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Lost: mitologia, pseudoscienza, lostologia e lostopatia

Giunge a conclusione Lost dopo 5 anni di misteri, intrecci narrativi, riferimenti culturali, filosofici e religiosi di ogni genere. Morti e resurrezioni, viaggi avanti e indietro nello spazio e nel tempo. Fantascienza, thriller, horror. Sentimentale, avventuroso, drammatico, persino comico. Praticamente ogni genere narrativo è stato utilizzato e rimescolato per ottenere un serial che non ha eguali nella storia della tv. Lo spettatore regolare di Lost diventa un “credente” in Lost. Attende ogni nuova serie, ogni nuova puntata, con la medesima trepidazione con cui ci si accosta ad un rito. Ancora, oltre che lostologi, studiosi di Lost, si finisce pure un po’ lostopati. Malati di Lost.

La lostdipendenza si cura non solo con una nuova serie – ormai destinata a concludersi (salvo ripensamenti e film successivi) – ma anche attraverso la discussione con le migliaia e migliaia di lostopati sparsi per il mondo e raggiungibili grazie al web. Siccome tutte le categorie classiche sono sovvertite (effetto che precede la causa, tempo che scorre in modo non lineare ma circolare), chi segue Lost si immerge in una esperienza onirica, allucinatoria. In più, inizia a pensare a possibili intepretazioni di quanto seguito, strutturando nella propria mente l’equivalente di una pseudoscienza. Proprio come si tenterebbe di fare al risveglio, cercando di intepretare un sogno. Nel caso di Lost, un incubo.

L’astuzia narrativa e psicologica degli sceneggiatori (J.J. Abrams,  Damon Lindelof, Jeffrey Lieber, Carlton Cuse ) è stata quella di creare un sistema di credenze, dietro apparenti fatti, tali da costituire, in pratica, una fede. Lo spettatore viene progressivamente e sempre più spiazzato, fino ai limiti della credibilità narrativa. Per vedere e soprattutto seguire Lost occorre sospendere il giudizio. Abbandonarsi semplicemente e totalmente alle incongruenze della non-storia. Dove esistono sì personaggi, luoghi e fatti, ma all’interno di ciò che più di una storia è un mito. E come nella mitologia esseri umani interagiscono con esseri misteriosi e soprannaturali, cosi in Lost i protagonisti si rapportano a fenomeni, situazioni e presenze apparentemente soprannaturali. Più che una storia Lost è una atmosfera narrativa, molto simile alla scia di fumo nero che appare e scompare misteriosamente sull’altrettanto misteriosa isola sperduta nelle pieghe spazio-temporali.

Se le credenze religiose, se la mitologia funzionano da migliaia di anni, Lost, costruito sui medesimi principi, agisce sulla mente di quanti (e sono molti milioni nel mondo, con tanto di libri e siti dedicati alla “lostologia”, si veda ad esempio Lost University) lo seguono e vi si appassionano. Se la passione per il soprannaturale, il fantastico e il paranormale è così diffusa, Lost è costruito per tutti coloro che desiderano lasciarsi ammaliare dal mistero e, contemporaneamente, cercarne la soluzione, provare a formulare congetture, costruire ipotesi interpretative. Il trucco sta nel disseminare qua e là simboli esoterici, presenze e rimandi occulti. La mente di chi segue la narrazione sarà indotta a cercarne spiegazione, interpretazione e significato.

Il poster della stagione finale, qui riprodotto, rimanda ai vasti reami oscuri dell’inconscio. Su cui i personaggi, piccini piccini, intrepretano il loro ruolo. Un po’ come un iceberg, di cui la parte sommersa è molto più vasta rispetto a quella che emerge dalle acque. Lost pesca negli archetipi e ce li mostra. Ma non ce li spiega. Se li spiegasse completamente, non sarebbero più archetipi né, tantomeno, misteri. In questo sta la forza di Lost: mostrare e non spiegare. Mostrare e confondere. Potrebbe essere così, ma pure il contario. O in una infinità di altri modi. La fede si nutre e regge su tutte queste antinomie e contrasti.

Il “sommerso” oscuro di Lost è molto più di ciò che si percepisce. E, appunto, tutto ciò che abbiamo visto in cinque anni di episodi, non è mai ciò che appare. Esiste una realtà ordinaria e una più profonda. E Lost rappresenta un universo quantistico dove tutto è possibile e attuabile.

“Tutto sarà spiegato”, promettono gli autori per l’ultima stagione della serie. Ragionevolmente, per poter spiegare tutto quanto avvenuto in Lost, vi sono ben poche opzioni: o è la creazione fantastica di un’unica mente, oppure tutti i soggetti sono stati sottoposti ad un esperimento di immersione in un mondo allucinato, virtuale o, ancora, bisognerà ricorrere ad un espediente da universi paralleli.  Ma una mitologia o una credenza, se pienamente tali, non devono necessariamente trovare conclusione né, tantomeno, spiegazione. Sono tali, punto. Anche se una conclusione così aperta e problematica lascerebbe con l’amaro in bocca gran parte dei lostopati.

Ma c’è un’ultima opzione, la più lineare e semplice. Lost è quello che è: semplicemente un serial tv recitato da un gruppo di attori.

Comunque sia, Lost rimane unico. E diventerà negli anni ancor più serie di culto, sulla scia della mitica Ai confini della realtà – i cui titoli in bianco e nero vengono rievocati nei titoli di testa e di coda in Lost. Un tributo a Twilight Zone, titolo originale di Ai confini della realtà, che conteneva, all’interno di episodi però unici e autoconclusivi, già tutti gli elementi, espedienti e trucchi narrativi di Lost.

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