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Alberto Zanchetti: un altro lungo viaggio


zanchettiEra considerato un genio, Alberto Zanchetti. Fin da bambino. Ma non era vittima di quel narcisismo che lo facesse scalpitare per mettersi in evidenza pubblica. Il suo grande interesse era la medicina. La ricerca biomedica. È già nella storia della medicina, Alberto Zanchetti. In primo luogo per la cardiologia. Di cui è stato testimone e partecipe dei rivoluzionari progressi nella diagnosi e nella terapia dell’ultimo secolo.

Quando Zanchetti iniziò a fare il medico le malattie cardiovascolari, in primis ipertensione e infarto, ma pure le conseguenze a livello cerebrale come l’ictus, falcidiavano e rendevano disabili milioni di persone nel mondo, anche in giovane età. Per Auxologico ha svolto da par suo il ruolo di direttore scientifico per trentatré anni, dal 1985 a poche settimane fa. Professore ordinario di medicina interna e in seguito emerito nella sua Statale. Apprezzato a livello internazionale tanto che l’anno passato la Facultat de Medicina i Ciències de la Salut Campus Clínic di Barcellona gli dedicò una conferenza internazionale intitolata “Alberto Zanchetti the man, the scientist, the friend”.

Alberto Zanchetti ci ha lasciato ieri, sabato 24 marzo 2018. Lo pensavamo immortale, avrebbe compiuto 92 anni quest’anno, lavorando con grande presenza e lucidità, muovendosi su e giù per il mondo come da sua natura, fino alla fine. E, alla fine, Alberto Zanchetti immortale lo è diventato davvero. Un ricordo sulla sua natura internazionale, quando cercando di ricostruire la sua biografia, tirò fuori una foto di un secolo fa con persone di varia etnia, una delle quali con un pappagallo sulla spalla, chiesi: “prof ma questi chi sono?”. “La mia famiglia brasiliana: mia madre era una insegnante brasiliana”.

Era internazionale, poliglotta, come lo erano stati il nonno e il padre. Da Parma, dove era nato il 27 luglio 1926, e dove aveva imparato ad amare l’opera lirica, divenendo amico di tanti cantanti lirici internazionali, Zanchetti approdò al mondo come apostolo della scienza medica. Da Parma alle università di Pisa, Siena e Milano, Alberto Zanchetti ha interpretato la grandezza e le possibilità della medicina.

Il mio modo di onorarlo è la seguente intervista inedita, un documento straordinario, frutto di una intervista fatta a Zanchetti, nello studio della sua splendida casa di via Caradosso a Milano, dove si respirava arte e cultura in ogni angolo, con la finestra che si affacciava su Santa Maria delle Grazie. Una intervista toccante, commovente, in cui c’è tutta la psicologia di Zanchetti che andava subito al sodo, senza tanti giri di parole anche sulle questioni più complesse e spinose, realizzata dall’amico scrittore e giornalista Paolo Pietroni. Avrebbe dovuto uscire su “Oggi” corredata da foto passate e presenti di Zanchetti, per una serie a puntate di servizi giornalistici sui grandi medici del secolo. Ma a seguito di avvicendamenti alla direzione della rivista, l’intervista non uscì. Paolo Pietroni me ne ha fatto generoso dono, ed è venuto il momento di farla conoscere.

Di quella casa di Alberto Zanchetti, mentre Paolo Pietroni lo intervistava, lungo il corridoio come una galleria di opere d’arte, ricordo che mi fermai stupito difronte a una incisione che ho sempre ammirato: Melancholia di Albrecht Dürer. Con la stessa triste malinconia della perdita ricordo oggi Alberto Zanchetti, ma pure con la gioia del privilegio di averlo conosciuto e frequentato per i molti anni del mio lavoro in Auxologico. Ecco l’intensa intervista di Paolo Pietroni ad Alberto Zanchetti: il medico, lo scienziato e l’uomo.

Cenacolo di Leonardo Da Vinci, Milano: a duecentocinquanta passi da qui c’è la casa di Alberto Zanchetti, cardiologo di fama internazionale, da mezzo secolo impegnato nella ricerca sull’ipertensione, una lunga guerra di cui ha vinto numerose battaglie. Non ancora l’ultima, ma ci è vicino. La finestra del suo studio è la cornice di un quadro naturale bellissimo: la basilica di Santa Maria delle Grazie. Non un caso, prima di trasferirsi nel 1967 a Milano, dove ha diretto il centro di ipertensione del Policlinico, Zanchetti ha lavorato all’Università di Siena con il celebre professor Cesare Bartorelli, e la finestra della sua casa di Siena inquadrava la basilica di Santa Maria Assunta, ovvero il Duomo di Siena. E proprio l’arte, dopo la medicina, è la seconda passione della sua vita. Infatti…

Quando ha pensato per la prima volta di fare il medico?

«Non c’è stato un giorno in cui mi sono svegliato e mi sono detto: faccio il medico. Studiavo al liceo classico durante la seconda guerra mondiale, a Parma, ho preso la maturità verso la fine della guerra, appartengo a una generazione che si considerava “onnisciente”, la scelta finale era difficile, si sfogliava la margherita… Io ho trovato nell’aspetto biologico della medicina qualcosa di umanistico e scientifico insieme. Questo alla fine mi ha affascinato: medicina come miscela di scienza e di arte. Nel mondo della scienza dominano la razionalità e la ricerca della conoscenza, nel mondo dell’arte la fantasia e la ricerca della bellezza. Un medico, secondo me, ha bisogno di vivere in entrambe le dimensioni. Ha un po’ dello scienziato quando studia, ha un po’ dell’artista quando pratica il suo rapporto quotidiano con i pazienti».

Avere un medico per amico è un desiderio di tanti. Può nascere una profonda amicizia tra medico e paziente?

«Trasformare il proprio paziente in amico è difficile. C’è un problema di tempo. Esperienze brevi. A volte lunghe malattie croniche. Io ho buoni amici tra i pazienti che vedo due o tre volte l’anno».

Un rapporto di amicizia interferisce positivamente nel decorso della malattia?

«Si capisce meglio il problema del paziente. Il medico dovrebbe essere qualcuno che non spoglia il paziente soltanto dei suoi vestiti».

Lei è stato un uomo molto bello (lo è ancora all’età di 82 anni). Cosa accade quando una paziente si innamora?

«Bisogna fare finta che non sia successo niente».

Cioè?

«Fare finta che non sia successo. Che non sia successo. Tutto qui».

Qualcuno sostiene che l’amore in generale sia di grande aiuto per uscire dal tunnel della malattia, così un innamoramento improvviso…

«Credo che capiti più nelle malattie psichiche. Bisogna sempre tenere le distanze da questi problemi. Capire è figlio di non capire… Indubbiamente è importante che un paziente trovi una ragione di vivere altrove, cioè fuori dalla malattia. Ma non credo possa esserci un riflesso concreto dell’amore sul processo patologico».

Tra le sue tante esperienze, ce n’è una in particolare che non dimenticherà mai?

«Forse la mia prima diagnosi. Mi viene da pensare al primo amore che non si scorda mai. Eravamo alla fine degli anni 50. Avevo da poco cominciato a lavorare all’ospedale di Siena… Viene ricoverata una ragazza di 19 anni, studentessa di liceo, simpatica, vivace, grassottella. Soffre di una grave forma di ipertensione. Facciamo un’arteriografia (una specie di corrida in quegli anni: s’infilava un lungo ago nella schiena fino a raggiungere l’aorta addominale). L’esame evidenzia un serrato restringimento dell’arteria renale. Un brutto guaio, non si utilizzavano ancora i by-pass e l’angioplastica non era nemmeno stata immaginata. L’unica via per salvare quella ragazza era l’asportazione del rene: che dramma per una diciannovenne! Ma dieci anni dopo la rividi: era una mamma felice, era una donna sana».

C’è stato un momento di crisi, la tentazione di tornare indietro e fare altro?

«No. Io non mi volto indietro. Mai».

Neppure quando ha visto per la prima volta morire qualcuno?

«La prima persona che ho visto morire è stata mia nonna. Avevo appena iniziato gli studi all’università…Io penso che le morti che offendono sono le morti nell’età in cui non si dovrebbe morire. Non sarei mai riuscito a fare il pediatra. Avrei sofferto troppo. Perché i bambini non dovrebbero morire. Solo questo avrebbe potuto mettermi in crisi».

Quando si è laureato credeva in Dio?

«Credevo in Dio, nel Dio della Chiesa cattolica. Ci credo ancora. Tutti superiamo  prove dure. Anch’io».

Chi crede e chi non crede. C’è una qualche differenza nell’affrontare la malattia e, in ultimo, la morte?

«Ogni persona è unica. Ma in generale il paziente che crede è molto più disposto ad affrontare la sofferenza e il momento del distacco. Il credere nella vita che continua è un aiuto per affrontare il dolore. In ogni caso noi medici dobbiamo fare tutto il possibile nella terapia contro il dolore».

I miracoli, dicono gli scienziati, non esistono. Lei ha avuto l’impressione di averne visto qualcuno?

«Mai. Nessun miracolo».

Diciamo che Dio esiste e per ringraziarla di tutto quello che ha fatto come medico le regala una grazia: lei può sconfiggere una malattia. Una sola, e per sempre. Quale sceglie?

«Quella di cui è morta mia moglie. Tumore ovarico. Non perché sia la malattia più importante. Ho amato tanto mia moglie. Vorrei che questo dolore non capitasse più a nessuno».

Ricorda la prima volta che ha visto sua moglie? Quando si è acceso l’amore?

«L’ho incontrata nel laboratorio di fisiologia a Pisa in cui lavoravo. Anno 1955. Era una studentessa di biologia… Lei aveva 22 anni e io 29. Eh già. Era una ragazza alta, magra, occhi azzurri… Nessun colpo di fulmine. Le cose importanti della mia vita non sono mai arrivate all’improvviso, sempre con dolcezza, a poco a poco. Nuvole bianche, niente lampi, niente tempeste».

Lei ha studiato, ha sperimentato, ha fatto tante cose. Se potesse essere ricordato, nella storia della medicina, per una cosa soltanto, quale vorrebbe che fosse?

«Alberto Zanchetti: uno tra i protagonisti che, negli ultimi cinquant’anni del secolo scorso, hanno portato l’ipertensione da malattia mortale a malattia curabile. Quando il presidente americano Franklin Delano Roosvelt morì nel ’45 si disse: ha battuto Hitler ma non l’ipertensione. Allora l’ipertensione non si curava (si dava la papaverina a quelli che avevano un ictus). Oggi l’ipertensione, diagnosticata al momento giusto, si cura e non si muore più. Anzi curare l’ipertensione significa prevenire le malattie cardiovascolari. Mio nonno è morto di ictus. Mia nonna anche… Bisogna diffondere la cura dell’ipertensione: solo un terzo degli ipertesi viene curato. E bisogna capire grazie alla genetica chi è predisposto: qui sta il futuro. Il fattore di rischio: tra chi ha la pressione alta e chi l’ha bassa».

Se io chiudo gli occhi e ascolto solo la sua voce, penso a un uomo di trent’anni. La vecchiaia. E’ davvero un processo naturale? Oppure, come afferma qualche biologo, è una imperfezione che riusciremo prima o poi a eliminare?

«Ogni uomo invecchia a modo suo. Diversamente non ci sarebbe più la selezione. Già oggi una persona anziana rispetto a cento anni fa (la cataratta, per esempio, non si operava neppure) vive meglio, molto meglio. La vita si allunga e si arriverà a una media di 120 anni: invecchiamento rallentato ma non l’eterna giovinezza. La vecchiaia è naturale. Non ci fosse più, scoppierebbe il mondo».

Lei ha percorso un lungo e straordinario viaggio tra gli uomini, potenti e non potenti, ricchi e poveri, belli e brutti, grandi e meschini. Dia una risposta: da dove veniamo e dove andiamo?

«Veniamo da dove sono venuti i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri bisnonni… La memoria si ferma lì. Mia moglie aveva un albero genealogico che risaliva a Ruggero il normanno. Quanto a me, una parte delle mie radici sta in Brasile. Mia nonna materna (governava la casa) era nata a Parma ma aveva vissuto lungamente in Brasile e in Brasile aveva incontrato l’amore e si era sposata. Nell’occasione delle nozze il suocero, Almeida Morera, regalò la libertà a uno schiavo: era l’anno 1983, così si usava ancora venticinque anni fa. Il mio bisnonno materno faceva l’agente consolare in Brasile. Si chiamava Enrico Schivazappa (1847-1890), frequentava gli indios dell’Amazzonia, fumava insieme con loro la pipa, ha conosciuto il rito di svuotare e bollire le teste dei nemici, trasformate così in miniature».

Brasile e Parma, che intreccio, un oceano di mezzo…

«Mia madre è nata in Brasile. I miei genitori erano entrambi maestri di scuola. Insegnavano a Parma. Avevo un fratello più grande di me, morto da bambino di appendicite. Io ho tre figli, nessuno ha fatto il medico, fortunatamente».

Perché fortunatamente?

«Non amo le dinastie… Anche se le radici sono radici. La nonna parlava in portoghese con le figlie e le sorelle perché i nipotini non capissero. Ma raccontava a noi bambini di serpenti che entravano in casa la notte, di fantasmi, di incantesimi… Che incanto usciva dalla scatola magica della sua memoria!».

E’ stato quello il primo incanto di un mondo contrapposto alla razionalità e alla scienza, il mondo della fantasia e dell’arte?

«Forse. Ancora oggi, quando mi perdo a guardare le incisioni di uno degli artisti che amo di più, Albrecht Dürer, in fondo provo un incanto simile».

C’è un’opera particolarmente incantante e incantevole per lei?

«Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo. Bellezza e mistero. Interpretazione differente secondo Volantino congresso in onore Prof. Zanchetti_Pagina_1.jpgil momento della vita in cui la guardi. Emozione forte. Ognuno può essere quel cavaliere. Sappiamo da dove veniamo, non sappiamo dove andiamo. Ma andiamo, nonostante la Morte, nonostante il Diavolo. E’ la vita».

Emozione forte, e piena, come quella di un fanciullo, che si accende negli occhi celesti di Alberto Zanchetti anche ora. Siamo davanti a un enorme computer, una macchina che ha un nome fatale: Illumina. Siamo in un  centro di ricerca dell’Istituto Auxologico di Milano. La macchina è costata 500 mila euro. Analizza il dna estratto dal sangue dei pazienti: tanti vetrini insieme (96 per volta). Alla fine, ogni volta, dà un milione di dati. Evidenzia le diversità tra persone ipertese e normalmente tese. Obbiettivo: vedere cosa distingue il genoma dei cinquantenni mai colpiti da un ictus dal genoma dei cinquantenni colpiti da un ictus. Grazie a questa macchina, tra qualche decennio non ci saranno più ictus nell’età giovanile. È anche lei una scatola magica. Fabbricata nella lontana America.

Alberto Zanchetti direttore scientifico dell’Auxologico