si stia a casa propria od in un ospedale di periferia. In altre parole, scrive Carlo Rovelli in un illuminante saggio apparso su Micromega del maggio 2015, la medicina ha sempre a che fare con l’incertezza. Facciamo un esempio illuminante se a 500 persone ammalate di polmonite noi somministriamo la penicillina 499 guariranno ed una morirà. Se ad altre 500, anch’esse ammalate di polmonite, invece somministriamo acqua e zucchero 495 moriranno e 5 sopravviveranno. Quindi se una persona è lucida e si ammala di polmonite priviligerà la cura con penicillina invece che quella con acqua e zucchero. La decisione pertanto di prendere la penicillina è basata su una intelligente gestione dell’incertezza.
Fino a non molti anni fa i medici invece si basavano sul caso clinico e sulla loro esperienza diretta per cui se alla somministrazione di un farmaco seguiva la guarigione si convincevano che quel farmaco guariva quella malattia per cui il risultato era un grande uso di pratiche terapeutiche inutili. Classico esempio fu quello dei salassi o dell’uso delle sanguisughe ai primi del ‘900 in quanto, se si osservava una guarigione da salasso, si attribuiva al salasso proprietà guaritrici e quindi si proponeva il salasso a tutti senza rendersi conto che si trattava di guarigioni spontanee e del tutto casuali come sempre avviene. Lo stesso modo di procedere avviene per quelli che si affidano all’omeopatia o ai viaggi Lourdes le cui guarigioni sono del tutto casuali. Da qualche tempo, su internet, è comparsa la terapia della artemisina, una pianta con attività antimalarica, come valida nella cura delle neoplasie. Anche in questo caso è successo che in alcuni casi si sarà osservata una guarigione del tutto casuale durante la somministrazione di artemisina e si è ascritta a questa pianta attività antitumorale. Purtroppo l’artemisina non è una cura contro il cancro e l’unico vantaggio nell’assumerla è quello che non fa male e costa poco se poi qualcuno risponde come potenziamento dell’effetto placebo che ben venga anche l’artemisina. Stiamo però attenti, nella gestione dell’incertezza, a non privilegiare l’artemisina a terapie più consolidate.
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Nell’epoca attuale , soverchiati da un eccesso di tecnicismo, rileviamo un generale ritorno alle medicine alternative, un atteggiamento quasi sospettoso verso l’estrema medicalizzazione. Purtroppo questi atteggiamenti hanno avuto delle derive: da una parte assistiamo al fenomeno di incauti genitori che, sulla pelle dei figli, sperimentano diete folli, evitano le vaccinazioni, ricorrono al parto in casa a volte in modo dissennato. Dall’altra parte assistiamo, sull’onda di una falsa umanizzazione, alle dimissioni precoci o alle dimissioni, punto, di malati che hanno invece bisogno di assistenza continua (mi riferisco in questi casi ai malati terminali).
A mio avviso la prospettiva illuminante è quella di Terzani che, pur ricorrendo alle terapie più innovative, ha voluto sondare anche altri aspetti della cura, della terapia sperimentando, sicuramente da un punto di vista privilegiato, l’incontro con altre “culture” mediche in ogni caso sottolineando quanto fosse basilare il rapporto medico-paziente. Rapporto che dovrebbe partire già dal medico di base ormai trasformato in un burocrate esperto di programmi e di pc che al dialogo con il paziente ha sostituito la compilazione di moduli. E poi, se è vero che l’avanzare delle conoscenze, ha portato inevitabilmente alla specializzazione, non trovo giusto che di fronte a certi disturbi il malato debba passare da vari specialisti prima di appurare il perché del suo disagio fisico. Credo che si debba formare, nel medico, una capacità empatica e anche una visione globale del malato