Su Corriere Salute di domenica 17 giugno è comparso un lungo articolo sulla resilienza, un concetto che nasce dalla fisica ed indica la capacità di un materiale di resistere a deformazioni ed urti senza spezzarsi. La parola col tempo ha ampliato il suo campo di applicazione per cui si parla di resilienza nei tessuti ed in biologia. In altre parole è la capacità di ecosistemi e organismi di ripristinare le proprie condizioni di equilibrio dopo un intervento esterno. Nel caso del “malato” si tratta della capacità di assorbire un urto come la malattia, senza però frantumarsi.
Ricordo un caso clinico di tanti anni fa che ora, alla luce di questo concetto di resilienza, posso interpretare meglio. Presso il reparto di pneumologia dell’Ospedale Ca’ Granda di Niguarda avevamo sviluppato un’area dedicata alla oncologia polmonare e, personalmente, avevo instituito un registro sui tumori della pleura, noti come mesoteliomi e correlati alle fibre di asbesto, in particolare all’Eternit. Questi tumori purtroppo hanno una evoluzione che difficilmente consente ai malati di sopravvivere per lungo tempo in quanto le cure sono poco efficaci. Solo da pochi anni è comparso un farmaco noto come Alimta che ha dimostrato una buona attività contro questa malattia.
Eravamo negli anni ’80 ed io feci diagnosi di mesotelioma ad un uomo di 55 anni, ex giocatore di hockey. La prima affermazione che egli espresse con decisione al momento della diagnosi fu la seguente: caro dottor Soresi io vivo solo con mia madre e le assicurò che non potrò morire prima di lei. Da quel momento passarono circa 8 anni in cui il paziente veniva a visita regolarmente e tutto il quadro clinico sembrava essersi cristallizzato.
Il tumore pleurico che, al momento della diagnosi, era già di discrete dimensioni, rimase stazionario ed il paziente godeva di una buona qualitò di vita ed accudiva la vecchia madre con abnegazione. Morta la madre la malattia in pochi mesi dilagò e l’ex giocatore di hockey morì nel mio reparto con grande serenità per avere portato a termine il suo compito.
Fra pochi mesi verrà pubblicato da Sperling & Kupfer un libro dal titolo “Guarire con la nuova medicina integrata” scritto da me in collaborazione con due giornalisti scientifici, Pierangelo Garzia ed Edoardo Rosati, ed il flusso narrativo sarà proprio correlato ad un giovane ammalato di tumore alla pleura che, grazie alla sua resilienza, convive con questa malattia, ben controllata da una serie di cure integrate, ormai da parecchi anni. Grazie alla sua forza d’animo, come ha definito la resilienza la psicologa Anna Oliverio Ferraris, il giovane conduce una vita pressoché normale ed affronta con grande serenità e determinazione i vari momenti fortemente stressanti diagnostici e terapeutici della sua malattia. Personalmente lo considero un figlio adottivo e chiaramente tifo per la sua completa guarigione.
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….può aggiungere anche la mia piccola esperienza che dopo il fattaccio al polmone,uscita da ospedale e clinica, senza alcun supporto affettivo e pratico mi sono “tirata fuori” ripetendomi c’è qualche cosa di bello avanti, vai !!! …. in seguito il suo aiuto con parole tipo “abbiamo lavorato bene!” ecc. hanno completato tutto.
Ho,poi, letto l’ articolo su Domenica Sole 24ore di domenica scorsa -Dottore,lei è il mio placebo- e lo collegherei all’articolo del Corriere e a questo suo scritto. Ho scritto una GOSSA CASTRONERIA ? Spero di no cerco di immagazzinare nuove conoscenze e poi sbaglio gli incastri.
Cara signora il placebo giustamente si identifica con la resilienza che però è qualcosa di più in quanto nasce dalla capacità di accettazione della malattia da parte del soggetto. Sicuramente il ruolo del medico è importante in quanto dalla relazione medico paziente nasce la potenzialità di guarigione
Barcollo, ma non mollo! 😉
La lettura di questo articolo capita in parallelo ad un articolo sul Corriere che metteva a confronto gli effetti positivi delle cure, basate su un sempre rinnovato miglioramento delle terapie, e l’inderogabile necessità di fornire al malato un apporto affettivo e concludeva che, purtroppo, non sempre o quasi mai una carezza può guarire. Ho unito le mie osservazioni a quanto sopra detto sulla resilienza, ho ormai assistito molti cari compagni di vita che se ne sono andati, che mi sono scivolati via e quasi tutti in una panorama sconcertante di sofferenza e di degrado fisico.Erano tutte persone che amavano la vita ed avevano sufficienti ragioni per continuare a vivere…..ma non è andata così. Mi è parso di capire che c’è un punto di non ritorno nella sofferenza fisica durante il quale difficilmente gli strumenti mentali, le modalità esistenziali, pur positive, di una persona aiutano e ho sempre pensato che non dovrebbe essere cosi, che certi orizzonti di senso, di conoscenza maturati e coltivati nel corso della vita dovrebbero intervenire e supportare. Conosco solo un caso, un mio collega di lavoro, divorato in pochi mesi da un tumore implacabile. Dimagriva a vista d’occhio ma è stato presente sul lavoro fino al giorno prima della dipartita, non ha mai parlato apertamente della sua sofferenza. Se ne è andato per un motivo indipendente dalla sua malattia, stroncato da un infarto, in una torrida giornata di giugno, una settimana prima nel corso di una serata tra amici aveva cantato con me tutte le canzoni del repertorio di Battisti e nelle sue notti insonni aveva preparato tutti i pagamenti, tutto il bilancio famigliare per consentire alla moglie di non sentire lo spaesamento delle scadenze fiscali, immancabili. Era un filosofo …forse questa sua morte direi eroica non è stato un caso. Ha certamente lasciato un segno in me e in tutti quelli che lo hanno conosciuto, la stessa cosa che succede quando una stella muore…la sua luce continua a brillare, l’universo conta un palpito in più e ci si sente meno soli. In lui non c’è stata resa e questa è la lezione dei grandi.